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14/05/2018

Portuali in strada - Lo sciopero dei lavoratori portuali a Genova

È difficile per chi non vive a Genova immaginare che nel 2018 esista ancora un luogo di lavoro dove poco più di 3.000 persone operano all’interno dello stesso ciclo produttivo – 365 giorni l’anno 24 ore al giorno – con condizioni complessive, anche dal punto di vista contrattuale non molto dissimili.

Questa “fabbrica” si chiama porto, ed è lo snodo cruciale della distribuzione della merce (e della rotazione dei semi-lavorati nella filiera produttiva globalizzata) ed un punto nevralgico della catena del valore italiana, considerato che i moli e le banchine della Superba sono l’accesso e lo sbocco al mare del sistema produttivo del Nord-Ovest.

In un articolo di Marco Morino del 26 aprile di quest’anno su Il Sole 24 Ore, dall’eloquente titolo: “Piano da un miliardo per collegare i porti alla rete ferroviaria. L’obiettivo è spingere le merci sui treni”, l’autore passa in rassegna gli investimenti ed i progetti relativi agli scali portuali di Napoli, Venezia, Trieste, Livorno e degli interporti di Trento (Interbrennero), Verona, Bologna e Padova.

A fine articolo Morino prende in considerazione il Nord Ovest e scrive: un accordo quadro per lo sviluppo del trasporto merci su ferro in Piemonte, Lombardia e Liguria, il cuore industriale del Paese, è stato firmato da Rfi e regioni lo scorso 19 ottobre. Numerosi gli interventi programmati per incrementare il traffico merci su ferro nelle regioni del Nord Ovest, che prevedono il potenziamento della rete ferroviaria, l’adeguamento agli standard internazionali per il trasporto delle merci e una migliore connettività ai porti e alle infrastrutture di interscambio strada/mare-ferrovia.

Considerato che il sistema produttivo italiano si sta ri-configurando secondo le linee guida dell’Industria 4.0 legando i territori a Nord di una nuova ipotetica Linea Gotica alla locomotiva franco-tedesca, cioè al “centro” dell’Unione Europea, l’importanza dello scalo ligure appare in tutta la sua rilevanza.

In generale, il blocco sociale dominante, esprime sempre di più la coscienza della centralità dell’economia marittimo-portuale, Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria, non poteva essere più chiaro quando ha affermato: Confindustria auspica che il prossimo governo voglia istituire un ministero per il Mare che sappia e possa dare impulso e sviluppo a una delle componenti più brillanti della nostra economia, in grado di produrre ricchezza e creare occupazione per il Paese.

Alla luce di tutto questo, e di ciò che spiegherò in seguito, lo sciopero portuale nazionale dell’11 maggio che ha avuto uno dei suoi epicentri proprio nel capoluogo ligure assume un profilo che va al di là del mero fatto di cronaca cittadina o della rilevanza esclusiva rispetto al comparto, e ben oltre forse gli stessi “paletti” sindacali, tra l’altro ampiamente oltrepassati da chi è stato cuore e motore della mobilitazione.

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Nel porto di Genova, lavorano principalmente nel carico-scarico merci, due tipologie di lavoratori: i dipendenti dei terminali assunti dai terminalisti che hanno in concessione le banchine dall’Autorità Portuale – uno strumento di governance portuale recentemente rinnovato dalla Riforma Portuale, alla cui testa siede un presidente di nomina capitolina – e i lavoratori della Compagnia Unica Lavoratori Merci Varie – Paride Battini, dal nome dello storico “console” deceduto alcuni anni fa.

Per la stragrande maggioranza si tratta di lavoratori a tempo indeterminato, con ancora relative garanzie contrattuali (di primo e secondo livello), in un settore economico che negli anni ha macinato una mole gigantesca di profitti sulle spalle dei lavoratori, costretti strutturalmente al lavoro straordinario (doppi e tripli turni) per espletare le operazioni relative ai carichi di lavoro in condizioni di strutturale mancanza di organico adeguato e per poter godere di una busta paga più congrua all’incremento del costo della vita.

Un dato, fornito dal volantino distribuito nel corso dello sciopero dal Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali – una delle anime più determinanti della mobilitazione genovese – da una idea di questa dinamica: “dall’anno di crisi del 2009 a oggi il numero dei container movimentati (che totalizza l’85% del traffico delle merci varie) è cresciuto del 70% a parità di lavoratori impiegati direttamente dai terminalisti e dei lavoratori soci della CULMV”.

Certamente nello scalo ligure non esistono, o sono molto marginali, quelle forme che hanno caratterizzato lo sviluppo del retroterra logistico e in generale del mercato del lavoro in Italia, cioè la presenza di “false cooperative” che gestivano una forza lavoro semi-schiavile con logiche di impiego al ribasso o di agenzie di intermediazione di mano d’opera, multinazionali del lavoro interinale che di fatto stanno sempre più monopolizzando il “mercato delle braccia” dopo la fine degli uffici di collocamento e il progressivo svuotamento di funzione dei centri per l’impiego.

Rimane il fatto che le condizioni di iper-sfruttamento determinano una progressiva erosione degli standard di sicurezza adeguati, incrementando la possibilità di infortuni, anche mortali.

La questione della sicurezza era uno dei nodi dello sciopero.

In questo contesto di rinnovata aggressività delle multinazionali del mare e dell’accondiscendenza delle istituzioni sulla condotta dei grandi operatori del settore marittimo-portuale, che intendono imporre i propri diktat, due sono le principali minacce che incombono all’orizzonte: una più tangibile come l’auto-produzione, l’altro il “salto” tecnologico possibile nel lavoro portuale.

L’auto-produzione è una pratica illegale, ma a cui si fa sempre più ricorso; consiste nel far svolgere il lavoro di carico-scarico delle merci al personale di bordo e non ai lavoratori portuali, svolgendo di fatto tali operazioni con margini di sicurezza inferiori (anche a causa del tasso di sfruttamento degli equipaggi), sottraendo possibilità di lavoro a una mansione che è specificatamente portuale e di fatto riducendone la forza contrattuale dei portuali, legittimando un modus operandi che non fa che aumentare lo strapotere dei grandi player marittimo-portuali e dei loro consociati locali.

È una lotta che è stata rilanciata a livello europeo...

Su questo punto la piattaforma lanciata dal CALP è molto netta: “A questo si aggiunge un problema sempre più quotidiano, l’autoproduzione sulle navi, banchine ed aree portuali, su cui deve esserci un controllo dalle autorità competenti, soprattutto per il rispetto delle leggi, delle norme inerenti alla sicurezza e alla tutela della salute dei lavoratori nei siti in cui operano.”

L’automazione e la conseguente “disoccupazione” tecnologica, che ne è una conseguenza diretta, interessano i lavoratori portuali come quella fascia sempre più consistente di lavoro manifatturiero, e non solo, investito dalle trasformazioni dell’Industria 4.0, uno spettro che è una minaccia concreta considerate le trasformazioni di molti scali del Nord Europa.

Anche su questo la Piattaforma del Collettivo è molto chiara: “Ci domandiamo se coloro che stanno spianando la strada all’automazione si stiano chiedendo chi pagherà le tasse e i contributi di coloro che verranno sostituiti dalle macchine, perché le aziende che implementeranno con mezzi automatizzati non lo faranno nell’ottica di alleggerire il carico di lavoro al personale ma di risparmiare sul personale, aumentando la produttività ed implementando il tasso di sfruttamento della manodopera rimanente, e proprio per questo siamo a degli snodi cruciali che non sono trascurabili.”

Un altro aspetto rilevante e l’ultimazione della piattaforma portuale a Vado-Savona, per le possibili implicazioni che avrebbe per tutti i lavoratori portuali ed in genere per la sua caratteristica di possibile mutazione radicale delle relazioni industriali in campo portuale, secondo una modalità già sperimentata nell’industria manifatturiera (si pensi al caso della FIAT di Melfi), in cui “partendo da zero” si potrebbe contare su una forza lavoro non sindacalizzata, senza alcun orientamento politico, gestita a piacimento dall’azienda e tra l’altro rientrante in quelle “nuove regole” del mercato del lavoro in entrata ed uscita inaugurate dal Pacchetto Treu nel 1997, durante il governo Prodi, e completate dal recente Job Act con il governo Renzi.

Il volantino distribuito dal Calp allo sciopero fa chiara luce su questo aspetto: “A Vado Ligure, la promessa di 650 portuali fatta 7 anni fa, quando Maersk ha ottenuto la concessione e un ricco finanziamento pubblico per il nuovo terminal, si è già ridotta ufficialmente a 400 portuali e l’attività non è ancora cominciata. Una forza lavoro tra l’altro frammentata in dipendenti, soci della Compagnia, cooperative ex art.16 e quant’altro. Alla faccia dell’unificazione per legge del sistema portuale di Genova e Savona”.

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L’adesione allo sciopero è stata pressoché totale su tutto il territorio nazionale, e c’è stata una significativa presenza alla manifestazione partita dal ponente cittadino, arrivata in Centro Città a Palazzo San Giorgio, sede dell’Autorità Portuale, mentre i valichi portuali erano bloccati e presidiati per impedire l’accesso ai TIR.

Tre sono gli aspetti che sono emersi con maggiore chiarezza dalla mobilitazione, parimenti importanti per i possibili sviluppi successivi di questo sciopero.

Un primo aspetto è il blocco e il presidio dei varchi portuali – a cui il CALP ha dato un contributo indispensabile – che avviene nelle principali arterie stradali in prossimità agli accessi agli scalo portuali – e che non solo paralizza il traffico su gomma dei TIR, ma che di fatto costituisce un impatto rilevante sul traffico cittadino dando la giusta visibilità alla protesta e la necessaria efficacia alla lotta.

Un secondo aspetto è stata la presenza rilevante dei lavoratori della CULMV, che sono scesi in strada anche con i propri “pesanti” mezzi di lavoro, una rappresentazione plastica della forza di questo comparto in grado di “ribaltare” la retorica della ruspa usata dall’imprenditore del razzismo Salvini, ora tra l’altro in procinto di essere parte qualificante della maggioranza governativa.

Le “giacchette rosse” sono state una presenza visibile di questa realtà lavorativa di circa un migliaio di soci che il fuoco incrociato dei padroni del mare vorrebbe altamente ridimensionata in ogni senso.

Sciopero e manifestazione sono stati un messaggio chiaro a chi conduce quotidianamente attacchi a questa fondamentale componente del lavoro portuale senza fare i conti con la forza che questi lavoratori sono in grado d’esprimere.

Un terzo aspetto significativo, e più “politico”, è il ruolo assunto da tanti attivisti che non rinchiudono all’interno del Porto la propria azione e che non esauriscono la propria iniziativa all’interno dei perimetri prettamente sindacali; un protagonismo che è il risultato dei percorsi politici pregressi, che si riversano anche rispetto alla questione portuale specifica e che sono una risorsa preziosa per una città che si sta mobilitando su differenti fronti (si pensi solo alla vertenza dell’ILVA e alla sempre più marcata presenza neo-fascista in città).

Partendo da questo ultimo assunto, non è peregrino pensare il ruolo rilevante che i camalli potranno assumere nuovamente in città sia in sostegno a vertenze specifiche sia a mobilitazioni più generali, come è successo a Barcellona nell’autunno di quest’anno nelle mobilitazioni “indipendentiste”, o in Francia (in particolare a Marsiglia e Le Havre) oggi contro la Macronie, ieri contro la Lois Travaille voluta da Hollande.

“Rebel until the End” è uno slogan del CALP che campeggia su differenti muri della città e del porto, il cui senso profondo è ancora patrimonio di una importante fetta di una classe operaia combattiva incline “a vendere cara la pelle”, possibile perno per la ricomposizione di un blocco sociale da tempo privo di un preciso riferimento che ne porti lotta per i propri interessi.


Foto di Romeo Pellicciari

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