di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Fuori dalla sede del
Partito comunista iracheno, a Baghdad, sventolano le bandiere della
Sairoun Alliance, la coalizione nata in occasione delle parlamentari tra
il movimento del religioso sciita al-Sadr e la fazione marxista.
Dentro, i poster di membri del partito uccisi o arrestati nelle varie
ondate repressive. Nessun riferimento all’Islam, caratteristica che ha
accompagnato la lunga vita, quasi centenaria del Pci, e che muove dubbi
sulla scelta di unire le proprie forze a quelle di un movimento
religioso.
Il segretario, Raid Jahed Fahmi, è di opinione diversa: al
centro dell’alleanza tra laici e islamisti, tra comunisti e sadristi,
stanno i poveri, la classe operaia e una cittadinanza devastata
economicamente e socialmente da corruzione e disoccupazione: «Sempre più persone – dice in un’intervista a Middle East Eye –
iniziano a capire che i loro problemi non dipendono dalle differenze
tra comunità, ma dall’incapacità e corruzione del governo, da cattive
politiche economiche. Molte idee di Marx sono attualissime,
specialmente quelle sulla globalizzazione. Siamo ancora ispirati dall’approccio marxista, nel modo di analizzare la società, la proprietà, la natura delle contraddizioni».
Tra pochi giorni le urne daranno il verdetto. Oggi si aprono: 24
milioni di iracheni sono chiamati a eleggere il nuovo parlamento, 329
deputati che nomineranno primo ministro e presidente. Il voto è iniziato già giovedì per 800mila membri di polizia ed esercito e per 850mila cittadini all’estero.
A questi si aggiungono milioni di sfollati interni
su cui i numeri variano, come variano le previsioni di effettiva
affluenza alle urne: se nel 2014, con l’inizio dell’occupazione
dell’Isis dell’ovest del paese, gli sfollati raggiunsero la cifra record
di 6 milioni, oggi sono calati (2,9 milioni secondo l’Unhcr, 2,6 per
l’agenzia Ocha).
Nei giorni scorsi la Commissione elettorale ha garantito il
diritto al voto, dopo che la stampa aveva denunciato l’impossibilità per
chi non risiedeva più nel proprio territorio di infilare la scheda
nell’urna. In particolare per chi viveva nelle zone contese tra
il governo centrale di Baghdad e il governo regionale del Kurdistan,
ovvero Kirkuk e Sinjar. Secondo la Commissione non c’è da temere: gli
sfollati potranno votare in 166 seggi dedicati in 70 campi nel Kurdistan
iracheno.
Difficile capire che ne sarà delle centinaia di migliaia di sfollati
che non hanno mai trovato ospitalità in campi riconosciuti, bloccati in
una terra di nessuno, a sud di Kirkuk e a ovest di Mosul. Sono sunniti,
provenienti dalle province di Anbar e Ninewe, le più colpite
dall’occupazione del «califfato», liberate nel corso degli ultimi due
anni ma mai ricostruite.
Al centro della sfida elettorale sta proprio il post-Isis,
variamente declinato: la ricostruzione fisica, ma soprattutto quella
politica, con i tentativi dei vari fronti di superare i settarismi che
hanno dilaniato l’Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein. A
contendersi i 329 seggi saranno 6.990 candidati di 87 partiti diversi,
di cui 2.011 donne a cui saranno garantiti 83 seggi (il 25%). Altri nove
seggi sono riservati alle minoranze.
Sul fronte sciita lo scontro principale sarà interno all’ex
coalizione Dawa: il premier uscente al-Abadi si presenta con la Nasr
Coalition (Vittoria) contro il predecessore al-Maliki a capo di State of
Law.
Il primo porta alle urne il suo bagaglio: la (quasi) sconfitta
dell’Isis, l’evitata indipendenza curda, la risalita della produzione
petrolifera e il manifesto Vision 2030, riforme ispirate a quelle
saudite condite con una caccia al voto sunnita in chiave
anti-settaria con candidati misti e provenienti da tutte e 18 le
province irachene e (prima volta nella storia) comizi nelle zone curde e
sunnite. Ma porta anche aumento della disoccupazione, calo dei salari e corruzione rampante.
Terzo incomodo sarà la Sairun Coalition di al-Sadr e Pci, con il
primo interessato a solidificare la figura di leader non settario ma
nazionale costruita negli anni mobilitando decine di migliaia di persone
in campagne anti-corruzione.
E infine, quarta formazione sciita, le unità di mobilitazione
popolare, le milizie legate all’Iran che puntano al riconoscimento
politico per il ruolo nella campagna di liberazione dall’Isis: si
presentano con la coalizione Fatah (Conquista), guidata da Hadi
al-Amiri, capo delle milizie Badr, le più potenti oltre che le
più direttamente legate a Teheran, armate e addestrate dalle unità al
Quds del generale Suleimani. Una fedeltà che apre a un ampliamento della
già radicata influenza iraniana (come accadrebbe con al-Maliki), a cui
altre correnti (lo stesso al-Abadi ma anche al-Sadr) hanno fatto muro
presentandosi nei mesi scorsi alla corte saudita.
Per i curdi correranno i due rivali di Puk e Kdp, oltre al partito di
opposizione Gorran, entrambi indeboliti dal fallimentare referendum per
l’indipendenza del settembre 2017 e delle faide interne ai clan di
riferimento, Talabani e Barzani.
Chi punta alla rinascita è il frammentato fronte sunnita,
marginalizzato dal governo sciita post-invasione Usa e appesantito da
una leadership ormai poco credibile, dalle limitanti appartenenze
tribali e dall’incapacità di difendere i territori dall’Isis.
Due le liste principali: al-Qarar al-Iraqi, con a capo l’attuale vice
presidente al-Nujaifi e il fratello governatore di Mosul, e Wataniya
Alliance dello speaker del parlamento al-Jabouri. Deboli e divisi: più
di un analista prevede che tanti sunniti voteranno al-Abadi, comunque
popolare in tutto il paese.
L’orizzonte politico è dunque destinato a cambiare, ad
accantonare il motto «demografia è democrazia», scusa a governi
esclusivamente sciiti? Improbabile: le nuove posizioni
anti-settarie di leader storicamente portatori di interessi di parte,
confessionali o tribali, appare un mero make up retorico necessario a
invogliare una popolazione delusa, stanca di divisioni, attentati,
invasioni. E su cui ora più di prima pesano i potenti vicini, Iran e
Arabia Saudita.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento