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17/05/2018

Lega e Cinque Stelle chinano la testa e accettano i diktat europei

Per un giorno è sembrato di esser tornati alla fine del 2011. Lo spread è improvvisamente risalito (anche se quota 150, rispetto al Bund tedesco, è poca cosa a confronto della quota 575 che costrinse Berlusconi a lasciare il posto a Mario Monti); la borsa italiana, è stata la peggiore d’Europa; tutti i quotidiani mainstream hanno tuonato contro la “bozza di contratto”; i vertici europei hanno ricordato che in Italia come altrove si può eleggere “qualsiasi governo”, tanto dovrà fare solo quello che viene ordinato da Bruxelles; i troll sui social hanno prodotto quintalate di ironia e disinformazione (senza che nessuno se ne lamentasse, stavolta).

Se Di Maio e Salvini avevano avuto in mente di poter spostare qualcosa negli equilibri consolidati hanno dovuto prendere atto che non è possibile. E hanno immediatamente fatto marcia indietro.

Lo spread è subito ridisceso, la borsa è in positivo, la strana coppia ha perso un bel po’ di credibilità, le ironie non sono affatto diminuite.

Gli unici punti davvero perturbanti della prima “bozza” erano del resto l’individuazione di una procedura concordata per l’uscita dall’euro e l’idea di chiedere alla Bce di cancellare i 250 miliardi di euro in titoli di Stato, acquistati da Francoforte in due anni di quantitative easing. E sono due elementi spariti alla velocità di un battito di ciglia.

Di tutto il resto, diciamo la verità, non frega niente a nessuno, per lo meno all’interno dell’establishment. Sanno tutti benissimo che, una volta accettato di rispettare il fiscal compact (che obbliga a tagliare il debito del 5% l’anno per i prossimi venti anni, a partire da gennaio 2019), di tutto il “contratto” potrà essere realizzato solo quello che non costa nulla. Oppure che viene finanziato con tagli in altri settori.

Anche le non poche sciocchezze contenute nella “bozza” sono state abilmente utilizzate per mettere alla berlina la strana coppia grilli-leghista, improvvisamente degradata da “novità politica” o “vincitori del 4 marzo” a dilettanti alla sbaraglio, incompetenti istituzionali, apprendisti stregoni. Ed effettivamente c’è molto di vero. Il “comitato di conciliazione”, per esempio, è una classica pensata da analfabeti in materia costituzionale (immaginare di sottoporre l’autorità di un governo a un comitato interpartitico ristretto, anziché al voto del Parlamento, è da comiche); compreso il “vincolo di mandato” per i parlamentari, che dovrebbe supportare senza se e senza ma le decisioni di quel comitato, espressamente escluso dalla Carta costituzionale e dalla pratica quotidiana degli “onorevoli”.

La nuova bozza, ad esser sinceri, è più “moderata” ma anche più stupida, visto che introduce addirittura elementi di “subcultura no vax”. Ma questo è un dettaglio che non sarà centrale nella valutazione dei “mercati”, rassicurati dalla rapidità con cui gli stati maggiori dei due partiti hanno cancellato i punti “anti-europei”.

La resa non è ancora incondizionata, perché restano accenni molto più soft alla necessità di “rivedere alcuni trattati europei”, assicurando “maggiore democraticità” (il Parlamento di Strasburgo non conta praticamente nulla, visto che – unico al mondo – non può proporre disegni di legge), ritocchi alla governance europea e alle procedure di bail in. Sopravvive l’idea di chiedere che i titoli di Stato in mano alla Bce siano esclusi dal calcolo debito/Pil, ovvero un escamotage contabile ben diverso dalla drastica “cancellazione”. Ma il più è stato mollato.

Lo si può vedere dal capitolo pensioni, dove si continua a promettere il “superamento” della legge Fornero fissando il limite di “quota 100” (somma di età anagrafica e anzianità contributiva) e comunque la possibilità di uscire dal lavoro con 41 anni, che sarebbero misure molto popolari e sicuramente giuste; quasi minimo della pena, dopo tante sparate elettorali. Naturalmente l’establishment sfodera immediatamente le armi del debito: come si finanzia questo “superamento”?

L’idea grillin-leghista, sebbene non esplicitamente legata a questo problema, è a doppio taglio: “un intervento finalizzato al taglio delle cd. pensioni d’oro (superiori ai 5.000,00 euro netti mensili) non giustificate dai contributi versati”. La materia è ingarbugliata, e già la Corte Costituzionale ha esaminato proposte simili, bocciandole, perché andavano a ledere un principio giuridico fondamentale: le leggi non possono avere effetto retroattivo. Immaginare di poterlo fare una volta – sulle pensioni d’oro, che riguardano una ristretta platea di privilegiati, circa 10.000 persone – va a stabilire un precedente comunque pericoloso, perché un altro governo, magari molto più sensibile ai diktat di Bruxelles, potrebbe usarlo per intervenire su un livello di assegni anche più basso. Fare cassa sulla massa dei pensionati, in fondo, è assai più facile...

Vista dalla nostra prospettiva, insomma, il governo Salvimaio potrà insediarsi solo accentuando il livello della sottomissione ai diktat espliciti o impliciti (i movimenti sui mercati e lo spread). A quel punto, il promessificio si concentrerà sulle misure più rivendibili ma di minor costo (tempi terribili per migranti, rom, emarginati “indigeni” e non, ecc.), mentre i contabili italiani ed europei bloccheranno tutte le misure “prive di copertura”, come già annunciato da Mattarella.

E’ la ripetizione dello scenario greco, in buona misura, ma su scala più ampia e con protagonista la destra politica “euroscettica” convinta di potersi imporre con la forza dei numeri e il peso economico dell’Italia; mentre, ricordiamo, il governo progressista guidato da Tsipras confidava invece sulla “generosità” dell’Unione Europea, visto che il peso della piccola Grecia non era tale da provocare terremoti sistemici.

Le conseguenze politiche della resa grillin-leghista ai “mercati” sono difficilmente immaginabili nei particolari, ma tutto sommato facili da intuire come direzione generale. Grossa parte del consenso raccolto da quelle due formazioni il 4 marzo, entro temi non lunghissimi ma neppure immediati (ci sarà bisogno di provare sulla propria pelle l’effetto di misure economiche contrarie a quelle attese, accompagnate sicuramente da iniziative “promozionali” su immigrati, piccola criminalità, piccola corruzione, ecc.), comincerà a cercare altri punti di approdo.

Ma non sarà per nulla facile che questo consenso si diriga di nuovo verso gli “europeisti” duri e puri, protagonisti assoluti del drastico peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro degli ultimi anni. Difficile recuperare voti, insomma, per chi difende la legge Fornero, il Jobs Act, la precarietà universale, le pensioni da fame, ecc.

Per quanto ancora molto insufficiente sia il radicamento sociale e la presenza pubblica di Potere al Popolo, benissimo ha fatto – stamattina – a chiarire immediatamente le coordinate della propria azione davanti al governo in gestazione: opposizione a questo esecutivo come alle “ingerenze” dell’Unione Europea. Non sono più i tempi in cui la nostra gente era costretta a scegliere tra la padella (i governi “tecnici” o del Pd, sdraiati sull’austerità di Bruxelles) e la brace della destra avanzante.

Recuperare una politica e un punto di vista indipendente, insomma, obbliga a contrapporsi ad entrambe le prospettive, visto che – alla prova dei fatti, ovvero con il Salvimaio – alla fin fine tendono a coincidere e fare quasi esattamente le stesse scelte politiche.

Se il “potere politico” non sta più a Palazzo Chigi, ma a Bruxelles e Francoforte, un’alternativa popolare può essere credibile solo se assume come obbiettivo esplicito la rottura del sistema dei trattati e si presenta con una dimensione sovranazionale. I primi passi in questa direzione sono stati fatti, si tratta ora di consolidare il percorso, senza nostalgie per l’antico mondo dei “contenitori politici” così “plurali” da non avere quasi nulla in comune, tranne l’assoluta inefficacia nella difesa degli interessi della nostra gente.

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