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29/06/2017

La Ue e l’Italia dentro “la fine” della globalizzazione. Una replica

Per dimostrare che la globalizzazione è viva e vegeta Franco Russo deve riconoscere che i processi di internazionalizzazione degli scambi, della finanza e della produzione sono sempre stati e sono ancor di più oggi il luogo di un aspro conflitto in cui i diversi stati usano tutti i mezzi, compreso il protezionismo e lo scontro militare, pur di difendere le proprie imprese. (vedi il saggio di F. Russo su Contropiano).

Con il che, però, Franco Russo dichiara che la globalizzazione è morta (o meglio che essa, come il sottoscritto pensa da molto, in realtà non è mai nata). L’idea di globalizzazione contro cui polemizzano i critici non è infatti quella che prende atto dell’internazionalizzazione, ma quella secondo cui tale internazionalizzazione, rafforzando l’interconnessione dei mercati e della produzione, realizza una situazione di sostanziale autoregolazione del mercato che rende superflua o meramente ausiliaria la funzione degli stati nazionali. Lo stesso Russo ci da invece vari esempi di attivo intervento degli stati nazionali nella battaglia competitiva, intervento che può spingersi fino alla guerra: e questo, in sede di polemica spicciola, potrebbe bastare per dire che Franco dimostra il contrario di quello che afferma. Ma qui non si tratta di polemica spicciola, bensì di una discussione che ci accompagnerà a lungo. Bisogna quindi approfondire.

In realtà nel testo che esamino si insiste nel dire che il severo confronto tra entità politiche capitalistiche non è tanto un confronto fra stati, quanto fra “grandi spazi” (ed è chiaro che qui si suggerisce, per contrasto, che essendo l’Italia per definizione un “piccolo spazio” ogni progetto di autonomia nazionale le è precluso). Va però detto che questi “grandi spazi” sono tutti spazi statuali, dotati per di più di una spiccata identità nazionale: Usa, Russia, Cina, ecc.. La stessa Unione europea, se vuole contare qualcosa, deve presentarsi come vero e proprio stato unitario ed inventarsi una qualche “identità nazional-continentale”. E se non dovesse riuscire a farlo ciò avverrebbe a causa dell’incapacità di una determinata nazione ad esercitare la necessaria egemonia. Insomma: nation matters, lo dice anche il meno nazionalista tra noi.

Nella polemica non si possono però sottacere gli aspetti di verità sempre contenuti nelle posizioni di un avversario intelligente. La questione delle dimensioni ha il suo peso, anche se non si tratta tanto della dimensione, quanto della natura di uno spazio geopolitico. Mi spiego. Se l’Italia dovesse (e potesse) rompere con l’Ue da un punto di vista esclusivamente capitalistico, le sue limitate dimensioni non sarebbero necessariamente un ostacolo, anche perché la sua uscita dall’Unione rafforzerebbe automaticamente i suoi rapporti con gli Usa. Ma se la rottura dovesse avvenire secondo i nostri desideri, la costruzione di uno spazio politico economico extranazionale diverrebbe allora essenziale. Infatti non è possibile sviluppare appieno una politica tendenzialmente socialista se non in uno spazio che sia relativamente autosufficiente e relativamente chiuso nei confronti del capitale finanziario transnazionale, e l’Italia non possiede affatto tali caratteristiche. Se è quindi vero che la nostra rottura è inevitabilmente nazionale, è altrettanto vero che noi dobbiamo preparare già da ora le nuove relazioni di un concreto internazionalismo. Un internazionalismo che parta realisticamente dal riconoscimento delle caratteristiche peculiari delle diverse economie e società nazionali per giungere ad un comune modello di sviluppo progressivo.

Proseguo. Per dimostrare che la globalizzazione non è morta, Russo fa inoltre riferimento al fatto che gli Usa non si stanno per nulla isolando, ed anzi continuano a promuovere l’internazionalizzazione delle proprie imprese, ed al fatto che Unione europea e Cina continuano a promuovere libero mercato e, appunto, globalizzazione. Ma è assolutamente logico che una potenza imperialista continui a penetrare gli spazi economici mondiali, ed è egualmente logico che le due massime potenze esportatrici del mondo facciano l’elogio della globalizzazione. Così come, ad esempio, non possiamo dedurre dalla sola crescita (peraltro esponenziale) dei provvedimenti protezionistici il tramonto del libero mercato (anche se questi provvedimento sono un sintomo molto più serio di quanto Russo mostri di credere), egualmente non possiamo dedurre la forma delle relazioni mondiali dalla semplice considerazione della massa degli scambi e dell’entità dell’interdipendenza economica. Alla vigilia della prima guerra mondiale l’interscambio globale era tutt’altro che depresso. Alla vigilia della seconda guerra mondiale gli scambi economici tra Germania ed Inghilterra erano intensissimi (e, a guerra iniziata, i significativi investimenti inglesi in Germania non vennero né ritirati né confiscati...). E quanto all’interdipendenza, essa non conduce sempre e soltanto all’approfondimento dei rapporti economici, ma può sboccare in seri conflitti politici: se un paese dipende da un altro per l’approvvigionamento di una risorsa strategica, può ben essere indotto ad eliminare tale dipendenza sottomettendo il paese fornitore. Una cosa simile va detta anche a proposito delle catene del valore. E’ vero che le merci che un paese importa sono spesso prodotte all’estero dalle sue stesse imprese, parzialmente esternalizzate, e che questo rende più complicato il protezionismo e più costosi i conflitti interstatuali. Ma d’altra parte l’esternalizzazione è reversibile (come dimostra il fenomeno non rarissimo del reshoring dovuto al complicarsi delle condizioni dei paesi terzisti, all’aumento del costo del lavoro locale o ad innovazioni tecnologiche avvenute “in patria”), e se la logica economica o i conflitti politici lo impongono, si può rimpatriare buona parte del ciclo produttivo. Dall’altre, ed è la cosa più importante, la stessa esternalizzazione è frutto di conflitti vinti da alcuni stati a danno di altri (vedasi l’uso occidentale del mercato del lavoro dell’est dopo l’89) e può generare altri conflitti tesi alla stabilizzazione delle condizioni di profittabilità nei paesi terzi. Dunque né la dinamica degli scambi né quella delle interdipendenze possono dirci qualcosa di univoco sul nostro tema.

Per valutare la fase attuale non basta quindi riferirci ai dati empirici, che come in tutti i momenti di transizione possono essere molto contraddittori, ma dobbiamo dotarci di una teoria che ci aiuti a capire quali possono essere i fatti più significativi. Al riguardo credo che noi possiamo farci ispirare da tesi analoghe a quelle di Giovanni Arrighi, e considerare come a fasi di ampia finanziarizzazione, accompagnate da crescita vorticosa del commercio, da una tendenziale unità del fronte imperialista e dalla diretta funzionalità delle guerre all’espansione economica, si succedano fasi di ripoliticizzazione del conflitto in cui gli stati tornano ad avere funzione dominante e le scelte economiche tendono a rispondere anche ad una logica di tipo militare, nel contesto di tensioni crescenti nello stesso campo imperialista. E’ ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi dopo la crisi 2007-8: la stessa forma della globalizzazione (meglio: dell’internazionalizzazione) ha inevitabilmente prodotto gravi squilibri che da un lato hanno riportato al centro gli stati, facendoli divenire regolatori fondamentali del mercato nella perdurante incertezza delle capacità di pagamento private, e dall’altro hanno acuito le tensioni fra gli stati stessi, perché hanno acuito la contraddizione fra stati creditori e stati debitori. A mio avviso sono questi gli elementi macroeconomici e geopolitici che devono essere soprattutto considerati quando si valuta il rapporto tra regolazione “economico-politica” (quella della c.d. globalizzazione)  e regolazione “politico-economica” (quella verso cui tendiamo oggi). Se è vero che oggi la forma dominante del capitale è quella bancario-finanziaria e che la sopravvivenza di questa (in costante minaccia di crisi di solvibilità) in ultima istanza dipende direttamente dalle decisioni politiche degli stati, ne discende che è l’intreccio tra stato e capitale finanziario a dettare la musica, ben più delle dinamiche capitale-merce e del capitale produttivo. Ed in particolare sono soprattutto i rapporti credito/debito a dettare, a volte esplicitamente, a volte sottotraccia, la trama delle relazioni attuali. Da qui nascono le diverse guerre valutarie. Da qui l’ostilità strutturale degli Usa contro la Cina. Da qui il conflitto latente Usa/Germania, da qui le difficoltà dei Brics, da qui la gracilità dell’Unione europea, ecc..

Dal punto di vista degli aumentati conflitti interstatuali inoltre, più della completa sostituzione degli accordi commerciali multilaterali con quelli bilaterali (processo che, come giustamente nota Russo, è senz’altro lungo e contrastato) conta il fatto che gli stessi accordi multilaterali sono fatti più per escludere che per includere: includono gli alleati per accerchiare i nemici: questa è la ratio geopolitica della TTIP (contro la Russia) e della TIP (contro la Cina), qualunque sia stato e sarà il destino dei due accordi. Non contraddice a questa ratio il recente accordo commerciale Usa/Cina, a cui Russo si riferisce come esempio pro-globalizzazione. Da un lato c’è il bisogno economico Usa di penetrare più decisamente nel territorio cinese. Ma dall’altro c’è il bisogno strategico Usa di interrompere il processo di avvicinamento Russia/Cina che è stato il peggior risultato della politica di Clinton/Obama.

E veniamo all’Europa. Sono senz’altro interessanti le dichiarazioni di intenti a cui Russo fa riferimento e, personalmente, penso che la partita dell’Unione europea sia (dal punto di vista di lorsignori) ancora tutta aperta, e che gli esiti non siano del tutto prevedibili. Continuo però a pensare che gli elementi di disgregazione siano in prospettiva superiori a quelli di unificazione. E penso che proprio tra gli esempi avanzati da Russo, per mostrare che l’Ue “fa sul serio” per rispondere unitariamente ed efficacemente agli Usa, stia nascosto un importante segnale di debolezza. Russo dice che l’Unione ha “risolto” il problema delle banche. Su questo punto esprimo un netto dissenso, non teorico ma fattuale. Si legga il recentissimo intervento di Giacché a proposito del sistema bancario europeo (lo trovate in Sinistrainrete): il punto su cui voglio concentrare l’attenzione non è tanto il fatto (importantissimo) che la “soluzione” aumenta gli squilibri, avvantaggiando enormemente gli istituti tedeschi, quanto il fatto che, ad oggi, non si è affatto invertita la balcanizzazione per linee nazionali del sistema bancario europeo (il fenomeno per cui il prestito interbancario e non solo funziona molto più all’interno dei singoli territori nazionali che all’interno dell’Unione), balcanizzazione che è stata inaugurata dalla crisi del 2007 e che che rende assai fragile l’integrazione economica Ue. Tanto che a mio avviso più che i motivi economici (pur importantissimi: ogni giorno, ogni ora di euro in più è una bazza per il capitale tedesco...) in questo momento a tenere in piedi l’Ue sono motivi geopolitici, ossia la necessità, pienamente avvertita da Francia e Germania, di far quadrato di fronte alla Brexit e all’irrigidimento Usa (non attribuibile al solo Trump), salvando il più possibile la costruzione europea e rimandando il più possibile sia i conflitti franco-tedeschi (clamoroso quello relativo alla richiesta francese di protezione per i “campioni nazionali”, per ora respinta dalla Merkel alla faccia di Macron) sia il regolamento di conti con il sud Europa: da cui la modulazione in funzione delle scadenze elettorali delle richieste di ulteriori tagli all’Italia.

La stabilizzazione della situazione europea è quindi fragile. Ma pur sempre di una stabilizzazione si tratta, e questo in politica conta, soprattutto quando un atteggiamento antiunionista, come effettivo sentimento di massa organizzato politicamente, deve ancora nascere. E qui la mia riflessione converge parzialmente con quella di Franco Russo. Nessuna frazione del grande capitale europeo è per adesso intenzionata a rompere l’Ue. Nessuna frazione del piccolo capitale delle singole nazioni (aggiungo io) è per adesso seriamente intenzionata a rompere l’Ue, ed anche se lo fosse non avrebbe al momento la capacità egemonica per farlo: si vedano l’Olanda, la Francia e il probabile esito nullo delle sparate salviniane contro l’euro. Ma subito mi allontano di nuovo da Franco: da quanto sopra discende che la questione della nazione non è questione immediatamente interclassista, che noi dobbiamo obtorto collo fare nostra, ma è oggi questione immediatamente classista (della nostra classe) che noi dobbiamo imporre alle classi esitanti. La deflagrazione dell’Unione europea, strutturalmente resa assai probabile dagli squilibri debito/credito e dalla disintegrazione bancaria, viene evitata solo grazie al fatto che i sistemi politico-istituzionali rendono inefficace ogni opposizione popolare e, prima ancora, rendono difficile la formazione di un soggetto popolare capace di rompere il gioco. Per questo i lampi di rottura che baluginano ad ogni apertura delle urne non si trasformano, per ora, in un vero temporale. Questa trasformazione sta tutta sulle nostre spalle. La fine (assai probabile anche in Italia) del primo ciclo del populismo antiunionista di destra (fine che non avverrà senza sussulti e ripensamenti e che non  esclude un secondo ciclo, magari assai più pericoloso) e la contemporanea crisi verticale del socialismo europeo, aprono lo spazio non già per una forza “di sinistra”, ma per una forza democratico-costituzionale che sappia unire tutti i lavoratori, anche facendo appello ad un semplice e sobrio (ma potenzialmente dirompente) sentimento di appartenenza nazionale, inteso come richiamo alle lotte popolari che hanno prodotto, difeso e tentato di attuare la nostra Costituzione. E’ vero, come spesso ci ricorda Russo, che non esiste oggi in Italia una borghesia nazionale con la quale costruire un fronte patriottico (anche se è da ripetersi che esiste una piccola borghesia che potrebbe essere coinvolta in un progetto nazionale elaborato da noi), ma è altrettanto vero che il discorso nazionale (che inevitabilmente assume, nelle condizioni attuali, una forma populista), oggi, prima che ad unire altre classi attorno al proletariato, è essenziale ad unificare un proletariato che si pensa ormai soprattutto come popolo. Quando lo capiremo fino in fondo inizieremo davvero il tragitto verso le nostre ambiziosissime mete.

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