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28/02/2017

Professionismo politico, classe dirigente, militanza: facciamo un po’ di chiarezza

Uno dei miei articoli più recenti ha un po’ disorientato i lettori al punto che uno mi scrive:

Sono confuso...
 prima malediciamo i professionisti della politica... causa principe dell’allontanamento dalla politica dai cittadini... gente che è stata in politica per decenni, produttrice di disastri, servi dei poteri forti e allergici alla democrazia... ora me ne si esce con la necessità di avere dei professionisti della politica, gente che conosce i meccanismi istituzionali ecc... Dunque: I politici di professione. No!  Allora cittadini impreparati ma onesti, No! Allora mettiamo dei Tecnici superspecializzati, No! Sarebbe un altro Monti. Mi permetta una battuta di colore: Ma chi minchia ci dobbiamo mettere al Governo? 
Vi ricordo che attualmente abbiamo Alfano... al ministero degli esteri... mi vorreste dire che un Di Battista o un Di Maio sarebbero peggio? ... Mister Giannuli, questa volta mi ha proprio confuso le idee! Al che torniamo al punto di partenza... meglio un incompetente onesto alla Di Battista che un incompetente ma “professionista della politica” come quel simpaticone di Alfano?

Insomma l’alternativa è fra politici di lungo corso, arraffoni ed incompetenti, oppure onesti sprovveduti o, al massimo tecnocrati alla Monti. Messa così, stiamo a posto.

Bene, allora è il caso di chiarirsi un po’ le idee. In primo luogo rassegniamoci all’idea che la politica è uno specialismo che, soprattutto ai livelli più alti, esige una preparazione di qualità corrispondente. Non c’è motivo per ritenere che la politica sia una cosa più semplice della medicina, dell’informatica, del diritto o dell’economia, che richiedono una preparazione specifica: o voi vi fareste operare da una persona onestissima, ma che confonde il polmone con il pancreas e non sa leggere una analisi?

Certo l’onestà è una qualità importante in un politico ma ricordiamoci che ricoprire un’importante carica dello Stato senza essere all’altezza del compito è l’atto più disonesto che si possa fare. Il guaio è che gli ominicchi della seconda repubblica – salvo rarissime eccezioni su cui potremmo discutere – non sono affatto politici, ma volgari politicanti, che hanno come unica competenza quella di arrampicarsi nel sistema sino alla poltrona più alta possibile. E questo ha caratterizzato la grande maggioranza di parlamentari, ministri e sottosegretari di questo quarto di secolo di tutti i partiti: da An al Pds-Ds-Pd, da Rifondazione Comunista (che esprimeva gruppi parlamentari imbarazzanti) a Forza Italia, dalla Lega alla Margherita.

Il ceto politico della Seconda Repubblica, prodotto dal sistema elettorale maggioritario, non sarà mai abbastanza maledetto per aver distrutto la stessa idea di politica ed averla avvilita al livello del peggiore politicantismo e, se un cittadino vede un personaggio come Alfano ministro di Grazia e Giustizia, poi dell’Interno, poi degli Esteri, giustamente pensa: “Ma perché non lo posso fare io? Cosa sa più di me?”.

E qui c’è un altro chiarimento necessario: ma in cosa consiste questo specialismo e come deve prepararsi un politico vero?

Al politico si chiede soprattutto di saper assumere decisioni adeguate ai problemi da affrontare: concludere un trattato commerciale, fare una legge per il contrasto alla corruzione, introdurre o abolire una tassa, affrontare il problema delle ondate di immigrati, modificare o meno il testo della Costituzione, progettare una riforma della scuola o della sanità sono tutte decisioni che presuppongono una preparazione in merito, e non solo sul singolo problema, ma capace di individuare gli effetti imprevisti.

Ad esempio, se decidi di obbligare i medici a denunciare l’immigrato clandestino che cura, devi mettere in conto che questo potrebbe avere conseguenze molto pericolose nel caso di malattie contagiose. Se, per combattere il terrorismo decidi di autorizzare intercettazioni di massa, devi anche capire che questo comporta un giro di vite nei confronti della privacy di tanti cittadini che con il terrorismo non c’entrano nulla. Se aumenti le tasse devi prevedere una caduta del Pil. Se concedi il reddito di cittadinanza, poi devi prevedere che una intera generazione, fra 20 o 30 anni andrà in pensione con poche centinaia di euro al mese. E se ci sono dei tagli da fare alla spesa pubblica non è la stessa cosa se tagli su pensioni, sanità e istruzione o se tagli le super retribuzioni di manager e consulenti che lavorano per lo stato o sui lavori pubblici e quali, così come fare una patrimoniale è meno semplice di quel che si pensa, perché le soluzioni possibili sono molte e molto diverse fra loro.

Dunque, occorre che ogni singola politica di settore sia inquadrata in una linea politica generale che abbia caratteri di coerenza ed organicità. E neanche questo è sufficiente, perché ogni decisione lede interessi di alcuni e favorisce quelli di altri, per cui occorre poi saper mediare fra le parti sociali, cercando una composizione degli interessi che confermi e non minacci la coesione sociale.

Soprattutto, ad un politico si richiede di avere molta fantasia per trovare le soluzioni migliori, magari nuove, man mano che i problemi vengono avanti. Come si vede, un’attività piuttosto complessa, che non ammette semplificazioni arbitrarie e richiede conoscenze, decisione, fantasia, coraggio nell’affrontare le resistenze dei nemici più forti.

Ma come formare un uomo politico che sappia muoversi su un terreno così complesso? Ovviamente è necessario che ci sia una preparazione teorica di fondo: la politica è anche studiata da una scienza specifica, appunto la scienza della politica o politologia, ed è opportuno che ci sia una preparazione di questo tipo, così come è opportuno che chi si prepara alla carriera politica abbia nozioni di sociologia, di diritto ma, soprattutto di economia (ed io direi anche storia). Poi è necessario avere competenze specifiche nel settore in cui vuoi operare: se vuoi fare il ministro degli esteri, magari è bene che tu sappia qualcosa di relazioni internazionali, geopolitica, diritto internazionale eccetera.

Detto questo, dovremmo concludere che un buon politico debba necessariamente essere laureato in Scienze Politiche? No direi di no, anche perché un laureato in qualsiasi altra disciplina, o anche un non laureato, può benissimo apprendere queste cose con studi personali o, magari, attraverso le scuole di politica che ogni partito dovrebbe organizzare.

Poi la lettura dei giornali e delle riviste specializzate, la partecipazione a convegni e le conversazioni con i colleghi sono altri veicoli di formazione.

Ma questo non basta: una formazione puramente teorica può produrre un buon accademico (forse) ma non è sufficiente per un politico. Neanche il governatore di una banca centrale può basarsi solo sulla sua formazione universitaria: una preparazione teorica è necessaria, ma non basta, a meno di non avere un approccio tutto libresco ai problemi. Poi quello che conta è la prassi: si impara a far politica facendola. La formazione di base serve a capire e valutare le proprie esperienze nel bene e nel male. Un eccesso di teoria porta ad un approccio dogmatico e sterile, ma l’assenza di una formazione di base precipita poi nell’empiria più pura, che impedisce di capire quello che si sta facendo. Dunque, la pratica è la seconda metà della mela, ugualmente necessaria quanto la prima. Ma, ovviamente si tratta di una pratica che ha un valore se è costruita nel tempo: nessuno “nasce imparato” si dice nella mia città d’origine, e la pratica politica è formativa se avviene in un periodo abbastanza lungo.

L’idea che si ottenga un personale di governo con, al massimo, cinque anni di partecipazione istituzionale, per poi congedarlo dopo altri cinque anni, è un’idea semplicemente delirante, scusatemi. Ovviamente, un simile specialismo non si costruisce in tre o quattro anni, ma esige un tempo necessario di maturazione. Però non è affatto vero il contrario: cioè che un personaggio politico che sta sulla scena da 20 anni sia anche un politico preparato, anzi è possibile che sia una capra assoluta. Durata non significa competenza, ma soprattutto, occorre non confondere un decisore politico vero con un volgare politicante.

La politique politicienne (come dicono i francesi) è cosa deteriore da non confondere con la politica e non tutti i politici professionali sono politicanti: Nenni, De Gasperi, Togliatti, Berlinguer, Lombardi, Moro, Fanfani e dico anche Almirante o Romualdi hanno fatto politica per tutta la vita, ma non erano affatto politicanti, erano politici di notevole livello ed alcuni di loro veri statisti. Ovviamente c’è un rischio: che a furia di metter radici nel Palazzo (quello con la P maiuscola) un politico anche di buona stoffa, un po’ alla volta, si affezioni troppo al ruolo e diventi un politicante. E’ un rischio molto forte, con il quale occorre misurarsi.

La classe dirigente va formata (possibilmente dal basso se crediamo nella democrazia), va selezionata con cura, badando tanto al disinteresse personale quanto alla preparazione e capacità, poi va responsabilizzata, controllata, periodicamente “potata” almeno in parte, quindi vigilata nei comportamenti, interrogata normalmente sui propri atti e decisioni, trattata con parsimonia quanto a incentivi selettivi, costantemente obbligata al confronto con possibili successori.

Anche le classi dirigenti prodotte dal basso, magari da una rivoluzione (e il caso Russo mi pare abbastanza istruttivo) fanno presto ad abituarsi alle soffici poltrone del potere: meglio delle poltrone sono le sedie, possibilmente dure e scomode...

Il punto debole più pericoloso del M5s non è quello di non avere una classe dirigente, ma di non aver fatto assolutamente nulla per formarsela. Cari amici ricordatevi di aver avuto successo perché avevate come pietra di paragone i cialtroni della Seconda Repubblica, ma la gente ora vuole di più.

Non basta che Di Maio o Di Battista non facciano peggio di Alfano o Del Rio: devono fare di meglio e di molto meglio. Pensateci.

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