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21/02/2017

Alzare i salari (tedeschi), ultima speranza per riavviare “la crescita”

I salari bassi non aiutano affatto l’economia. E neanche la “competitività” di un sistema paese. Al contrario, come si è visto negli ultimi anni in quasi tutta Europa e persino negli Stati Uniti, disoccupazione e conseguentemente bassi salari producono una crisi sociale devastante che trova il suo sfogo nel rifiuto generalizzato dell’establishment (“populismo” di destra e di sinistra, astensionismo, crisi dei partiti tradizionali, ecc).
 
Solo se si tiene presente questa situazione – metabolizzata da una parte crescente dell’establishment multinazionale – si può capire ad esempio la dimensione reale della presunta “svolta” della socialdemocrazia tedesca, con il candidato premier Martin Schultz che promette di rivedere (non abolire) le riforme del mercato del lavoro conosciute come “Hartz IV”. I fessi possono prendere questa promessa come un “ritorno a sinistra” dell’Spd, chi segue la discussione intorno ai problemi economici europei sa invece che la “moderazione salariale” inaugurata proprio dai tedeschi con il governo di Gerhard Schroeder – “socialdemocratico” anche lui, che costrinse in quel caso Oskar Lafontaine a dimettersi da ministro e uscire dal partito – è uno dei problemi che contribuiscono ad accentuare la mancata crescita dell’eurozona. L’economia tedesca, in altri termini, funziona in modo bulimico, accumulando surplus con le esportazioni senza però far crescere i consumi interni. In questo modo si deprimono sia le attività produttive mirate al mercato interno, sia le importazioni dagli altri paesi dell’eurozona, costretti – anche dalle prescrizioni dell’Unione Europea – a seguire il “modello tedesco” senza avere le caratteristiche per poterlo fare. Insomma, la Germania dovrebbe fare un po’ più da “locomotiva” per l’area UE, facendo crescere i salari interni e dunque i consumi.
 
Si moltiplicano del resto i segnali di inversione o attenuamento dell’austerità” in alcuni paesi – quelli del “grande Nord”, mica quelli mediterranei o con alto debito (come la Francia) – e di critica anche tecnica delle politiche salariali deflazionistiche. Esemplare, in questo senso la critica esplicita della Banca d’Italia all’ultimo contratto nazionale dei metalmeccanici, con il rovesciamento del meccanismo che lega gli aumenti salariali monetari (non del potere d’acquisto) al recupero dell’inflazione già realizzata, invece che – com’era prima – di quella “attesa”. Non perché fosse il paradiso dei lavoratori dipendenti, ma almeno trasmetteva un refolo di spinta inflazionistica che tornava addirittura utile all’economia (la Bce sta combattendo disperatamente da oltre tre anni la deflazione, senza grandi risultati).
 
Il beneficio degli alti salari comincia ad essere apprezzato anche dal giornale di De Benedetti (inserto Affari e Finanza di Repubblica), che propone oggi un’analisi impensabile fino a qualche mese fa e tutt’ora ignorata da Confindustria (De Benedetti compreso): Stipendi bloccati e crescita ferma, il cerchio da spezzare. Come sempre, Repubblica non tira in ballo questioni etiche ma freddi numeri. I quali dicono che in fondo, in Italia, “le retribuzioni sono da almeno 22 anni rigide verso l’alto, insensibili alla congiuntura. Il dipendente italiano a tempo pieno guadagna oggi in termini reali più o meno quel che guadagnava nel 1995”.
 
La percezione comune è che in realtà oggi si guadagni mediamente molto meno, ma il calcolo di Leonello Tronti è fatto solo sui lavoratori contrattualizzati a tempo pieno, senza dunque considerare l’oceano di precari che quei “1.800 euro mensili medi” non riescono neanche a immaginarli.
 
Ma facciamo finta che questo piattume salariale sia vero. “Perché in Italia i salari non crescono? La risposta è semplice: perché non è previsto che crescano. Il modello contrattuale italiano stabilisce infatti che i contratti nazionali traguardino l’inflazione, ovvero che i salari non crescano”. 

Stupefacente, vero?, che il giornale che più ha sostenuto le riforme montiane e renziane “scopra” il danno mortale provocato dalla politica salariale fortemente voluta dalle imprese e dall’Unione Europea, almeno a far data dagli accordi di Maastricht (1992), peraltro accettata senza riserve dai sindacati “complici”. Quello che sembrava il paradiso dell’impresa – salari fermi o in drastico calo grazie al precariato, lavoratori ammanettati dall’alta disoccupazione e dalla paura del licenziamento, sindacati silenti o attivi nel silenziare le proteste (il conflitto ormai scoppia solo con i licenziamenti collettivi o le chiusure aziendali) – è un inferno per l’economia capitalistica...
 
L’autocritica (allo stato larvale, non temete!) dovrebbe essere ancora più radicale guardando a quel che avviene nel paese che è diventato di fatto la manifattura del mondo: la Cina. Sempre oggi, su IlSole24Ore, Riccardo Barlaam spiega il vento di ottimismo che spira dal Celeste Impero: “La banca di investimento americana Morgan Stanley in un recente report di 188 pagine sostiene che i salari della middle class cinese continueranno ad aumentare. Alti salari che si tradurranno in più alti consumi: le stime parlano di un mercato da 9.600 miliardi di dollari di spesa al consumo annua al 2030, con una crescita a due cifre nei prossimi anni. Il futuro consumatore cinese sarà più ricco, appassionato di tecnologia e anche più adulto. Il target perfetto per le imprese occidentali. Altro che protezionismo”.
 
Peccato che questa visione non trovi un soggetto istituzionale (l’Unione Europea stessa) capace di intendere il contesto mutato da dieci anni di crisi e di terapie “austere”. Un esempio? La Commissione europea, in questi giorni, ha deciso di indagare sulla realizzazione della ferrovia superveloce che dovrebbe collegare Belgrado a Budapest (Serbia e Ungheria), tratto mancante della “via della seta” che la Cina sta finanziando da anni e che dovrebbe – nel sud Europa – raggiungere il porto greco del Pireo (acquistato proprio dai cinesi “grazie” alle privatizzazioni imposte dalla Troika!), così come raggiunge la Germania e il porto olandese di Rotterdam.
 
Il casus belli è ovviamente “regolamentare” – i cinesi avrebbero incaricato dei lavori due delle proprie imprese, invece di indire una “gara europea” – ma il significato politico è piuttosto ruvido; e stupido. L’Unione Europea che si autodescrive come campione del libero mercato globale e che pretende di far da argine al “populismo protezionistico” si attiva per proteggere il ramo nord di un’opera ciclopica a scapito del “rametto sud”. Sembra davvero difficile che dentro queste teste possa entrare il concetto che i salari crescenti sono una risorsa, se non altro per tentare di sbloccare la stagnazione...

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