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25/12/2016

Terrorismo, perché l’Italia finora non è stata colpita

È un’area di non operatività militare che garantisce attività di sostegno. Come Berlino Est negli Anni 80. L’esperto Tassinari a L43: «Daesh ci risparmia per convenienza, l’impegno in Medio Oriente non c’entra».

Marco Todarello – tratto da http://www.lettera43.it

Quando toccherà all’Italia? Se lo chiedono in tanti, in questi giorni di feste svuotate di senso, mentre l’Europa torna a piangere morti innocenti e a Milano sembra aver trovato il suo epilogo la vicenda dell’attacco ai mercatini di Natale di Berlino, con l’uccisione del killer Anis Amri nel corso di una sparatoria con la polizia. Ancora veglie al lume di candela, bandiere a mezz’asta, rabbia e dolore. Di nuovo la Germania, dopo il Belgio e la Francia, altro sangue che si aggiunge a quello che da sempre scorre a Sud e a Est del Mediterraneo. «Perché l’Italia è rimasta fuori dall’orrore?» ci si chiede con paura, ma anche con speranza. «Il nostro Paese è il più facile punto di accesso dal Sud al Nord del Mediterraneo e una destabilizzazione qui non conviene ai terroristi», spiega a Lettera43.it Ugo Maria Tassinari, giornalista e scrittore esperto di terrorismo, «che non sono degli sprovveduti, ma soldati di un progetto politico-militare molto serio».

DOMANDA. Perché ci tiene a sottolinearlo?
RISPOSTA. Perché capita ancora di sentire o leggere dei terroristi di Daesh come di dilettanti invasati che si fanno saltare in aria a comando. E preferisco parlare di Daesh, e non di Isis, proprio perché credo che nella loro strategia l’aspetto politico sia più importante di quello religioso.

D. In che senso?
R. Dietro i martiri ci sono dei leader con un pensiero e una strategia, strateghi militari ed esperti di comunicazione. E la scelta di non attaccare l’Italia non è casuale.

D. Si spieghi meglio.
R. L’Italia è un retroterra non operativo sul piano militare ma funzionale alle missioni da compiere. Il terrorista di Nizza era stato in Italia pochi giorni prima, così come il tunisino probabile autore della strage di Berlino è stato in carcere da noi. E mi pare evidente che per sequestrare un camionista che parte dall’Italia occorre una segnalazione e quindi una base, una rete di persone di supporto. Per alcuni aspetti il nostro Paese può essere definito un “santuario del terrorismo”.

D. Che cos’è un santuario del terrorismo?
R. Un’area di non operatività militare in cui c’è una base forte che garantisce le attività di sostegno e sussistenza delle azioni terroristiche. Anche Berlino Est, ad esempio, è stata un santuario: negli Anni 80, i terroristi della Raf che volevano abbandonare la lotta armata nelle città dell’Ovest venivano ospitati nella Berlino sovietica da agenti della Stasi.

D. Che tipo di sostegno? Anche armi?
R. Ci sono tanti modi per aiutare un’organizzazione militare. Ad esempio è accertato che in passato gruppi armati islamici hanno usato l’Italia come base logistica per la falsificazione di documenti, un’attività fondamentale per la guerriglia. Nei primi Anni 90, quando in Algeria esplose la guerra civile, Napoli era il centro di queste falsificazioni.

D. Oggi però non ci sono collegamenti diretti accertati tra l’Italia e gli attentati dell’Isis.
R. No, però abbiamo una memoria storica che ci può aiutare. Negli Anni 70, per almeno un decennio i gruppi terroristici italiani si sono riforniti dai palestinesi, e a loro volta i palestinesi avevano basi logistiche in Italia che erano sostanzialmente impunite. Nel 1973, dopo l’attento palestinese a Fiumicino, il colonnello Stefano Giovannone – ufficiale del Sismi molto vicino ad Aldo Moro – si accordò con i palestinesi: in cambio dell’uso del territorio per le basi, non avrebbero più compiuto attentati in Italia.

D. Non crede dunque alla spiegazione che sentiamo ripetere: l’Isis ci risparmia perché l’Italia non è impegnata militarmente in Medio Oriente.
R. Nemmeno la Germania lo è. Mi sembra più interessante la differenza tra gli attentati in Germania e quelli in Francia e Belgio e ai diversi modi di reclutamento collegati.

D. Quali?
R. La generazione degli attentatori di Charlie Hebdo, Bataclan e Bruxelles è figlia delle rivolte nelle banlieue parigine del 2005. Si tratta di magrebini di seconda e terza generazione, per lo più emarginati, piccoli criminali poi radicalizzatisi in carcere. Lì sono diventati jihadisti, sono stati reclutati e addestrati nei territori occupati da Daesh, prima di rientrare in Europa per colpire.

D. E in Germania?
R. Tutti gli attentatori che abbiamo visto in Germania sono invece lupi solitari che rispondono a logica della chiamata al momento. Nei quattro casi dell’estate scorsa – il pachistano a Wuerzburg, il tedesco-iraniano a Monaco, i due siriani ad Ansbach e Reutlingen – erano male organizzati e a volte male armati ma comunque disposti al martirio con ogni mezzo.

D. L’attentato di Berlino segna un cambio di passo?
R. Dal punto di vista militare è un’azione di impatto minimo, ma il valore simbolico è altissimo: hanno colpito un luogo simbolo della tradizione occidentale e della cristianità proprio nella settimana di Natale.

D. I servizi segreti italiani vengono spesso citati come modello di lotta al terrorismo dopo la sfida degli Anni di piombo. Quel modello vale ancora oggi?
R. È innegabile che una certa azione di contenimento c’è stata, ma abbiamo commesso anche alcune gaffe grossolane, come l’arresto a Milano di Abdel Maijd Touil, accusato dell’attentato del Museo del Bardo a Tunisi. La difficoltà comunque è oggettiva, lo vediamo da come servizi più efficienti dei nostri fanno fatica proprio a causa della liquidità di questo tipo di terrorismo.

D. Le tecniche dell’anti-terrorismo di ieri sono valide ancora oggi?
R. Non esattamente. Il modello classico dell’anti-terrorismo prescriveva il presidio di luoghi fisici sensibili come caserme, sedi di partiti e istituzioni e la scorta alle persone a rischio. Oggi è cambiato tutto e la potenza di Daesh è proprio questa: qualsiasi luogo o persona può essere un bersaglio e quindi diventa impossibile ogni attività di prevenzione.

D. Dunque come si fa?
R. Con l’infiltrazione tra i militanti. Con le intercettazioni e il monitoraggio.

D. È solo una questione di polizia e di intelligence?
R. Non si può parlare di terrorismo, con tutte le sue specificità, se non si tiene conto di di uno scenario di fondo che ha due aspetti: da un lato la catastrofe demografica, con questa migrazione biblica di popoli che scappano dalla miseria e dalla guerra, e dall’altra la crisi del modello integrazionista delle civiltà occidentali. Un modello che è fallito in seguito al crollo delle politiche di welfare e stato sociale e che su queste si era basato per 40 anni, dalla decolonizzazione in poi. Anche l’integrazione deve essere ripensata.

23 dicembre 2016

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