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25/12/2016

L’uccisione di Anis Amri. Un colpo di fortuna e tanta “narrazione”

Qualche considerazione tecnica va fatta, a proposito dell'uccisione del “pericoloso jihadista” bloccato a Sesto San Giovanni.

La retorica governista l'ha dipinta come una grande operazione o anche con la “dimostrazione che lo Stato c'è” (Gentiloni dixit).

Che Anis Amri fosse un uomo pericoloso, non c'è dubbio. I 12 morti di Berlino stanno lì a dimostrarlo. Qualche dubbio invece va sollevato sul fiume di chiacchiere che puntano a “gonfiare” la sua statura di “terrorista” per innalzare al cielo – per contrasto – l'abilità dello Stato italiano (con una malcelata punta di sciovinismo efficentista nei confronti degli insopportabili “colleghi” tedeschi e francesi).

Possiamo credere che Anis Amri fosse un professionista del terrore? Dal punto di vista militare, certamente no. Quel che ha fatto è qualcosa di abbastanza semplice, in una società industriale complessa, interconnessa e aperta come quella in cui viviamo. Si è impossessato di un tir – forse dopo aver chiesto un passaggio, per avere il tempo di sbirciare sui comandi di guida – ha ucciso l'autista e poi ha lanciato il bestione su un mercatino di Natale, in un grande viale della capitale tedesca.

Quali armi aveva? Forse un coltello, sicuramente una pistola. Una calibro 22, a canna corta, normalmente definita “da borsetta”, consigliata alle donne che temono aggressioni. Un'arma che può essere mortale – per dimensione e velocità del proiettile – solo a bruciapelo o a brevissima distanza (come nella cabina del tir, appunto).

Un'arma altamente imprecisa in campo aperto, in mezzo alla strada, a meno di non essere utilizzata da un tiratore specializzato su quel modello. Come battuta, gli esperti usano dire che “a dieci metri non prenderesti una mucca”.

Un'arma dunque “rimediata” in uno dei tanti circuiti illegali di basso livello, non certo un raffinato strumento da killer professionale o “terrorista” ben addestrato. Lo testimonia la ricostruzione data delle sue mosse al momento del fermo. Un po' di agitazione che attira l'attenzione dei poliziotti (solo, alle tre di notte, in mezzo a un piazzale di stazione), una frase farfugliata in italiano per tranquillizzare i poliziotti (“sono calabrese”, ossia un connazionale, dunque non pericoloso), un modo di avere il tempo di estrarre la pistola da borsetta, sparare a quello più vicino per poi cercar riparo dietro la volante. Ossia dal lato dell'altro poliziotto (ancora in prova!), che lo colpisce da breve distanza.

Militarmente, un disastro da dilettanti.

Già il fatto di girare alle tre di notte illumina l'assoluta assenza di addestramento. A quell'ora chiunque ha un'alta probabilità di esser fermato per accertamenti; figuriamoci un extracomunitario.

Tutte le altre domande da giornalisti sono prive di senso: come ha fatto a girare per tre paesi europei senza incappare in controlli? Qualunque cittadino europeo può circolare per anni interi attraverso i paesi di Shangen senza mai venir controllato; se ci pensate un attimo è successo anche a voi.

Un uomo pericoloso, dunque. Non un “professionista del terrore”. Un aspirante martire sopravvissuto al suo “gran colpo” e poi in fuga per il continente, senza alcun piano studiato in anticipo (se avevi scelto di morire, non serve...).

Cosa resta dunque della retorica governista? Nulla. Una botta di fortuna, oltretutto capita qualche ora dopo. Un po' come vincere alla lotteria e raccontare in giro di “aver lavorato tanto”...

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