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30/11/2016

Il convitato di pietra del nuovo contratto nazionale dei metalmeccanici

Sabato 26 novembre è stato firmato il nuovo contratto nazionale dei metalmeccanici, storicamente uno dei contratti collettivi più ostici per il capitalismo italiano. Un accordo che sembra aver soddisfatto tutti i contraenti: il governo, Confindustria, i sindacati confederali e anche la Fiom, che dopo diversi anni torna a firmare un accordo nazionale nel settore metalmeccanico dichiarandosi, per bocca di Landini, molto soddisfatta. Esultano i sindacati gialli della Cisl e della Uil, ed esulta Maurizio Sacconi, il proponente principale dell’accordo. “Questo accordo è un miracolo”, dichiara Marco Bentivogli della Fim-Cisl, a cui fa eco la Fiom: “un contratto pulito e senza scambi”, secondo Landini. Confindustria dichiara estasiata: “l’accordo conferma l’idea che il contratto nazionale diventa un contratto che ha una dimensione regolatrice che spinge sui contratti aziendali, legandoli molto alla produttività e spinge verso un modello che è di collaborazione per la competitività interna alle fabbriche” (qui una panoramica di dichiarazioni).

Col referendum alle porte era inevitabile che il governo cedesse piccoli oboli elettorali e non mettesse in piedi bracci di ferro con il mondo sindacale, soprattutto con la Fiom. Il problema è che il nuovo contratto spiana la strada alla contrattazione aziendale, alla “cogestione” sindacale dei profitti aziendali e allo scambio tra il welfare pubblico in drastica riduzione e il welfare aziendale che invece vede un’implementazione decisiva. Cosa c’è di sbagliato in tutto questo? A chiarirlo sono le stesse testate padronali appagate dell’accordo raggiunto. Sul Corriere Dario Di Vico si incarica di analizzare i risultati strutturali dell’accordo, chiarendo sin dalle premesse lo scenario entro cui verrà incardinata la contrattazione tra lavoratori e datori di lavoro:

Al tavolo dei grandi contratti di lavoro dei paesi avanzati, accanto alle folte delegazioni di imprenditori e sindacalisti siede ormai fisso un solitario convitato di pietra: la globalizzazione. Se il risultato di quel tavolo alla fine è troppo sbilanciato a favore del lavoro c’è il rischio concreto che le imprese non riescano a sostenere più il ritmo della concorrenza internazionale e vadano fuori mercato. Viceversa se l’impresa stravince il round del negoziato e magari umilia il sindacato è facile che psicologicamente gli operai sconfitti si iscrivano nel novero dei perdenti della globalizzazione e finiscano per diventare l’esercito elettorale di riserva dei partiti populisti”.

L’editorialista del Corriere certifica il ricatto padronale e tenta di dargli patente di legittimità: con la “globalizzazione” di mezzo, o la contrattazione tiene conto delle esigenze padronali di produrre a orari, ritmi, salari e standard “cinesi”, o quegli stessi padroni prendono armi e bagagli e trasferiscono la produzione in Cina. E in effetti, secondo stringente logica liberista, il ragionamento non farebbe una piega.

Nella truffaldina descrizione degli interessi in causa manca però la politica, che dovrebbe avere il ruolo di garante contro ricatti di questo tipo. Infatti il problema non è tanto la “globalizzazione”, quanto la scomparsa della politica nella contrattazione sociale, che dovrebbe impedire tali “ricatti delocalizzanti”. E non perché, come teme Di Vico, poi quegli operai scontenti inizino a votare il Trump di turno, ma per una ragione di civiltà talmente palese da risultare retorica: le condizioni di vita del lavoratore non possono essere una variabile totalmente dipendente dalle possibilità di profitto dei datori di lavoro.

L’entusiasmo sindacale è però decisamente sospetto. Secondo Di Vico, l’accordo è “un’intesa equilibrata che fa sue le ragioni di aziende che ormai vivono nell’epoca del 4.0”. Non sappiamo cosa sia quest’epoca 4.0 dove vivrebbero “le aziende”, ma nel mondo 1.0 dove ancora vivono i lavoratori, un accordo che “fa sue le ragioni delle aziende” è un pessimo accordo, per nulla equilibrato, e che certifica semmai un rapporto di forze sociali completamente sbilanciato a favore del capitale. Non si tratta tanto di pesare i singoli “pro” e  “contro” del nuovo contratto, quanto di valutarne la logica generale che lo sottintende e la direzione che imprime nelle relazioni produttive del paese. E in questo senso, l’accordo è una débâcle operaia: “Si comincia con lo spostare il baricentro della futura contrattazione sul livello aziendale che rappresenta comunque il punto di contatto più genuino tra mercato e lavoro”.

E’ questa la razionalità posta alla base dell’accordo: a livello nazionale si pongono unicamente generici paletti regolativi, mentre la contrattazione salariale avverrà a livello aziendale, svuotando di senso la contrattazione collettiva. Inoltre, il salario viene legato alla produttività, rafforzando il ricatto padronale per cui il lavoro è una variabile dipendente della produttività. “Nell’epoca del Grande Convitato di pietra ciò che unisce la comunità della fabbrica è molto più di ciò che la divide”, conclude l’editorialista del Corriere.

Ma cosa intende il giornalista con “comunità della fabbrica”? Il nuovo contratto istruisce il percorso della condivisione degli interessi aziendali tra datori e sindacati firmatari, facendo proprio il modello tedesco della “cogestione” del sindacato agli utili dell’impresa. Il sindacato si trasforma così in datore di secondo livello, che ha come obiettivo quello della massimizzazione dei profitti anche a scapito delle garanzie dei lavoratori, e questo scambio determina un mercato del lavoro a due livelli. Nel primo, una sempre più ristretta cerchia di vera e propria aristocrazia operaia ben remunerata e coperta dal welfare aziendale; nel secondo livello, la sempre più preponderante composizione operaia non sindacalizzata, senza diritti e sotto pagata, che non ha accesso alle garanzie contrattuali perché non legata direttamente all’azienda madre ma subappaltata alle aziende dell’indotto precarizzato. Il nuovo equilibrio raggiunto si rivela allora un clamoroso passo indietro per le condizioni generale dei lavoratori del paese, che polarizza i rapporti tra gli stessi lavoratori e regala alle aziende la possibilità della contrattazione locale invece di adeguarsi ai vincoli nazionali della contrattazione collettiva. Una débâcle, spacciata per “accordo pulito e senza scambi”.

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