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26/10/2016

Un giorno Spinelli, l’altro Orbán: gli scivolosi travestimenti dello Zelig di Palazzo Chigi

Si possono dire tante cose dell’attuale presidente del consiglio ma almeno una va sottolineata con onestà: ha un quadro della drammaticità della situazione del paese, e della precarietà su cui poggia il suo potere apparentemente saldo, più lucido di quello delle forze politiche che lo contrastano.

Già perché il Renzi che fa il Viktor Orbàn, pronto, a parole, a far saltare l’ “Europa” sul fiscal compact non è un personaggio inventato per motivi referendari ed elettorali. E’ un presidente del consiglio che ha ben presente di fronte a sé un ordigno reale. Quello della possibile riattivazione del fiscal compact, sospeso a partire dal gennaio 2015, a causa delle difficoltà dell’eurozona ad applicarlo.

Poi c’è il Renzi che fa l’Altiero Spinelli, porta Hollande e la Merkel a Ventotene, in pellegrinaggio ai luoghi in cui sarebbe stata pensata l’Europa di oggi, e che, durante le trattative a latere del pellegrinaggio, chiede discretamente di poter sforare qualche decimale di deficit pubblico. Per tenere assieme la legge di stabilità in vista dell’ordalia referendaria del 4 dicembre.

Entrambi i Renzi sono veri bisogna vedere perché lo sono. Come sono veri i Renzi della politica estera. Quello che va a Washington per l’endorsement di Obama (contro “l’austerità”, in funzione antitedesca e pro deficit-spending) e quello che blocca le sanzioni a Mosca in sede Ue proprio nel momento in cui le contraddizioni Usa-Russia sono acute. Anche qui Renzi fa sia lo Spinelli che il Viktor Orbàn: quello che vuole stemperare le crisi con gli altri paesi europei (la Russia) e quello che tratta con tutti, in funzione di contenimento della Germania, centralizzando bilancio dello stato e rappresentanza dei grandi affari all’estero.

Per non parlare della versione Cavour del presidente del consiglio: ai viaggi fuoriporta in giubbotto militare (Libano, Afghanistan) di Renzi ha corrisposto, quando i mezzi hanno supportato un minimo le ambizioni, un silenzioso, extraparlamentare, posizionamento di truppe in Libia, Iraq e confine turco-siriano. Anche qui il personaggio è lo stesso: un po' prigioniero delle relazioni internazionali, e dei mezzi reali di un paese in crisi, un po' desideroso di smarcarsi da tutti per giocare partite in solitario, sulla scacchiera delle geopolitica, per garantirsi la propria sopravvivenza politica. E’ evidente che su quest’ultimo aspetto, quello geopolitico, bisogna aspettare la scelta del sovrano da parte degli Usa. Che vinca la Clinton o Trump il significato, del collocamento geopolitico Usa nelle aree di interesse italiano, non è lo stesso. Renzi, con la visita a Obama, si è naturalmente posizionato sull’attenti nei confronti della Clinton. Ma il rifiuto di sanzioni più dure verso Mosca ha il significato, oltre che di protezione delle aziende interessate a mantenere un rapporto solido con la Russia, anche di qualche fiche messa sul tavolo per una eventuale vittoria di Trump (ci sono sondaggi che danno la Clinton vincente in doppia cifra ma anche quelli che danno pareggio o Trump vincente, meglio non esagerare in zelo clintoniano).

In attesa che si sblocchi la situazione Usa, i movimenti da osservare nello Zelig di palazzo Chigi riguardano la manovra di bilancio e il futuro prossimo dell’economia. Quello che non piace a Francoforte, Berlino e Bruxelles in Renzi è questo: il governo italiano ha mantenuto il rigore di bilancio ma al limite e, allo stesso tempo, ha fatto spesa improduttiva (dagli 80 euro ai bonus ai diciottenni, visti come il fumo negli occhi a Bruxelles etc.) per garantirsi consenso elettorale. Nelle tre capitali europee si desiderava altro: tagli strutturali, spending review di tipo hard, privatizzazioni a ondata. In modo che le grandi aziende europee potessero fare la spesa in Italia. Il tipo di capitalismo rappresentato da Renzi, il nocciolo duro di ciò che è rimasto nel paese dopo dieci anni di crisi, la vede in maniera diversa (non a caso Confindustria ha benedetto due manovre di fila di Renzi e Marchionne, seppur non si capisca più a quale paese appartenga, parla solo bene di chi gli ha permesso di far ripartire la produzione auto). Compreso quel settore più quotato alla borsa di Milano: il (sinistrato) complesso banche-servizi finanziari-assicurazioni. Lo Zelig renziano deve tener conto di questi interessi come di quelli europei. Non solo, oggi, non è facile ma è anche praticamente irrealizzabile. Ma a palazzo Chigi non manca l’inventiva.

Inoltre Renzi ha capito benissimo che le piazze finanziarie non sposano il referendum e il Si come il remain al referendum scozzese o inglese. Il Financial Times, un tempo entusiasta del guitto di Rignano, ha detto chiaramente che in caso di vittoria del “Si” non cambia nulla. Quello che la City, ovunque si ridislochi dopo il referendum sulla Brexit, vuole non è tanto una riforma costituzionale. Ma una amministrazione dello stato in grado di vendere all’incanto tutto quanto desiderato dai mercati. Possono stupire certi atteggiamenti da parte della stessa testata o, persino, dello stesso giornalista. Al netto del fatto che sui mercati, e nelle persone, tutto cambia veloce va tenuto conto di una cosa. Gli analisti dei mercati finanziari sanno leggere meglio le riforme istituzionali di qualche anno fa. Sanno come funziona un paese e, a differenza della politica, sanno cosa vogliono.

Renzi, o chi per lui, una cosa però la sa: il quadro di integrazione economica e di alleanza nel quale si è immessa l’Italia a partire dalla fine della guerra fredda è traballante. Non ha un modello né di relazioni internazionali o di economia che sia originale rispetto a quanto si vede. Semplicemente si posiziona sia per sopravvivere che per rappresentare quanti più interessi possibile. Una vera tecnica della sopravvivenza politica che però può fare i conti, e sbattere la faccia, con problemi seri. Sia su fiscal compact sia su banche. E se dal prossimo anno dovesse attivarsi il fiscal compact, che di per sé porta un carico di tagli pari al doppio di depressione del Pil di una manovra Monti (il quale perse quasi il tre per cento di Pil in dodici mesi tra il tripudio del centrosinistra che se lo portò come alleato alle elezioni), Renzi non potrebbe sopravvivere politicamente. Non tanto per le pressioni della piazza ma per la sfiducia di chi detiene ricchezza. Certo, il renzismo reale è l’arte dello Zelig, solo travestimenti veloci senza prospettiva, profondità, strategia. Del resto chi si fa un nome, come con la Leopolda, importando miti un po' a giro per il mondo altro non può fare.

Sun Tzu nel celeberrimo L’arte della guerra scriveva: “La strategia è la via del paradosso. Così, chi è abile, si mostri maldestro; chi è utile, si mostri inutile. Chi è affabile, si mostri scostante; chi è scostante, si mostri affabile”. Renzi, per non sbagliare mette in scena tutte queste qualità senza distinzione. Per questo vive di un solo paradosso: quello del travestimento fine a sé stesso. Ma questo modo di fare si chiama vivere di sola tattica. E quando i problemi che emergono sono così complessi vivere di sola tattica non allunga la vita politica. Al massimo allunga le sofferenze.

Redazione, 25 ottobre 2016

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