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26/10/2016

Hillary, la candidata di Wall Street

di Michele Paris

Una delle facce assunte da Hillary Clinton in questa campagna per le presidenziali è quella del difensore della classe media e dei lavoratori americani contro l’enorme influenza che i ricchi e le grandi banche di Wall Street esercitano sul sistema politico, economico e sociale degli Stati Uniti. Anche un irriducibile sostenitore dell’ex segretario di Stato di Obama, se in buona fede, non può però che considerare solo apparente questa sua attitudine, viste le ben documentate affinità con i grandi interessi economico-finanziari della candidata Democratica alla Casa Bianca.

Quegli stessi miliardari americani che hanno consentito ai coniugi Clinton di mettere assieme un’autentica fortuna personale sono infatti gli stessi che hanno donato centinaia di milioni di dollari alla campagna di Hillary, grazie ai quali quest’ultima ha potuto imporre una strategia elettorale volta sostanzialmente a contrastare la percezione negativa che ha di lei la maggioranza dei potenziali elettori.

Alcune delle manovre messe in atto per assicurarsi l’appoggio dei ricchi donatori nella primavera del 2015, cioè poche settimane prima dell’annuncio ufficiale della sua partecipazione alle primarie Democratiche per le presidenziali, sono state documentate dalla recente pubblicazione da parte di WikiLeaks di migliaia di e-mail private del direttore della campagna di Hillary, l’ex lobbista ed ex capo di gabinetto di Bill Clinton, John Podesta.

In particolare, i documenti mettono in luce come Hillary abbia anche formalmente rotto con la sorta di codice “etico” volontariamente applicato da Obama alla sua campagna nel 2012, con il quale intendeva rifiutare il sostegno delle cosiddette “Super PAC”. Queste organizzazioni raccolgono denaro e fanno campagna elettorale per un determinato candidato a patto che le proprie azioni non vengano coordinate direttamente con lo staff di quest’ultimo.

Le “Super PAC” sono proliferate negli ultimi anni grazie a una sentenza del 2010 della Corte Suprema degli Stati Uniti – “Citizens United contro Commissione Elettorale Federale” – che ha spazzato via qualsiasi tetto alle donazioni che esse possono ricevere. Come conferma lo stesso comportamento di Hillary e del suo entourage, i rapporti tra il team dei candidati e le “Super PAC” sono piuttosto stretti e, vista l’indulgenza delle autorità federali, la separazione delle due entità si limita quasi sempre all’adozione di accorgimenti del tutto inefficaci.

Ad ogni modo, i fedelissimi di Hillary non ebbero molti dubbi nel marzo del 2015 circa la necessità di abbandonare qualsiasi scrupolo morale per convincere i tradizionali donatori Democratici a staccare assegni a cinque o a sei zeri a favore delle “Super PAC” affiliate alla candidata alla Casa Bianca.

Fino al settembre di quest’anno, lo sforzo del team Clinton ha permesso di incassare un totale di 1,14 miliardi di dollari in contributi elettorali, inclusi quelli andati nelle casse del Partito Democratico. Donald Trump, da parte sua, ha raccolto invece 712 milioni, di cui 56 provenienti dal proprio patrimonio personale.

Sulle e-mail rese pubbliche da WikiLeaks ha condotto una ricerca il Washington Post, secondo il quale almeno un quinto del denaro incassato finora da Hillary Clinton e dalle “Super PAC” che la sostengono è arrivato “da appena un centinaio di ricchi donatori e da organizzazioni sindacali”. Molti dei primi, aggiunge il quotidiano della capitale americana, sono stati “coltivati metodicamente negli ultimi 40 anni” da Bill e Hillary.

Il primo donatore della ex first lady è il manager di “hedge funds”, Donald Sussman (20,6 milioni di dollari), seguito dal “venture capitalist” di Chicago, J.B. Pritzker (16,7 milioni), dal proprietario della rete televisiva in lingua spagnola Univision, Haim Saban (11,9 milioni), dal noto finanziere George Soros (9,9 milioni) e dal 92enne fondatore della linea dietetica SlimFast, Daniel Abraham (9,7 milioni).

L’analisi del Washington Post chiarisce come, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, quando sono state attuate nuove regole sui finanziamenti alla politica in seguito allo scandalo Watergate, “nessun presidente [degli Stati Uniti] è stato eletto con contributi così ingenti di ricchi finanziatori”.

Singolarmente, non solo Hillary Clinton continua a criticare pubblicamente la sentenza della Corte Suprema che ha spalancato le porte alle donazioni illimitate alla politica americana, ma i suoi stessi ricchi finanziatori sostengono che i milioni di dollari erogati in questi mesi servono precisamente a favorire l’elezione di un presidente che ristabilisca limiti severi alle donazioni elettorali.

In altre parole, individui come Soros o Sussman verserebbero cifre da capogiro a Hillary Clinton non perché il futuro presidente rappresenti i propri interessi, bensì per sostenere un’azione legislativa che impedisca a multi-miliardari come loro di influire sulla politica americana.

Anche una pubblicazione apertamente favorevole alla candidatura di Hillary, come il Post, è costretta ad ammettere che l’ex segretario di Stato entrerebbe alla Casa Bianca con un “grosso debito nei confronti di un gruppo di donatori che hanno sostenuto lei e il marito per decenni”. La somma totale stimata del denaro veicolato verso le campagne elettorali dei coniugi e le loro iniziative “filantropiche”, attraverso la Clinton Foundation, si aggira attorno ai 4 miliardi di dollari.

In maniera poco sorprendente, le e-mail provenienti dall’account di John Podesta descrivono discussioni all’interno del team Clinton sui problemi di immagine di una candidata legata a doppio filo con Wall Street e le accuse di “ipocrisia” nei suoi confronti. Le difficoltà a spacciare Hillary come una candidata realmente interessata alle condizioni delle classi più disagiate era tale che, ad esempio, un membro del suo staff nel maggio del 2015 affermava come la sola presentazione di proposte di legge, volte a limitare l’influenza sulla politica dei poteri forti, poteva non essere sufficiente, ma anzi rischiava di essere controproducente vista la palese “dissonanza” tra parole e fatti.

Ciò non ha impedito comunque la formulazione di una strategia di raccolta fondi definita frenetica dagli stessi uomini dello staff di Hillary Clinton. Per la direttrice della comunicazione della campagna elettorale, Jennifer Palmieri, l’importante era “prendere il denaro”, mentre il capo dell’intera organizzazione, Robby Mook, si diceva disposto a fare i conti con qualsiasi attacco politico pur di assicurarsi contributi milionari.

Già nell’aprile del 2015 erano poi allo studio modalità di interazione con le “Super PAC” pro-Hillary, a cominciare da Priorities USA, per eludere le regolamentazioni di legge che vietano il coordinamento con la campagna elettorale dei candidati. Gli stratagemmi escogitati a questo scopo sono spesso ridicoli e la dicono lunga sull’attitudine a vigilare sul rispetto delle norme relative ai finanziamenti elettorali da parte delle autorità federali.

Ad esempio, dal momento che i membri dello staff di Hillary non potevano indicare ai colleghi di Priorities USA quali cifre erano disposti a sborsare determinati donatori, si comunicava che un noto finanziatore Democratico, “impiegato nell’industria finanziaria”, era probabilmente disponibile a “contribuire con [una somma a] sei cifre” a favore della “Super PAC”.

Il Washington Post indica anche come un’altra “Super PAC”, battezzata Correct the Record e dedicata appunto a “corregge gli attacchi ingiustificati” contro la candidata alla Casa Bianca dei suoi rivali, coordinava invece le proprie iniziative direttamente con lo staff di Hillary perché sfruttava un’esenzione di legge prevista per i blog.

Ai donatori, però, i vari gruppi che fanno campagna per Hillary venivano spesso presentati come “pezzi di un unico progetto”. I responsabili di Priorities USA sollecitavano così donazioni presentandosi come rappresentanti di un’organizzazione direttamente affiliata alla campagna di Hillary. John Podesta, da parte sua, durante gli incontri con i ricchi finanziatori del Partito Democratico non mancava di chiedere contributi sia per la campagna di Hillary sia per le “Super PAC”.

Oltre a quella del Washington Post, altre indagini di giornali americani nei giorni scorsi hanno evidenziato il sostegno ricevuto da Hillary Clinton all’interno della classe dei super-ricchi d’America. Al contrario di quanto era avvenuto nel 2012, quando Wall Street aveva mostrato di preferire Mitt Romney a Obama, in questa occasione la candidata Democratica sembra avere maggiori credenziali in questo senso rispetto a Donald Trump.

Il Wall Street Journal ha scritto che finora la Clinton ha ricevuto direttamente per la sua campagna elettorale 70 milioni di dollari da 19 miliardari, contro 18 milioni da 5 miliardari finiti nelle casse del rivale Repubblicano.

A conferma degli orientamenti dell’élite finanziaria americana, qualche giorno fa l’amministratore delegato di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, ha di fatto appoggiato pubblicamente la candidatura di Hillary Clinton. Questo colosso di Wall Street è storicamente molto legato alla famiglia Clinton e nel 2013 pagò a Hillary ben 675 mila dollari per tre discorsi tenuti di fronte ai propri impiegati.

Oltre a quello dell’industria finanziaria, la ex first lady ha ottenuto il sostegno infine di centinaia di membri ed ex membri dell’apparato militare e dell’intelligence degli Stati Uniti, molti dei quali noti “falchi” e sostenitori delle avventure belliche americane degli ultimi quindici anni.

In un’elezione tra due delle personalità pubbliche più odiate, dunque, Hillary Clinton è senza alcun dubbio la candidata di gran lunga preferita dall’establishment politico, economico e militare. Trump, al contrario, continua a suscitare gravi preoccupazioni a causa della sua imprevedibilità, dell’attitudine troppo conciliante mostrata nei confronti della Russia e delle tensioni sociali che potrebbero esplodere in seguito all’ingresso alla Casa Bianca di un presidente dai tratti apertamente fascisti.

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