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25/10/2016

Affari e Finanza, dalla politica industriale al fallimento

Il numero di Repubblica in edicola oggi, 24 Ottobre, contiene – come ogni lunedì – l’inserto “Affari e Finanza”: un’occasione speciale per questa testata che proprio nell’occasione compie trent’anni.

E’ stato così dato alle stampe un numero celebrativo nel quale sono contenuti articoli che si occupano delle vicende economiche svoltesi in questo lungo periodo, riferendosi in particolare ai processi di trasformazione che via via si sono verificati nel frattempo.

A questo proposito campeggiano tre interviste con protagonisti dell’epoca: Eugenio Scalfari, fondatore oltre che del quotidiano nel suo insieme anche dell’inserto in questione assieme a Giuseppe Turani (con il quale Scalfari scrisse negli anni ’70 un fortunatissimo saggio sul capitalismo italiano: “La razza padrona”) e a due ex – presidenti del consiglio: Giuliano Amato e Romano Prodi.

La lettura dei tre testi non può che provocare, a giudizio personale, altro che sconcerto considerato l’esito che le politiche messe in atto nel trentennio dai diversi governi, hanno fornito sul piano della qualità della democrazia e della condizione materiale di vita delle cittadine e dei cittadini italiani.

Condizioni di vita complessivamente intese, sia ben chiaro, non soltanto sul piano economico, ma dei diritti, della possibilità di usufruire dello stato sociale, delle infrastrutture, delle condizioni ambientali.

Una premessa di metodo, comunque, in precedenza all’entrare nel merito.

In questi trent’anni hanno governato tutti.

Ha governato il centro destra con i governi Berlusconi (1994 da Aprile a Dicembre; 2001 – 2006; 2008 – Novembre 2011), il centro sinistra (governo Prodi 1996 – 1998 e 2006 – 2008, D’Alema 1998 – 2000, Amato 2000 – 2001 ma il “dottor sottile” era già stato presidente del consiglio dopo le elezioni del 1992, come ricordato nell’intervista che si andrà a citare), i tecnici (Monti, Novembre 2011 – Febbraio 2013), le “larghe intese” (Letta, 2014) fino all’attuale governo Renzi frutto di un connubio tra PD e scissionisti del centro destra (come del resto era capitato anche a D’Alema, che colse il destro di una scissione del centro destra propiziata da Cossiga ma anche di una scissione della sinistra propiziata da Cossutta).

Alla guida dei diversi ministeri si sono così alternati esponenti di tutte le forze politiche provenienti dalle “sensibilità culturali” che avevano percorso il Paese dal dopoguerra in avanti, dall’estrema destra ex-Ordine Nuovo fino all’estrema sinistra già demoproletaria.

Questo richiamo è stato svolto per la pura verità storica anche se il ventennio è stato definito come “berlusconiano” a causa della capacità del padrone di Mediaset di plasmare attorno al suoi metodi e ai suoi intenti l’intero sistema politico.

Tanto è vero che l’attuale governo PD – fuoriusciti dal centro destra ne appare proprio come il più legittimo erede, in particolare proprio nei metodi e nei comportamenti del presidente del Consiglio.

Presidente del Consiglio capace di personalizzare, a parte tutto ciò che gli passa dattorno (in un’opera notevole di strumentalizzazione e d’inganno mediatico) anche un progetto di riforme costituzionali (quelle che saranno sottoposte a referendum il prossimo 4 Dicembre) molto somiglianti nella loro filosofia di fondo (riduzione dei margini di agibilità democratica) a quelle proposte appunto dallo stesso Berlusconi nel 2006 e bocciate dal voto popolare.

Torniamo però all’inserto Affari e Finanza del trentennale e alle interviste dei “tre tenori”.

E’ impressionante, nel leggerle, come non vi si ravveda un minimo di rimpianto, se non di autocritica, per gli esiti disastrosi della loro opera di governo e/o di suggeritori del “principe”.

Scalfari addirittura rivendica il merito di aver convinto Prodi a svolgere la funzione di Presidente dell’IRI (governo Spadolini, incarico mantenuto anche durante il governo Craxi formato dopo le elezioni del 26 – 27 Giugno 1983).

La presidenza dell’IRI da parte di Prodi, che Scalfari ricorda come quella che affrontò il tema tanto propagandato all’epoca “dello Stato che faceva i panettoni”, coincise non tanto e non solo con lo smantellamento delle partecipazioni statali, ma di interi settori nevralgici dell’industria italiana, a partire dalla siderurgia (su quell’operazione ironizzò molto Enrico Cuccia).

Un’operazione, quella riguardante la siderurgia che privò il nostro Paese di una propria capacità strategica in quel comparto produttivo, della quale si risentì moltissimo negli anni successivi.

Nell’intervista a Prodi, invece, si rivendicano due operazioni sulle quali sarebbe meglio che l’ex-presidente del Consiglio riflettesse a lungo: quella dell’ingresso fin dall’inizio nell’eurozona (scelta compiuta a detta proprio dello stesso Prodi con motivazioni d’orgoglio nazionale davvero fuori luogo in un frangente del genere) e quella – del tutto esiziale – dell’allargamento indiscriminato a Est dell’Unione Europea (decisione assunta quando lo stesso professore bolognese era a capo della Commissione di Bruxelles).

Sorprendente sotto questo aspetto la motivazione adottata per giustificare l’allargamento che sarebbe stata quella di “chiudere con la vicenda dell’URSS”: nella sostanza una decisione di tipo economico – politico che ne nascondeva una di carattere geopolitico (in sintonia presumibilmente con la NATO) per isolare la Russia.

Tornando all’ingresso dell’Italia nell’eurozona non si trova una parola almeno di riflessione sulla scelta di collocare il livello di cambio con la lira a 1936, 27 (assolutamente esagerato).

Mentre la scelta del periodo di cosiddetto “doppio binario” lira /euro previsto dalla articolo 155, comma 1, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (legge finanziaria per il 2001) fu opera del governo presieduto da Giuliano Amato, entrato in carica nella primavera del 2000 dopo le dimissioni del governo D’Alema, seguite alla sconfitta subita dal centrosinistra nelle elezioni regionali.

Ed è proprio nell’intervista a Giuliano Amato che arriva la dichiarazione più sconcertante, che fornisce la misura degli errori compiuti da questi personaggi sul piano dell’analisi (“analisi”: una definizione assolutamente generosa).

Il riferimento è ancora al 1992, epoca del primo governo Amato e la domanda riguarda – appunto – le privatizzazioni (all’epoca avvenne quella dell’ENI) che lo stesso Amato definisce “settori industriali liberati dai partiti” (quali? quelli di Amato e soci, di riferimento al CAF. Con Amato sempre in sella beninteso dopo aver recitato la parte del Cardinale Richelieu nel governo Craxi).

Amato oggi afferma:
“Ci provammo, immaginavamo una Borsa “aperta” e non più influenzata da un solo player, espressione del famoso Salotto Buono. Immaginavamo la formazione di grandi gruppi a capitale privato, ma con significativa partecipazione pubblica, al servizio della crescita del Paese. Insomma avevamo un’idea di politica industriale, che non era archeologia”.
E ancora di fronte alle osservazioni dell’intervistatore, che chiede conto del perché tutto ciò non accadde, ancora una risposta sconcertante:
“Lei ha ragione. Negli anni successivi tutto si è perso. Ma qui c’è poco da accusare il governo: la responsabilità di quelle occasioni mancate va ricercata altrove. Diciamolo: il capitalismo privato non è stato all’altezza delle sfide”.
Abbiamo compreso bene? Si era rovesciato il rapporto tra pubblico e privato e si pretendeva che il capitalismo italiano svolgesse una funzione programmatoria lasciando spazio alla partecipazione pubblica in un’ideale Borsa dei sogni aperta e solidale.

E’ stato così che si è aperta la strada, invece, al berlusconismo, alla speculazione, alla sparizione di interi settori industriali, all’impoverimento generale, alla crescita della disoccupazione e delle diseguaglianze.

Certamente si sono verificati gli eventi della gestione capitalistica del ciclo successiva al 2007, all’aggressività di nuovi attori nel mercato mondiale, alla presenza di nuovi eventi di natura bellica tali da provocare fenomeni di grande portata come quelli della presenza su larga scala dei migranti.

Alcuni abbagli (chiamiamoli così) appaiono però, adesso come adesso, addirittura enormi: a livello Europeo e interno.

Una lettura sconcertante questa dell’inserto “Affari Finanze” del quale “Repubblica” ha avuto davvero coraggio nel celebrarne i trent’anni in un mix di falsa ingenuità e improntitudine.

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