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25/09/2016

Corbyn batte di nuovo i blairiani. Per andare dove?

La buona notizia è che i blairiani non hanno ripreso il controllo del Partito Laburista inglese. La notizia normale è che non si capisce cosa sia e cosa diventerà quel partito.

Con il 62%, infatti, Jeremy Corbyn è stato rieletto leader del partito, mentre i parlamentari dello stesso Labour lo avevano sfiduciato – 170 contro 40 – dopo il voto sulla Brexit (Corbyn si era schierato con il remain, ma con l'entusiasmo di una turista per caso). Il risultato è una bocciatura per tutto l'establishment dell'ex partito controllato dalle Trade Union – il sindacato – visto che poco più di un anno fa l'anziano militante pacifista aveva ottenuto una vittoria più risicata (59%), per quanto molto netta.

Né si può dire che la partecipazione alle “primarie” sia stata scarsa: hanno votato mezzo milione di persone sui 600.000 iscritti (che strano, nei paesi che le hanno inventate votano solo gli iscritti, versando ben 25 sterline, non le truppe cammellate di qualcun altro...).

Di certo, in questi dodici mesi, Corbyn non ha goduto di un solo attimo di pace in casa sua, tanto meno ha avuto buona stampa sui media che contano. Eppure errori, incertezze, errori marchiani, furbizie poco credibili, ecc, non sono stati sufficienti ad affossarne la popolarità tra i laburisti “di base”. Bastava guardare in faccia i blairiani per convincersi che non era il caso di tornare indietro, di restituire insomma ai neoliberisti guerrafondai e corrotti la leadership di un partito squassato, a pezzi, indefinibile negli scopi, legato a una storia certo riformista e concertativa, ma meno infame di quella recente.

"La nostra famiglia laburista deve affrontare il futuro insieme, dobbiamo unire il partito per proteggere gli interessi dei lavoratori e riconquistare il potere", ha spiegato Corbyn nel suo primo discorso da rieletto. E come sempre si è sentito in obbligo di offrire agli avversari interni il ramoscello d'ulivo: "Nelle elezioni si dicono cose a volte esagerate, le cose che ci uniscono sono più di quelle che ci dividono, non abbiamo avuto paura di discutere apertamente e dobbiamo essere orgogliosi”.

Da parte sua può vantare un unico successo: aver riavvicinato molta gente di sinistra al vecchio Labour: “Abbiamo il più grande partito per numero di iscritti in tutta Europa, abbiamo triplicato il numero di iscritti in un anno e mezzo”.

Più complicato è definire obiettivi realistici o di “cambiamento”. Quindi non resta che buttarla in retorica, evidenziando le indubbie condizioni ignobili in cui versa una parte consistente della popolazione britannica dopo quasi trenta anni di neoliberismo thatcheriano: “Adesso è il momento di concentrare tutte le nostre energie nell'obiettivo di sconfiggere i conservatori, Theresa May ha cambiato gli slogan di David Cameron ma la sostanza è sempre la stessa, quella di un governo di destra. Quattro milioni di bambini in Gran Bretagna vivono in povertà, sei milioni di lavoratori sono pagati meno del minimo salariale, se credete come me che questo sia scandaloso nella sesta economia mondiale, allora il Labour può vincere le prossime elezioni. Io non ho dubbi che, lavorando insieme, potremo farlo".

Come si noterà, neppure un accenno al fatto che la May ha cavalcato il leave, ovvero il sì alla Brexit, al contrario del defenestrato Cameron. Eppure, quantomeno per la Gran Bretagna, si tratta di un cambiamento di scenario decisamente notevole, anche per le più semplici funzioni dell'economia (che comunque sembra passarsela, nell'immediato, molto meglio di quanto minacciato prima del voto di giugno).

Nonostante alcune grandi città conquistate nell'ultimo anno (Londra e Liverpool, in primo luogo), nei sondaggi il Labour continua ad essere molto indietro rispetto ai conservatori, che hanno cavalcato con più spregiudicatezza – almeno in parte – il sentimento euroscettico che ha portato alla Brexit. Ora che si tratta di muoversi dentro questo nuovo scenario (dal prossimo anno, in ogni caso, dovranno cominciare le trattative per l'uscita anche formale della Gran Bretagna dall'Unione Europea), il Labour non sembra avere capacità di elaborare risposte all'altezza. È più “di sinistra”, quanto a diritti sociali e welfare, ma non sembra ancora molto in sintonia con una base operaia e di disoccupati che invece – solo tre mesi fa – ha fatto sentire il suo peso sulla vittoria del leave.

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