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28/07/2016

Turchia - Chi protegge "Caino"

di Francesco Pongiluppi

Gli effetti del fallito golpe ai danni di Recep Tayyip Erdoğan stanno muovendo il Paese verso un’ulteriore polarizzazione della società, già sensibilmente segnata dalle vicende – interne ed esterne – dell’ultimo quinquennio. L’attuale ostentazione del potere dell’entourage politico di Erdoğan, evidentemente scosso dalla paventata débâcle ma al contempo sovraeccitato per l’affermazione dell’ordine costituito, evidenzia le debolezze di un sistema socio-politico poco incline all’inclusione di qualsivoglia alterità. Un aspetto non imputabile ai soli seguaci politici dell’attuale Presidente della Repubblica.

Nonostante sia comune l’immagine di una società turca caratterizzata da una irrisolvibile dicotomia tra difensori del laicismo e ferventi religiosi, lo scontro di potere in atto denota al contrario come tale visione sia non solo superata ma probabilmente erronea fin dal principio.

La mera analisi secondo la quale l’inconciliabile convivenza tra un homo urbanus e un homo anatolicus sia all’origine delle difficoltà di Ankara nel realizzare una democrazia compiuta, è messa in discussione dalla provenienza socio-politica che accomuna la nomenklatura oggi al potere in Turchia e i gulenisti. Sono infatti entrambi soggetti provenienti da fenomeni politici alternativi a quello promosso dall’esigua ma potente classe burocratica concentrata nelle metropoli occidentali del Paese, i cosiddetti “giacobini”o “turchi bianchi”.

L’antesignano politico della destra oggi al governo fu Adnan Menderes, il leader del Demokrat Parti che per primo diede voce e rappresentanza agli esclusi della rivoluzione kemalista ovvero quell’universo proveniente dalla profonda Anatolia, di matrice tradizionalista e dai principi conservatori. Menderes fu colui che vinse le prime libere elezioni organizzate in Turchia nel lontano 1950. Il suo fu un governo caratterizzato dalla riabilitazione dell’Islam sia nella vita politica che negli spazi culturali del Paese. Altro fattore determinante del suo programma fu l’adozione di una politica economica liberista che generò nei primi anni una promettente seppur illusoria crescita.

Tuttavia, dopo qualche anno, l’indirizzo del governo Menderes finì nella repressione di ogni voce dissidente. L’ossessiva ricerca del “nemico” sul quale addossare i problemi della dilagante disuguaglianza sociale prese il sopravvento su quegli auspici democratici e inclusivi con cui l’élite governativa aveva conquistato il potere. Se dapprima la repressione colpì gli universitari, i circoli liberali, gli ambienti marxisti, piano piano si passò all’allontanamento di una parte dei dipendenti statali fino all’esclusione dal mercato economico-finanziario nazionale di figure appartenenti all’opposizione.

Durante il governo Menderes, tra il 6 e 7 settembre del 1955, in risposta alla mendace notizia di un attentato alla casa natale di Mustafa Kemal nella greca Salonicco, migliaia di cittadini si riversarono nelle strade di Istanbul e di altre città della Turchia per attaccare fisicamente la comunità greco-ortodossa e i loro beni, allora parte significante del sistema socio-economico nazionale. Aver fatto ricadere sull’esercito le responsabilità dei pogrom fu probabilmente una delle scintille che portarono il 27 maggio 1960 un gruppo di ufficiali delle Forze Armate Turche a rovesciare il potere attraverso un golpe, il primo di una serie che – come l’attualità di questi giorni testimonia –  evidenziava allora come oggi l’acerbità di una cultura politica democratica.

Menderes moriva impiccato il 17 settembre del 1961. Pagò con la vita una concezione distorta della democrazia e soprattutto l’incapacità di eliminare dal lessico politico turco il disprezzo verso l’alterità. I decenni che separano quella giornata di settembre da oggi sono stati segnati dalla medesima inadeguatezza o incapacità dei governanti di indirizzare la società verso una cultura civica capace di rispettare e proteggere la dignità dell’avversario politico di turno. Al contrario, l’assenza di una riconciliazione nazionale e il mancato superamento di una logica costantemente indirizzata a disumanizzare il “nemico” sono stati alla base dell’instabilità politica che fino al 2002 – ovvero l’anno del primo governo Akp, il partito fondato da Erdoğan – ha segnato l’esistenza della Repubblica di Turchia.

La stagione politica inaugurata dall’attuale formazione governativa, sebbene nei primi anni al potere avesse palesato timidi segnali di rottura con il passato – dalla distensione dei rapporti con i paesi della regione fino ad un’apertura verso le minoranze interne – non ha saputo col tempo dar seguito all’edificazione di un paradigma nazionale che potesse rompere definitivamente una distorta concezione del potere. Un’opinione pubblica, quella turca, incapace purtroppo di difendere “Caino” dagli abusi e troppo spesso silente verso la vittima sacrificale del momento. Gli stessi “gulenisti”, oggi repressi e condannati dal governo in quanto espressione del “terrore”, negli anni in cui hanno partecipato alla vita politica in veste di corrente del partito al potere hanno chiuso gli occhi di fronte alla spettacolarizzazione della repressione del “nemico” di turno.

La Cemaat, letteralmente “comunità” –  come in lingua turca vengono apostrofati i “gulenisti” – ieri spina dorsale del governo e oggi sua spina nel fianco, nasce e si forma come protagonista della repressione anticomunista che caratterizzò la Turchia nella fase socio-politica sfociata nel golpe militare del 1980. Attore di primo piano nelle repubbliche turcofone dell’Asia Centrale nel periodo post-sovietico, la cemaat è una galassia di associazioni, scuole, media e fondazioni, colonna portante di quel soft-power portato avanti in politica estera dallo stesso Erdoğan nel primo decennio di governo. Il silenzio-assenso di fronte all’ondata repressiva che colpiva la società civile curda e il partito Dtp all’indomani delle elezioni locali di marzo 2009, denota l’irresponsabilità o meglio la corresponsabilità di questo attore – oggi definito “cane” dagli uomini del Presidente – nell’aver mantenuto quella stessa cultura politica di cui oggi è vittima.

Le immagini che circolano in rete sul trattamento riservato ai golpisti e presunti tali, le preoccupanti dichiarazioni di importanti autorità religiose e civili sulla punizione da riservare ai colpevoli e infine, la piena libertà concessa ai piccoli ma rumorosi gruppi estremisti nazional-islamisti,tendono a confermare quanto la storia di questo Paese abbia già tristemente dimostrato in passato. L’attuale clima politico e le immagini intenzionalmente diffuse sulla violenta coercizione in corso palesano l’incapacità governativa di affermarsi in quanto veicolo di cultura democratica. Oggi più che mai è necessaria una forte presa di posizione della società civile turca per una seria e responsabile riconciliazione nazionale che abbia come principale pilastro il rispetto della dignità dell’uomo, “Caino” compreso.

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