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29/06/2016

Shock di sistema, inutile voltarsi indietro

Democrazia contro dittatura dei mercati. Non è una disputa ideologica, ma la quotidianeità dei problemi che attraversa il mondo attuale.

A un anno di distanza, due paesi europei collocati ai poli opposti della scala gerarchica capitalista – Grecia e Gran Bretagna – si trovano nella stessa identica posizione di “dannati”. Naturalmente, il paese forte e ricco resiste meglio di quello povero e debole, ma la pressione dei “mercati” si esercita in entrambi i casi in modo assolutamente identico perché “i mercati” sono un’entità impersonale, un modo di produrre e vivere, altamente automatizzato o – nel caso specifico della finanza globale – quasi integralmente informatizzato. Le decisioni che possono spezzare la vita di un’intera popolazione, dunque, sono in parte – e ci sembra che sia anche quella principale – in mani che non hanno mai avuto il senso del tatto, perché non sono umane.

Ci sono certamente i governi, c’è l’Unione Europea (uno Stato in formazione, non uno “spazio” in cui giocare), i tecnoburocrati di Bruxelles, che prendono decisioni secondo le regole fissate nei trattati. Loro sì che possono “graduare” la violenza delle decisioni punitive secondo la antica logica dei rapporti di forza. Dunque spietati e omicidi con la Grecia, cautelosi e prudenti con la Gran Bretagna (al di là delle dichiarazioni di facciata; vedi qui).

“I mercati” no, loro non guardano in faccia a nessuno, ma anche loro fanno i conti con la forza, economica e finanziaria. E la piazza di Londra è quella dove avvengono metà degli scambi globali. Non è politica (esercizio semi-arbitrario della forza o della mediazione), è calcolo matematico. Ma i risultati sono quasi identici.

Per capire meglio il funzionamento dei “mercati” in questo caso vi rimandiamo, per comodità, alla illuminante scheda del sempre preciso Morya Longo, de IlSole24Ore (del resto il quotidiano di Confindustria deve dare informazioni ultra-attendibili ai propri associati, mica può far propaganda pura come Repubblica).

Quel che qui ci interessa approfondire, invece, sono le conseguenze della Brexit sul piano politico e geostrategico. Che questo voto – se non sarà rovesciato con un vero e proprio golpe molto autoritario – segni la prima vera rottura nel processo di costruzione del “sovra-Stato” chiamato Unione Europea è giudizio comune a tutti. Cosa accadrà ora, invece, è una scommessa tutta da verificare, perché – banalmente – nessuno l’aveva davvero presa in considerazione, neanche quelli che da destra avevano fatto campagna per il leave.

Tutti hanno anche capito che la Ue non può andare avanti pensando soltanto alle politiche di austerità, ossia di strangolamento dei ceti medio-bassi, perché la “reazione dei popoli” – in una situazione di crisi economica e di libertà di voto – porta necessariamente a far emergere forze che devono in qualche modo corrispondere al malessere diffuso, anche quando – come nel caso delle destre nazionaliste, fasciste o parafasciste – questa corrispondenza è puramente strumentale.

Ma la Ue è stata costruita, trattato dopo trattato, per essere esattamente questa cosa qui. E fanno incazzare – non ridere – i Prodi e i D’Alema che ora dicono “bisogna correre ai ripari”, “cambiare l”Europa”, o almeno cambiare subito le sue politiche economiche rinviando a tempi migliori una “riforma” dei trattati. Non ci sono “riforme” possibili, in questa Ue, se non dall’alto; per decisione di chi controlla il gioco (serve l’unanimità per correggere un trattato fondamentale), mentre qualsiasi governo eletto da qualsiasi maggioranza popolare è destinato programmaticamente a rimanere “isolato”, impotente, rovesciato brutalmente o corrotto integralmente.

Di più. E’ venuto alla luce del sole, come lava dalle profondità della terra, che la linea di frattura, all’interno di ogni paese, è anche una divisione di classe.

A favore della Ue sono i grandi capitali multinazionali e tutte le categorie (professionali o del lavoro dipendente) che hanno un interesse materiale nel mantenimento dello statu quo o dell’avanzamento dell’integrazione. Interesse materiale non vuol dire solo “soldi”, e infatti tutti i media di regime insistono molto sugli studenti della cosiddetta “generazione Erasmus” – una ristretta minoranza della loro stessa generazione – per indorare la pillola e mostrare quella che a tutti gli effetti è la faccia migliore di questa “Europa”.

Contro hanno votato tutti i “perdenti”: lavoratori dai salari bloccati e dai diritti evanescenti, disoccupati, pensionati, giovani di non elevatissima istruzione e condannati alla precarietà perenne. “Proletari”, avremmo detto una volta. Ma da 50 anni a questa parte anche la ricchezza misurata in figli si è molto impoverita...

Una divisione che dovrebbe aiutare a identificare “i nostri”, ma che risulta difficile da inquadrare per tanta parte della “sinistra” – anche “rivoluzionarissima” – cresciuta dentro gli assetti che rendevano “naturale” la condizione di cittadini “subordinati ma liberi di muoversi”, senza diritto di parola, all’interno dell’Unione Europea.

Da quelle parti l’idea della “rottura” è stata demonizzata con le peggiori fesserie, fino a carezzare in qualche caso estremo l’idea di eliminare il suffragio universale, reintroducendo il voto per censo o almeno per Q.I.

La domanda che resta in canna è dunque semplice: ma come credete che possa avvenire un “cambiamento radicale” o una “rivoluzione”? Restando eternamente nello statu quo fin quando la maggioranza della popolazione non avrà capito che “abbiamo ragione noi”? E chi sarà mai il soggetto sociale di questo cambiamento radicale? I “ceti medi riflessivi” o “quelli che non hanno capito bene”?

Alcuni ottimi analisti di equilibri internazionali hanno cominciato ad avanza l’ipotesi di apertura di una fase di “balcanizzazione” dell’Unione Europea. E questo a prescindere dalla presenza – che non c’è – di “forze rivoluzionarie” in grado di esercitare un ruolo guida. Vuol dire che i movimenti tellurici nel sistema sono di dimensioni tali da poter travolgere l’architettura dell’Unione Europea anche senza che qualcuno ne invochi la rottura. È questa struttura che impedisce al vecchio di morire e al nuovo di nascere, in questa parte del mondo.

È l’apertura di una fase di terremoti ravvicinati, “impersonali”, che cambiano la geografia e la storia, il terreno su cui poggiamo i piedi e a cui avevamo fatto l’abitudine. Ma non siamo noi, e tantomeno “i nostri”, che possono nutrire nostalgie per il mondo che se ne sta andando.


Un tempo i comunisti lo capivano prima degli altri, e lavoravano per cogliere il tempo e l’occasione...

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Brexit, ecco come funziona il contagio globale

di Morya Longo

Hanno votato in Gran Bretagna. Ma a pagarne le conseguenze, per ora solo sui mercati finanziari, è tutto il mondo. Come un gigantesco terremoto, le scosse sismiche si sono infatti sentite fino al Giappone e agli Stati Uniti. Ma soprattutto hanno colpito duro sulla Borsa di Milano: da giovedì scorso, giorno del referendum, le vere vittime del «leave» sono state infatti le banche italiane, che hanno perso in media il 27%. Molto più, paradossalmente, del 13,9% di quelle inglesi.

Questa è la faccia più oscura dei mercati finanziari: sono così grandi (circa 9 volte maggiori del Pil mondiale) e così veloci (ormai una grande fetta delle contrattazioni in Borsa è effettuata da algoritmi automatici) che riescono a propagare in pochi secondi la crisi da una parte ad un’altra del globo. Votano gli inglesi, ma soffrono le imprese giapponesi e le banche italiane. Tutto questo a causa dei mercati finanziari che, ormai, sono diventati meccanismi velocissimi per propagare il contagio da un Paese all’altro. Fino all’economia reale.

Il paradosso delle valute

Il primo canale di propagazione del «virus» dell’incertezza è quello valutario. Che dal giorno di Brexit la sterlina abbia perso il 10,56% rispetto al dollaro è comprensibile: se si temono fughe dalla Gran Bretagna di banche o aziende (ammesso che poi avvengano davvero) e dunque di capitali, è normale che la valuta del Paese si deprezzi. Un po’ meno normale è che lo yen si rafforzi violentemente su tutte le altre valute, causando un danno all’economia giapponese e dunque un forte ribasso (-5,64% dal giorno del referendum) sulla Borsa di Tokyo.

Ci si potrebbe domandare: cosa c’entrano lo yen e il Giappone con Brexit? Il motivo è squisitamente finanziario. Lo yen viene infatti tradizionalmente usato dagli investitori globali come valuta per il cosiddetto «carry trade». In parole povere: quando lo scenario è positivo, molti investitori si indebitano in Giappone (dove i tassi sono molto bassi da decenni) e con i soldi presi in prestito comprano azioni oppure obbligazioni altrove. Questo, in tempi normali, causa il deprezzamento della valuta nipponica. Così, quando i tempi non sono più normali come ora, avviene il movimento opposto: tutti chiudono le posizioni di «carry trade», vendono azioni e ricomprano yen per rimborsare i debiti. Così lo yen, magicamente, si apprezza. E un rafforzamento altrettanto finanziario è quello del dollaro, tradizionalmente visto come valuta rifugio.

La caduta delle Borse

Dalle valute ai mercati azionari il passo è breve. Le azioni inglesi cadono per un motivo ovvio: tutti prevedono che la Gran Bretagna possa subire un rallentamento economico a causa di Brexit. Ma cadono poco, se si pensa che dal giorno del referendum la Borsa di Londra ha perso “solo” il 3,12% (meno della metà di Francoforte). Perché? La riposta è ovvia: per la sterlina. Dato che, come detto prima, il pound si è deprezzato del 10% e dato che la Borsa londinese è composta da molte società che vivono di export, gli investitori credono che le aziende inglesi possano prima o poi beneficiare del deprezzamento della loro valuta.

Ci si può dunque domandare come mai siano invece crollate in maniera violenta le Borse europee, dato che anche l’euro – in fondo – si è un po’ svalutato. Il motivo qui è legato in parte alla grande incertezza politica che circonda il progetto europeo. Ma c’è anche un altro motivo, più “finanziario”: gli investitori che oggi vogliono proteggersi dall’incertezza, non potendo vendere titoli di Stato dei Paesi del Sud (perché sono protetti dalla Bce), vendono azioni nel Sud Europa. E soprattutto azioni di banche, che – oltre ad avere delle criticità strutturali – sono la cosa più simile ai titoli di Stato e al rischio Paese che esista. Per questo a perdere più di tutti, in questi giorni, sono le banche italiane (-27,3% in tre giorni, contro il 16,9% di quelle tedesche e il 13,9% di quelle francesi): perché su di loro si scarica la furia di tutti coloro che vogliono “coprirsi” dal rischio italia.

L’economia reale

Come appare evidente, Brexit è stato solo un detonatore: a creare il contagio globale sono meccanismi (spesso automatici) dei mercati finanziari. Meccanismi che di tanto in tanto scattano, a prescindere da quale sia il motivo: a inizio anno era il timore sulla Cina, poi il mini-petrolio, ora Brexit. Il punto è capire se questa turbolenza finanziaria possa, alla lunga, ripercuotersi sull’economia reale. Se le banche crollano in Borsa, per esempio, non possono effettuare aumenti di capitale (in Italia ce n’è bisogno) e dunque sono costrette a ridurre il credito alle imprese. Se lo yen sale, soffre l’economia giapponese. E così via: il domino è globale.

Ecco perché i Governi e le banche centrali sono tutti pronti a intervenire: per evitare che questa bufera, per ora solo borsistica, si scarichi sull’economia reale. Tutti sono convinti che prima o poi le banche centrali facciano qualcosa: la Fed Usa e la Bank of Japan per arginare la salita delle loro valute, la Bank of England per tamponare le conseguenze di Brexit e la Bce per arginare la marea in Europa. Anche i Governi stanno cercando il modo per intervenire, per esempio a sostegno delle banche. Così lo scenario cambia continuamente, e la speculazione finanziaria anche. Ecco perché capire i meccanismi della finanza è sempre più importante. Per questo «Il Sole 24 Ore» lancia, da oggi, una serie di dossier quotidiani sui rischi e le opportunità derivanti da Brexit.

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