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21/06/2016

Iraq - Fallujah, la strategia ISIS e il dramma dei civili

di Chiara Cruciati - Il Manifesto

Cento corpi al giorno si aggiungono ai cinque milioni seppelliti negli ultimi 1400 anni. Il cimitero della Valle di al-Salam è il più antico al mondo, si dice. Sorge nella provincia di Najaf, città simbolo degli sciiti iracheni: qui riposa Ali, genero di Maometto e capostipite della setta sciita. Hamid al-Wad lavora tra tombe e lapidi millenarie: «Prima ero solito seppellire 13-14 corpi al giorno. Oggi ne riceviamo 100, tutti combattenti sciiti».

La guerra in corso in Iraq contro lo Stato Islamico porta morte e distruzione. I cadaveri di al-Salam arrivano da Ramadi, Fallujah, dai fronti aperti dove a combattere sono l’esercito governativo e le milizie sciite. A Baghdad si preferisce non rendere noti i bilanci: troppi morti non farebbero che infiammare ancora di più l’atmosfera già tesa che regna sulla capitale. Meglio tenere su il morale con le vittorie segnate ogni giorno e a volte ingigantite: venerdì il premier al-Abadi dava Fallujah per liberata ma così non è. Si combatte ancora, per le strade della città, perché i miliziani dell’Isis sono ancora nascosti e lanciano attacchi contro gli uomini del governo.

La crisi umanitaria è esplosiva. Se a Najaf seppelliscono i combattenti sciiti, qui sono i sunniti a vivere un dramma senza fine che non potrà che avere effetti sul futuro del paese: in soli tre giorni, quelli più duri della battaglia agli sgoccioli, sono fuggiti 30mila civili dopo l’ingresso nel centro città delle forze governative. Si sono uniti ai circa 32mila scappati nelle settimane precedenti. Altri 25mila potrebbero seguirli a breve. A dare i numeri è il Norwegian Refugee Council, l’ong chiamata a gestire i campi improvvisati dal governo, numeri enormi impossibili da affrontare: non basta il cibo, non basta l’acqua e non bastano i medicinali. Non sono sufficienti nemmeno i ripari: la maggior parte degli sfollati vive e dorme all’aria aperta, sotto il sole cocente dell’estate irachena.

«Queste persone hanno camminato per giorni – spiega Lise Grande, coordinatrice umanitaria dell’Onu in Iraq – Hanno lasciato Fallujah con niente, non hanno nulla con sé». Un disastro umanitario, lo definiscono le Nazioni Unite, a cui Baghdad prova a mettere freno promettendo la costruzione di altri 10 campi per gli sfollati. L’obiettivo è tenerli dentro la provincia di Anbar per impedire un nuovo esodo verso Baghdad che già da tempo ha chiuso le porte ai sunniti sfollati, nella convinzione che tra loro si nascondano miliziani islamisti o nel timore che modifichino la bilancia demografica interna.

Alle condizioni di vita al limite della sopravvivenza si aggiungono le uccisioni per mano dell’Isis che tiene in ostaggio ancora decine di migliaia di civili e le violenze perpetrate dalle milizie sciite contro chi fugge e viene catalogato come “collaboratore” degli islamisti. Abusi che fanno il gioco dell’Isis: il “califfato” sa di aver perso fisicamente Fallujah: ha lasciato a difenderla pochi uomini (non i migliori, ma quelli “sacrificabili”) perché è consapevole che la presa sull’Iraq non ne uscirà allentata.

Tale sicurezza gli deriva dalla strategia che impiega nell’intero paese. O meglio le tre strategie, abilmente interdipendenti. La prima è quella militare: gli attentati nelle città orientali, da Baghdad al sud sciita, servono a concentrare l’attenzione delle forze armate sulla difesa della capitale, allontanandone una parte dalle linee del fronte occidentale. La seconda è politica: gli attacchi perpetrati contro i quartieri sciiti indeboliscono ulteriormente il governo centrale, già alle prese con accuse di corruzione e nepotismo e le conseguenti proteste di piazza. Infine la strategia settaria: la violenza vomitata sulle comunità sciite viene fatta passare come prodotto di quelle sunnite, erroneamente e superficialmente identificate come alleate dell’Isis; dall’altra parte sono gli abusi sciiti contro i sunniti – figli spesso del desiderio di vendetta, come gli stessi miliziani sciiti hanno più volte ripetuto – a frammentare ancora di più l’unità nazionale.

Baghdad prova a cementare le forze in campo: alla battaglia per Fallujah partecipano anche milizie tribali sunnite. Dopo la ripresa della sede del governo, lo scorso venerdì, restano poche sacche islamiste. Ieri è stato liberato l’ospedale, mentre il generale al-Obeidi, comandante in capo, prevedeva la ripresa definitiva «entro pochi giorni», quando case ed edifici saranno stati perquisiti e ripuliti dalla presenza jihadista. Il premier al-Abadi festeggiava già quattro giorni fa quando in tv parlava di liberazione completa: «Fallujah è tornata alla nazione, Mosul sarà la prossima battaglia». L’obiettivo è palese: concentrare la popolazione sulle vittorie per farle accotonare le ragioni della protesta che ha investito Baghdad a maggio.

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