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23/06/2016

Egitto - Sentenza-terremoto contro al-Sisi: le isole sono egiziane

di Chiara Cruciati – Il Manifesto

Tanto rumore per nulla? Non proprio, visto che in carcere restano centinaia di persone. Ma la sentenza di ieri ha la forza di un terremoto per il regime di al-Sisi: una corte amministrativa egiziana (una sorta di Tar) ha annullato la cessione delle isole Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita, decisa dal presidente l’8 aprile durante la visita di re Salman. Se il monarca saudita ha portato con sé decine di miliardi di dollari in investimenti e finanziamenti, se ne è tornato a Riyadh con in tasca le due isolette sul Mar Rosso.

Immediata era stata la reazione della popolazione egiziana che ha manifestato la rabbia verso la dittatura. Le due proteste del 15 e 25 aprile si sono concluse con quasi 2mila arresti. Ma anche con una denuncia: un gruppo di avvocati si è appellato alla corte. Tra loro anche Malek Adly della Rete degli avvocati dell’Egyptian Centre for Economic and Social Rights, tuttora detenuto.
Ieri la sentenza del giudice el-Dakroury, vice presidente del Consiglio di Stato, ha dato loro ragione: «Le isole devono restare parte del territorio egiziano. La sovranità egiziana sulle isole è intatta ed è vietato ogni cambiamento di status, sotto qualsiasi forma o dietro qualsiasi procedura, a favore di un altro Stato».

Mentre su Twitter si moltiplicavano le celebrazione e fuori dal tribunale decine di persone festeggiavano con lo slogan «Pane, libertà e isole» (chiaro riferimento alla rivoluzione del 2011), il regime annunciava il ricorso. Ha 60 giorni di tempo, poi ad esprimersi sarà il Consiglio di Stato. Nel frattempo, secondo quanto previsto dall’articolo 50 della legge del Consiglio di Stato, la prima sentenza entra in vigore. Insomma, le isole sarebbero di nuovo territorio egiziano, nonostante il Consiglio della Shura saudita abbia approvato l’accordo già il 25 aprile scorso.

Che effetti la sentenza possa avere nei rapporti con i sauditi è da vedere. Di certo scombussola la politica estera dell’ex generale che sui rapporti con la petromonarchia fonda buona parte della propria sopravvivenza, strategica ed economica. Non è un caso che per cementare la dipendenza dai Saud, al-Sisi abbia rinunciato a Tiran e Sanafir, definendole «da sempre di proprietà saudita». L’importanza delle due isole del Mar Rosso, tra la città israeliana di Eilat e quella giordana di Aqaba, è strategica: a 3 miglia dal Sinai e a 4 dalla costa saudita, sono state protagoniste di più di una crisi, in primis la Guerra dei Sei Giorni del 1967.

Sono punto di passaggio verso Suez, via di navigazione privilegiata del petrolio in partenza dal Golfo. Non solo: a Tiran c’è la sede della Mfo, Multinational Force and Observers, missione di peacekeeping dell’Onu creata dopo l’accordo di pace tra Egitto e Israele del 1979, un contingente militare di 12 paesi.

La sentenza, però, scombussola anche l’ultima brutale ondata repressiva: gli arresti di massa di attivisti, giornalisti e semplici cittadini, molti prelevati dalle loro case prima delle annunciate manifestazioni, si sono fondati sulla legge anti-terrorismo varata dal presidente che vieta proteste non autorizzate e sul presunto reato di diffusione di notizie false. Così non è e la sentenza potrebbe – o dovrebbe – aprire le porte del carcere a centinaia di prigionieri. A chiederlo è il National Council for Human Rights, organizzazione non governativa, che ha fatto subito appello alla liberazione di tutti gli arrestati per le proteste contro l’accordo.

Difficile però che si metta in pericolo la campagna istituzionalizzata di repressione che colpisce chiunque alzi la voce. Accade anche ai lavoratori che indicono uno sciopero e finiscono di fronte ad una corte militare: è il caso di 26 dipendenti della Alexandria Shipyard Company, accusati di istigazione allo sciopero degli altri 2.500 impiegati, lanciato a maggio per chiedere il minimo salariale di 1.200 sterline egiziane al mese (120 euro). Saranno giudicati da un tribunale militare perché – e è la giustificazione ufficiale – pur essendo civili lavorano per una compagnia di proprietà del Ministero della Difesa. Una violazione dell’articolo 204 della Costituzione che prevede la corte militare per i civili solo nel caso di assalto diretto a proprietà militari.

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