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25/05/2016

Siria/Iraq - Raqqa e Fallujah: le città che possono far implodere l'Isis

di Chiara Cruciati

Sulla “capitale” del sedicente califfato, la città siriana di Raqqa, marceranno le forze kurde: l’operazione per la sua liberazione è stata lanciata ieri dalle Sdf, le Forze Democratiche Siriane, coalizione nata pochi mesi fa e formata dalle Ypg kurde di Rojava e da gruppi armati turkmeni, arabi e assiri.

“Con la partecipazione di tutte le forze delle Sdf, iniziamo questa operazione per liberare Raqqa”, ha annunciato Rojda Felat, comandante militare, in un video girato online. “La campagna – ha aggiunto – intende repellere gli attacchi terroristi a Shaddadi, Tal Abyad e Kobane e garantire la sicurezza alla nostra gente”. L’obiettivo dei 30mila combattenti che parteciperanno è far partire l’attacco allo Stato Islamico in un’area a 50 km a nord di Raqqa (occupata da due anni) così da tagliare le vie di rifornimento usate dagli islamisti spingendoli verso sud.

I primi scontri si sono già registrati ieri nei pressi della comunità di Ain Issa. E se è vero che l’Isis ha dalla sua una capacità militare più strutturata di quella delle Sdf, da parte loro le Forze Democratiche hanno una composizione etnica e religiosa che aiuterà al momento dell’avanzata: formata anche da arabi, garantirà un maggiore sostegno da parte delle comunità arabe occupate dall’Isis e che potrebbero temere rappresaglie o sfollamenti da parti di altri gruppi, come quelli kurdi.

L’operazione è così centrale che le superpotenze provano già a metterci il cappello: sia Mosca che Washington hanno annunciato di volersi coordinare con le Sdf per coprirne l’avanzata con raid aerei. In particolare la Russia ha reiterato la proposta già mossa nei giorni scorsi: operazioni coordinate con l’aviazione statunitense, opzione rigettata dagli Stati Uniti.

Se la controffensiva guidata dai kurdi dovesse produrre risultati militari gli effetti sia sul campo che nelle stanze della diplomazia mondiale saranno immediati: Raqqa è stata eletta dall’Isis propria capitale e, a livello simbolico, ha un’importanza strategica perché mostrato come modello di amministrazione statuale dal “califfo”. Per questo renderebbe la guerra lanciata dalla Turchia di Erdogan a Rojava più difficilmente sostenibile dall’Occidente e potrebbe mettere in pericolo il piano di zona cuscinetto che dopo mesi di pressioni Ankara è riuscita a far digerire a Usa e Ue.

Ma soprattutto sarà sempre più difficile per l’Occidente escludere i kurdi di Rojava dal tavolo del negoziato di Ginevra, da cui sono stati tagliati fuori dal diktat turco ufficializzato poche settimane fa dal Consiglio di Sicurezza Onu, che ha messo il veto alla proposta russa di inclusione del partito Pyd.

Dall’altra parte del confine, in Iraq, prosegue intanto l’operazione per la ripresa di Fallujah. Seconda città della provincia di Anbar, simbolo della resistenza sunnita all’occupazione statunitense, Fallujah ha – come Raqqa – un valore simbolico consistente. Il governo di Baghdad guarda alla controffensiva come al possibile strumento per spegnere le proteste contro l’esecutivo di al-Abadi.

Ma non mancano gli ostacoli: in primo luogo, le conseguenze per la popolazione civile. Dentro Fallujah ci sono ancora 60-100mila persone (dei 300mila presenti prima dell’occupazione islamista), intrappolate dall’Isis. Sopravvivono all’occupazione bevendo acqua del fiume e mangiando datteri secchi, raccontano residenti fuggiti da poco. Con loro l’esercito iracheno dovrà operare con estrema delicatezza per evitare che ulteriori settarismi interni esplodano: le truppe di Baghdad circondano Fallujah da mesi e questo impedisce l’ingresso di cibo e medicine. Per questo Baghdad ha annunciato l’apertura di corridoi umanitari per sostenere la fuga dei civili a ovest, sud-ovest e sud-est, e la costruzione di campi che li possano accogliere.

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