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26/04/2016

PKK: intensificheremo la lotta contro Ankara

Cemil Bayik
di Roberto Prinzi

Chi crede che la repressione turca possa fermare la lotta del partito curdo dei lavoratori (Pkk) si sbaglia di grosso. Questo, in sintesi, il messaggio che ha voluto lanciare due giorni fa dagli schermi della britannica BBC Cemil Bayik che, insieme a Murat Karayulan, è considerato il principale esponente del Pkk in assenza – perché detenuto dalle autorità turche – del leader Ocalan. Bayik ha accusato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan di aver “intensificato la guerra”. “I curdi – ha promesso – si difenderanno fino alla fine. Perciò, finché l’approccio turco rimarrà questo, il Pkk aumenterà la guerra”. Alla domanda se il suo partito miri a creare un suo stato all’intero della Turchia, Bayik è stato netto: “non ci vogliamo separare dalla Turchia. Non vogliamo dividerla. Vogliamo soltanto vivere all’interno dei confini turchi sulla nostra terra in modo libero. La [nostra] lotta continuerà finché i nostri diritti non verranno rispettati”. E se la posizione turca non dovesse cambiare, il Pkk ha già un piano: “l’intensificazione [dei nostri attacchi] avverrà non solo in Kurdistan [turco], ma anche nel resto della Turchia. Erdogan vuole che noi ci arrendiamo, ci vuole uccidere tutti. Lo dice apertamente, non lo nasconde affatto”.

Il cessate il fuoco (non sempre rispettato) in vigore dal marzo del 2013 tra i ribelli curdi e Ankara è stato bruscamente interrotto lo scorso luglio dopo che un attentato suicida dell’autoproclamato Stato Islamico (Is) ha ucciso decine di attivisti di sinistra pro-curdi a Suruc nel sud est della Turchia. Il partito curdo aveva allora duramente attaccato Erdogan per aver fornito protezione e sostegno al gruppo radicale islamico sia all’interno del territorio turco, ma soprattutto in Siria nelle aree a maggioranza curda. Così, mettendo fine ad un “processo di pace” fallimentare e mai realmente iniziato, il Pkk reagiva attaccando e uccidendo alcune forze di sicurezza turche. Da lì il passaggio all’escalation è stato brevissimo: Ankara decideva di rispondere bombardando e assediando non solo le aree a maggioranza curda nel sud est della Turchia, ma colpendo con i suoi caccia anche la zona dei monti Qandil (nord Iraq) dove ha sede operativa il partito ribelle curdo. Uno scenario di distruzione e violenza che continua tuttora. Secondo la Human Rights Association of Turkey, almeno 338 civili – di cui 78 bambini – sono stati uccisi e un milione e 600mila hanno subito violazioni dei diritti umani fondamentali dal 16 agosto 2015. Molto più alto il bilancio di altri gruppi locali, che parlano di oltre mille vittime e centinaia di feriti.

Le notizie che giungono dalle aree curde sono drammatiche: a Nusaybin sono 35mila i civili sotto assedio, ormai privi di medicinali, cibo, acqua potabile, elettricità. Non migliore la situazione a Idil dove un coprifuoco durato 43 giorni ha portato alla demolizione o al danneggiamento di circa 1.200 edifici e alla fuga di 15mila residenti. Alla lunga lista dei morti curdi si sono aggiunti ieri altri 20 combattenti “neutralizzati” dall’esercito turco a Mardin (provincia di Nusaybin), nel distretto di Lice (provincia di Diyarbakir), nella provincia di Sinark e in quella di Kars nel distretto di Kagizman.

Secondo le autorità turche dallo scorso luglio sono oltre 3.700 i “terroristi” del Pkk uccisi da Ankara. Circa 400, invece, le vittime tra gli apparati di sicurezza turchi (soldati, poliziotti e guardie di sicurezza). Numeri che non possono essere verificati e che vanno presi pertanto con il beneficio del dubbio: lo scorso mese, ad esempio, Erdogan aveva parlato di oltre 5.000 ribelli curdi ammazzati. Quale che sia il bilancio reale, la cosa certa è che tra i monti Qandil e il sud est della Turchia è in corso da tempo una mattanza indiscriminata (anche di civili) su cui Usa e Unione Europea tacciono. Soprattutto quest’ultima preferisce chiudere gli occhi e non alzare la voce per non disturbare il leader turco a cui si chiede (pagandolo e promettendogli l’ingresso in Europa) di arrestare una volta e per sempre il flusso migratorio nel Vecchio Continente. Eppure le violenze riesplose negli ultimi mesi tra Pkk e Ankara necessiterebbero di una maggiore presa di posizione da parte delle istituzioni occidentali. Un dato su tutti: il conflitto tra il partito dei lavoratori curdo e il governo turco – nato nel 1984 dalla richiesta curda di una maggiore autonomia – ha provocato oltre 40.000 morti.

Di fronte all’indifferenza dell’Occidente dei “diritti”, il presidente Erdogan continua indisturbato per la sua strada. Recentemente ha proposto di togliere la cittadinanza turca a chi sostiene i ribelli curdi e seguendo le sue direttive si sta muovendo il premier Ahmet Davutoglu. Obiettivo? Cambiare la costituzione avviando azioni legali contro i parlamentari filo-curdi con l’accusa di “propaganda terrorista”. Una proposta che, se dovesse passare, potrebbe segnare l’inizio di una vera e propria caccia alle streghe pericolosissima verso qualunque voce di dissenso.

L’intervista della BBC al leader Bayik ha mandato su tutte le furie Ankara. Se il “sultano” ha taciuto, a prendere parola è stato il suo portavoce Ibrahim Kalin. Kalin ha attaccato duramente l’emittente britannica che, a suo dire, avrebbe “assolto una organizzazione terroristica sostenendo indirettamente la sua propaganda del terrore”. “Che cosa accadrebbe se una agenzia di stampa finanziata dai contribuenti intervistasse al-Qa’eda e cercasse di rappresentare il suo capo come un attore legittimo e ragionevole?” si è poi domandato il portavoce del presidente.

E sì perché per Ankara, il Pkk e i jihadisti sono la stessa cosa. Poco importa che nella sostanza dei fatti si tratta di formazioni completamente agli antipodi dal punto di vista ideologico, di pratiche e di obiettivi. Ankara le pone strumentalmente sullo stesso piano in modo da sacralizzare la sua violenta repressione agli occhi della comunità internazionale (che ipocritamente li considera ugualmente “terroristi” salvo poi collaborarci nella lotta contro l’Isis).

E a proposito dell’autoproclamato califfato, Kalin ha reso noto alla stampa che la Turchia ha deportato in questi mesi più di 3.300 combattenti stranieri affiliati alla organizzazione radicale islamica prossimi ad entrare in Siria. Ad altri 41.000 avrebbe impedito l’ingresso in Turchia. Numeri con cui Ankara prova a smarcarsi dalla pesante accusa che da più parti (anche internamente) le viene mossa: quella, cioè, di avere rapporti con gli uomini di al-Baghdadi. Il portavoce di Erdogan ha anche annunciato che la pacificazione dei rapporti con Israele è ormai in dirittura d’arrivo. “Le negoziazioni continuano, ma siamo ormai prossimi a giungere ad una conclusione. Non appena raggiungiamo un accordo sulle riparazioni e sul blocco di Gaza, firmeremo per il processo di normalizzazione delle relazioni”.

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