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20/04/2016

Crisi di governo all’australiana

di Mario Lombardo

L’instabilità che caratterizza da ormai parecchi anni il quadro politico australiano si è ulteriormente aggravata martedì, quando il primo ministro conservatore, Malcolm Turnbull, dopo appena sette mesi alla guida del governo federale ha annunciato lo scioglimento di entrambi i rami del Parlamento di Canberra ed elezioni anticipate, da tenersi “molto probabilmente” il 2 luglio prossimo.

Il gabinetto australiano è sostenuto da una coalizione formata dal Partito Liberale del premier e dal suo tradizionale partner, il Partito Nazionale, espressione della borghesia rurale del paese. Turnbull aveva sostituito a capo del governo il collega, Tony Abbott, lo scorso mese di settembre dopo un voto interno al partito nel tentativo di fermare il crollo dei consensi dei Liberali sotto la guida dell’ex leader che aveva vinto le elezioni nel 2013.

La ragione principale del voto anticipato è da ricercare nella crisi di un governo di centro-destra che vede insabbiata al Senato la propria agenda, fatta di austerity e proposte di “ristrutturazione” dell’economia, del welfare e del mercato del lavoro, a causa dell’ostruzionismo dell’opposizione, composta dal Partito Laburista, dai Verdi e da una manciata di indipendenti.

Fin dalla sconfitta dei Laburisti nel 2013, il governo Liberale-Nazionale si è ritrovato a subire le pressioni dei grandi poteri economico-finanziari domestici e internazionali per smantellare le protezioni garantite dal sistema australiano ai lavoratori e, in generale, alle classi più disagiate. L’impopolarità delle iniziative in discussione, sfruttata dai partiti di opposizione, è però tale che il governo non è finora riuscito a mantenere i propri impegni e a superare gli ostacoli incontrati in Parlamento.

Turnbull ha così innescato deliberatamente un meccanismo costituzionale per giustificare nuove elezioni, vale a dire la bocciatura per due volte in Senato di un provvedimento approvato dalla Camera dei Rappresentanti. La legge in questione era stata affidata al Senato il mese scorso con la convocazione da parte del Governatore-Generale, ovvero il rappresentante della regina d’Inghilterra e, di fatto, capo di stato australiano, di una sessione parlamentare straordinaria della durata di tre settimane. In questo periodo di tempo, la legge, che prevedeva il ripristino di una commissione anti-sindacale nel settore dell’edilizia, è stata respinta in due occasioni, di cui l’ultima nella serata di lunedì con una maggioranza di 36 a 34.

Dopo il voto tutt’altro che sorprendente, il primo ministro ha deciso di anticipare la presentazione del prossimo bilancio federale al 3 maggio e dopodiché, come ha spiegato egli stesso, entro il giorno 11 dello stesso mese chiederà “al Governatore-Generale di sciogliere entrambi i rami del Parlamento”.

Lo scioglimento contemporaneo di Camera e Senato è un evento piuttosto raro in Australia, dove le elezioni generali con cadenza triennale prevedono solitamente il rinnovo completo della prima e solo della metà dei membri del secondo, il cui mandato dura sei anni. L’ultimo “doppio scioglimento” del Parlamento australiano risale al 1987 e questa pratica è avvenuta solo sei volte dal 1901, anno dell’indipendenza dalla Gran Bretagna.

L’obiettivo dei Liberali di rompere lo stallo politico appare dunque evidente e già nelle scorse settimane era stata approvata una modifica alla legge elettorale per rendere più difficile l’elezione di candidati indipendenti o di partiti minori al Senato. In caso di “doppio scioglimento”, però, la soglia di sbarramento per entrare al Senato si abbassa al 7%, dal 14% previsto in una normale tornata elettorale, favorendo comunque i candidati dei partiti più piccoli.

Quella di Turnbull appare ad ogni modo una scommessa molto rischiosa, visto che il rapido deteriorarsi dell’indice di popolarità del suo governo dopo i brevi entusiasmi iniziali rende del tutto possibile un esito simile a quello del 2013, quando i Liberali-Nazionali furono in grado di ottenere la maggioranza assoluta solo alla Camera dei Rappresentanti ma non al Senato. A giudicare dai sondaggi pubblicati dalla stampa australiana in questi giorni, addirittura, la coalizione di governo potrebbe essere sconfitta dai Laburisti, dati alla pari o, in alcuni casi, leggermente in vantaggio sui Liberali-Nazionali.

Il Partito Laburista non gode tuttavia di particolari favori nel paese, se non nella misura in cui beneficia automaticamente dell’ostilità nei confronti del centro-destra al governo. Il “Labor” australiano era uscito con le ossa rotte dal voto del 2013, dopo una serie di avvicendamenti ai propri vertici e alla guida del governo, ma soprattutto a causa del perseguimento, o del tentativo di perseguire, disastrose politiche di austerity.

Il leader Laburista, Bill Shorten, ha comunque cercato subito di sfruttare il malcontento diffuso nei confronti del governo, dichiarando che il suo partito si batterà per “posti di lavoro dignitosi, scuole e sanità migliori” e contro “gli interessi delle grandi banche”.

In realtà, i Laburisti sono anch’essi decisi a garantire la “stabilità finanziaria” dell’Australia. Qualche giorno fa, ad esempio, il ministro-ombra del Tesoro, Chris Bowen, aveva risposto alle minacce di “downgrade” di Moody’s affermando l’impegno di un eventuale governo del suo partito a prendere “decisioni difficili” nell’ambito “delle entrate e della spesa sociale”. Anche Shorten, poi, ha criticato questa settimana il premier Turnbull per la sua “indecisione” e l’incapacità di implementare la propria agenda, con un velato riferimento all’urgenza di approvare misure impopolari che vengono richieste da più parti.

Il Partito Liberale, invece, sembra deciso a impostare una campagna elettorale basata sulla necessità di “modernizzare” il sistema Australia, sia pure mascherata da una certa dose di populismo, come hanno dimostrato le prime indiscrezioni su un possibile aumento delle tasse per i redditi più alti. La proposta di bilancio che verrà presentata in Parlamento il 3 maggio sarà una vera e propria piattaforma elettorale dei conservatori. Come ha spiegato il leader di questi ultimi al Senato, George Brandis, il bilancio “non prevederà il genere di spesa irresponsabile e livelli di tassazione esagerati che sembrano essere al centro dei piani economici del Labor”.

Sull’esito delle elezioni di luglio influirà in maniera decisiva il costante rallentamento dell’economia dell’Australia, principalmente a causa del crollo delle quotazioni delle risorse del sottosuolo che il paese esporta. Ugualmente, anche lo stesso clima d’instabilità politica che regna da anni a Canberra è determinato in fin dei conti dall’incapacità, se non impossibilità, della classe dirigente indigena ad attuare le misure a sostegno del capitalismo australiano, colpito duramente dalla crisi economica, di fronte alla ferma opposizione popolare.

Alla questione economica si sovrappone poi quella diplomatico-militare-strategica, legata in maniera inestricabile alla natura e al posizionamento internazionale di questo paese. La sua classe dirigente è esposta infatti anche alle pressioni degli Stati Uniti, ovvero il principale alleato di Canberra, che vedono l’Australia come uno dei pilastri della loro strategia anti-cinese in Estremo Oriente.

Come molti paesi asiatici, e forse ancor più di essi, l’Australia si trova di fronte a un dilemma, aggravato dalla crisi economica e dalle manovre strategiche americane. L’Australia, cioè, risulta ormai dipendente da Pechino sul fronte economico-commerciale, essendo la Cina il primo mercato del proprio export, ma è allo stesso tempo uno storico partner strategico di Washington.

Non solo, l’amministrazione Obama sta chiedendo all’Australia di fare molto di più per contrastare l’ascesa cinese nel continente asiatico, da ultimo sollecitando la partecipazione alle provocatorie operazioni navali USA nel Mar Cinese Meridionale che intendono mettere in discussione le rivendicazioni di Pechino su una serie di isole contese con altri paesi.

Il governo di Canberra si è finora rifiutato di prendere una decisione in questo senso, anche se l’opposizione Laburista si è detta in larga misura a favore, e lo stesso Turnbull ha cercato di mantenere una posizione relativamente moderata sulla rivalità tra USA e Cina, come ha confermato la prudenza che ha caratterizzato la recente prima visita in terra cinese del premier.

Questo atteggiamento sarà sempre più difficile da mantenere per i leader della politica, dell’industria e della finanza australiani, i quali in ogni caso sono divisi, a seconda dei rispettivi interessi, tra coloro che auspicano il mantenimento di relazioni più che cordiali con la Cina e quelli che spingono per un allineamento incondizionato alle posizioni degli Stati Uniti.

Quel che è certo è che i media e le campagne elettorali dei principali partiti australiani eviteranno quasi del tutto di sollevare le delicate questioni strategiche con cui deve fare i conti il loro paese, anche se esse rischiano seriamente di trascinarlo in una guerra rovinosa in un futuro non troppo lontano.

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