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24/03/2016

Verona-Milano, finisce l’era delle banche popolari

Tempo di crisi, tempo di fusioni societarie. La regola è ferrea e non conosce eccezioni, neanche e soprattutto per le banche. Specie per quelle italiane, in genere piccoli nani a confronto con la potenza di fuoco delle ammiraglie europee.

Ma la fusione tra il Banco Popolare di Verona e l’analoga versione di Milano (Bpm) segna qualcosa di più del momento di crisi. È infatti in atto un ridisegno complessivo del sistema bancario italiano per input dell’Unione Europea e con la collaborazione “atipica” del governo Renzi. Atipica perché favorisce il processo di concentrazione, il superamento del modello delle “popolari” e delle “cooperative”, come nella richiesta della governance finanziaria continentale. Ma lo fa proteggendo quegli istituti che sono vicini a gruppi di potere ben rappresentati nel governo (il Gruppo Cabel, che raccoglie 9 Bcc tra Toscana e alto Lazio, la più grande delle quali è quella di Cambiano, sarebbe escluso dalla legge di “riforma” del credito cooperativo).

Zone protette a parte, comunque, il processo di concentrazione procede spedito. La fusione tra Popolare Verona e Bpm va a creare, per dimensioni, il terzo gruppo italiano, alle spalle di IntesaSanPaolo e Unicredit, scavalcando decisamente la periclitante Montepaschi. Come riferiscono le cronache, una capitalizzazione complessiva da 5,5 miliardi di euro, attivi per oltre 170 miliardi di euro, 2.500 sportelli con circa 25mila dipendenti, 4 milioni di clienti.

Il primo passo, come sempre in questi casi, sarà la rapida realizzazione delle “sinergie”, calcolate in 365 miliardi. Di che si tratta? Di risparmi, ossia di tagli al numero degli sportelli aperti e dunque del personale.

Ma l’aspetto principale sarà la perdita dello statuto da “banche popolari”, dunque il legame storico con il territorio e con l’ambiguo rapporto tra proprietà e clienti “speciali”, come si è visto in particolar modo con Banca Etruria (che pure non era una “popolare”). Il modello spa è quello voluto “dall’Europa” e così si fa. Il via libera emanato ieri dalla Vigilianza della Bce – che ha preteso numerose correzioni allo schema di fusione proposti dai cda dei due istituti, peraltro sorvegliati da vicino da advisor come Citi, Mediobanca, Merrill Lynch, Lazard – ha aperto la procedura operativa, con la riunione contemporanea, stamattina, dei due cda avviati alle nozze.

Anche per i cda si annuncia una sostanziale sforbiciata al numero delle poltrone (ironizzando, qualcuno scrive che sarebbero ora sufficienti per organizzare un “quadrangolare di calcio”…), ma non c’è certamente bisogno di commuoversi per quanti andranno a cercarsi un’altra poltrona con ricche buonuscite in tasca.

In linea teorica, il “rapporto con il territorio” dovrebbe esser mantenuto, anche perché la presenza delle due banche è alta soprattutto nel lombardo-veneto, anche se gli uomini della Lega più vicini (come il sindaco di Verona, Tosi) hanno da tempo sciolto i vincoli con i neanderthal del Carroccio attuale. Ma è chiaro che una spa obbedisce a un altro imperativo – quello della “valorizzazione” – piuttosto che alla “vecchia” logica del supporto del credito alla crescita. Fatte le dovute operazioni, prese le opportune misure sull’efficienza della banca, insomma, il management potrebbe benissimo fare scelte totalmente estranee alla funzione “territoriale”. Se n’era del resto avuto un esempio con la serie di fusioni che hanno fatto di Unicredit e Intesa due colossi, a un certo punto più orientati a posizionarsi efficacemente sul mercato europeo che non a difendere l’insediamento territoriale (per fare un esempio: Intesa ha incorporato, tra le altre, anche la Cassa di risparmio delle Province Lombarde, l’ex Cariplo).

Dunque questa fusione, così come la “riforma” del credito cooperativo punta alla formazione di colossi che abbiano la forza di “competere” sul mercato europeo. E se i “territori” non sono più abbastanza appetibili, problema loro...

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