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25/02/2016

Obama e l’enigma di Guantánamo

di Michele Paris

La mossa presa dal presidente Obama questa settimana per rilanciare il piano di chiusura del lager di Guantánamo è poco più di una manovra propagandistica, oltretutto tardiva, che ha pochissime chances di successo e che non farebbe comunque nulla per mettere fine agli abusi legali istituzionalizzati dal governo degli Stati Uniti nel corso della cosiddetta “guerra al terrore”.

La proposta di smantellamento del carcere sull’isola di Cuba è stata inviata martedì dalla Casa Bianca al Congresso di Washington, con un’iniziativa che i giornali USA hanno descritto come il tentativo del presidente di mantenere una promessa che aveva fatto all’indomani del suo insediamento nel gennaio del 2009.

In un intervento pubblico durato poco più di un quarto d’ora, Obama ha riconosciuto che il piano sarà di difficile attuazione e ha ricordato gli ostacoli posti soprattutto dallo stesso Congresso alla chiusura e al trasferimento in altri paesi o in territorio americano dei detenuti rimasti.

Obama ha anche accennato a una delle ragioni principali che hanno riportato la questione di Guantánamo all’ordine del giorno del suo governo, ovvero il danno di immagine per un paese che, pur basando la propria politica estera in gran parte sulla violazione del diritto internazionale, riesce a conservare una residua legittimità agli occhi delle popolazioni mondiali promuovendosi come difensore della democrazia e dei diritti umani.

Nel raggiungere questo obiettivo, il presidente americano ha affermato di essere pronto a muoversi unilateralmente e a utilizzare i poteri assegnatigli dalla Costituzione, in caso di mancata collaborazione da parte del Congresso, anche se non è per nulla chiaro quali siano gli spazi di manovra della Casa Bianca in questo senso.

La maggioranza Repubblicana al Congresso è attestata su posizioni diametralmente opposte a quelle di Obama in merito a Guantánamo, mentre i candidati alla presidenza hanno più volte dichiarato non solo di voler mantenere in vita il carcere ma anche di aumentarne la popolazione, nonché di ricorrere a metodi tortura nei confronti dei suoi “ospiti”.

Il progetto di Obama non è stato comunque corredato di troppi particolari e più che altro si tratta di una serie di iniziative che verrebbero implementate se dovesse essere superata la resistenza del Congresso. Sostanzialmente, il piano si basa sull’individuazione di alcuni paesi esteri che dovrebbero ricevere alcune decine di detenuti il cui trasferimento è già stato approvato dal governo USA. Quelli considerati più pericolosi – tra i 30 e i 60 – sarebbero invece spediti in varie carceri di media o massima sicurezza negli Stati Uniti.

Le strutture prese in considerazione sono 13, tra cui in Kansas, Colorado e South Carolina, i cui rappresentanti al Congresso hanno peraltro già manifestato tutta la loro contrarietà all’ipotesi avanzata dalla Casa Bianca. Come ha ricordato Obama, durante la campagna elettorale del 2008 esponenti di spicco del Partito Repubblicano, come l’allora presidente Bush e il candidato alla sua successione, John McCain, erano a favore della chiusura, ma da allora il baricentro politico americano ha fatto registrare un nettissimo spostamento a destra e una chiara maggioranza del Congresso intende ora mantenere in vita la famigerata struttura detentiva off-shore.

L’ostacolo principale alla chiusura del carcere è rappresentato appunto da una legge del Congresso che vieta il trasferimento dei detenuti di Guantánamo in territorio americano, anche per essere sottoposti a processi in ambito civile.

L’insistenza di Obama e dei suoi sostenitori per convincere la maggioranza alla Camera e al Senato a lasciar cadere il divieto al trasferimento non ha comunque nulla a che vedere con il desiderio di chiudere un capitolo oscuro della storia americana e di veder trionfare il diritto.

Anche se le decine di prigionieri che vivono nel limbo a Guantánamo, senza accuse formali, processi o tanomeno condanne, fossero trasferiti in un carcere in territorio americano, la natura arbitraria della loro detenzione non cambierebbe infatti di una virgola.

A far notare questo punto è stato, tra gli altri, l’avvocato David Remes, legale di 13 cittadini yemeniti rinchiusi a Guantánamo, secondo il quale “il presidente non intende chiudere [il carcere], ma solo spostarlo negli Stati Uniti”.

Di fatto, se anche Obama riuscisse a superare la resistenza del Congresso, il suo piano finirebbe per sanzionare la detenzione indefinita in territorio americano di sospettati di terrorismo, le cui accuse a loro carico non sono mai state né potranno mai essere dimostrate in un’aula di tribunale.

Inaugurato dall’amministrazione Bush nel 2002, il lager di Guantánamo era giunto a ospitare quasi 800 detenuti, la maggior parte dei quali rapiti illegalmente da forze di sicurezza o da mercenari in Pakistan e in Afghanistan per essere poi venduti agli Stati Uniti. Il carcere era diventato ben presto il simbolo stesso dei crimini americani nel quadro della “guerra al terrore”.

Per giustificare la detenzione illegale e le torture commesse, l’amministrazione Bush aveva inventato la definizione di “nemici in armi” da assegnare ai sospettati di terrorismo, così da negare a questi ultimi sia i diritti costituzionali sia le garanzie previste dalla Convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra.

All’arrivo di Obama alla Casa Bianca, la popolazione del carcere era scesa a 242 e da allora è costantemente diminuita fino ai 91 prigionieri odierni. Centinaia di “ospiti” di Guantánamo sono stati rinchiusi per anni, spesso distrutti fisicamente e psicologicamente, e poi rilasciati senza spiegazioni o risarcimenti.

Il governo americano ha creato inoltre in questi anni un tribunale militare speciale per processare alcuni dei detenuti e dare l’impressione di volere rispettare i loro diritti. In realtà, questi procedimenti, che riguardano attualmente una decina di prigionieri, sono una farsa, visto che gli accusati godono di ben poche delle garanzie legali previste dalla legge USA.

La tesi sostenuta infine da coloro che elogiano comunque il presidente Obama per avere cercato di chiudere il lager di Guantánamo di fronte alla resistenza del Congresso è del tutto fuorviante. A dimostrarlo ci sono i precedenti accumulati dall’amministrazione Democratica in questi anni.

Non solo Obama ha fatto di tutto per proteggere ed evitare l’incriminazione dei responsabili di rendition e torture ai danni di sospettati di terrorismo, ma l’alternativa scelta alle detenzioni “extra-giudiziarie” è stata di gran lunga peggiore.

Il governo americano non ha aggiunto un solo detenuto alla popolazione di Guantánamo dal 2009 soltanto perché le procedure che eventuali nuovi arresti avrebbero comportato sarebbero state eccessivamente gravose e avrebbero perpetuato un sistema profondamente impopolare.

Il presidente Obama e l’apparato della sicurezza nazionale USA hanno così optato per il drastico ampliamento del programma degli assassini mirati con i droni, anch’esso avviato da George W. Bush. In sostanza, i sospettati di terrorismo non vengono più rapiti o arrestati, poi eventualmente torturati e spediti a Guantánamo, ma finiscono su una lista nera e il presidente in persona, senza passare attraverso un tribunale o un procedimento che possa ragionevolmente essere definito “legale”, decide in totale segretezza chi di loro debba essere letteralmente fatto a pezzi da un drone.

Il grado di precisione delle operazioni con i velivoli senza pilota americani in paesi come Pakistan, Afghanistan, Somalia, Yemen e Libia è stato valutato da numerose indagini di organizzazioni a difesa dei diritti umani in questi anni, le quali hanno documentato le migliaia di vittime civili innocenti, quasi mai riconosciute o considerate semplicemente come inevitabili “danni collaterali”.

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