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25/02/2016

Ma Gelli era fascista? Si e no…

Come è noto Licio Gelli, sino agli ultimi giorni si dichiarò fascista, tuttavia è noto che, durante la guerra, collaborò sotto banco con formazioni partigiane e con il servizio segreto inglese. Tecnicamente, non c’è dubbio che fosse un traditore.

Poi, in epoca repubblicana, collaborò disinvoltamente con esponenti democristiani, liberali, socialdemocratici, repubblicani e persino socialisti che trovarono accoglienza nella sua Loggia. Ma ovviamente anche con diversi missini, non disdegnando neanche frequentazioni con gli ambienti della destra giovanile extraparlamentare (sono noti i legami con Valerio Fioravanti). Fu in rapporti molto stretti con i generali argentini che dirigevano una bestiale dittatura di destra, ma non si fece mancare neppure rapporti con la Romania comunista. Insomma, uomo con relazioni a 360°.

Ed allora, chi era il Gelli che mentiva: quello che ostentava una fede fascista o quello che operava perfettamente a suo agio nel retrobottega dell’Italia democristiana? L’uomo legato agli ambienti della destra repubblicana Usa o quello che trafficava con gli uomini di Ceausescu?

A tirare la linee troppo dritte si rischia di non capire un personaggio sicuramente ambiguo e complesso come Gelli che, peraltro, in grande, replicava atteggiamenti comuni a molti altri.

Il punto è questo: il fascismo subì una sconfitta totale, quella che i giuristi chiamano “per debellatio” che non lasciava speranza alcuna di rivincita. La probabilità di restaurazione di un regime fascista in Europa o nel nord America era pari a zero: potevano esserci regimi castrensi di destra (come in Grecia o America Latina), ma non regimi propriamente fascisti. E la conferma definitiva venne dalla caduta degli ultimi regimi fascisti d’Europa, Spagna e Portogallo che, peraltro, caddero nello stesso anno (1974) della fine del regime dei colonnelli greci, che poteva esservi assimilato. Questa sconfitta totale e definitiva pose il problema ai sopravvissuti di come continuare a far politica nel nuovo quadro storico. Una parte minoritaria dette luogo a nicchie ambientali di resistenza, dove coltivare il culto della memoria, nella speranza di un possibile ritorno, mentre la maggior parte decise di integrarsi nelle altre forze politiche adattandosi in vario modo alle nuove regole del gioco. Altri aderirono ai partiti esistenti: quelli che passarono al Pci o (meno) al Psi furono decine di migliaia ed anche di più furono quelli che aderirono alla Dc o ai partiti laici (meno), nella maggior parte dei casi abbandonarono del tutto (o in gran parte) la propria identità fascista aderendo in pieno, o quasi, alle ideologie di riferimento dei partiti in cui entrarono. Una piccola parte coltivò disegni entristi, pensando di realizzare un regime autoritario a vocazione sociale (questo nella maggior parte dei casi riguardò chi aveva scelto il Pci). Altri, più numerosi, scelsero i partiti di centro in nome dell’anticomunismo e, pur restando fascisti in cuor loro, si accontentarono di partecipare al gioco, cercando di far passare il più possibile della propria cultura politica, pur consapevoli del fatto che si sarebbe comunque trattato di innesti parziali.

Il Msi, in qualche modo, raccoglieva entrambe le anime: la base – a suo modo illusa e generosa – continuò a sperare in un’ora X che avrebbe riportato al potere il fascismo, mentre il vertice era perfettamente consapevole dell’impossibilità di questo ritorno e, pur blandendo le nostalgie della base (non mancarono mai saluti romani ed Inni a Roma), cercò in tutti mondi di inserirsi nel gioco parlamentare, anche solo in ruoli  marginali. Da Michelini ad Almirante, da De Marsanich a Pisanò,  da Romualdi a De Marzio, da Fini allo stesso Rauti, una volta entrato nel Msi, cercarono tutti – e ciascuno a suo modo – di adattarsi all’ambiente  non nutrendo alcuna illusione su una restaurazione. In fondo fu Almirante ad inventare lo slogan: “Non rinnegare, non restaurare”. E, a ben vedere, è quello che è successo anche all’estremo opposto: nella mia vita ho incontrato tantissimi compagni che, in cuor loro stalinisti e graniticamente tali, si erano piegati ad una prassi sostanzialmente socialdemocratica individuando in essa l’unica realistica prassi di inserimento politico (e non me ne volete per questo azzardatissimo parallelo, ma i sistemi, sinché reggono, tendono ad assorbire nella propria logica anche le opposizioni antisistema, esercitando una sorta di attrazione gravitazionale).

Gelli è stato qualcosa di molto simile: in cuor suo era certamente fascista e, fosse dipeso da lui, ci sarebbe stato un bel ritorno al fascismo con tanto di stivali ed orbace, ma non reputando realistica questa speranza, puntò ad entrare nel gioco per condizionarlo attraverso la massoneria. Si pensi al tanto citato e poco conosciuto Piano di Rinascita Democratica, manifesto politico della loggia: non dipinge certamente un regime fascista ma un regime autoritario di democrazia liberale con diversi elementi mutuati dalla V repubblica francese e con molti punti di contatto con le posizioni della Trilateral.

Magari si riprometteva ulteriori sviluppi in direzione di un ordinamento più ortodossamente “stivalato”, ma, prendendo realisticamente atto che l’orbace non andava più di moda, fondò un ditta di impeccabili gessati avendo per soci gli ex partigiani Lebole.

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