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26/01/2016

Sulla polemica tra Renzi e Bruxelles

La polemica esplosa in questi giorni fra Renzi e gli eurocrati non va bollata totalmente come teatrino della politica politicante. In parte lo è, specie da parte del giovane Presidente del Consiglio nostrano. Da parte dei funzionari di Bruxelles, tuttavia, si fa sul serio, specie quando si utilizza la modalità di far filtrare le accuse da fonti non precisate di “alto livello”, com’è accaduto allorquando il governo italiano è stato apostrofato così: Uno dei problemi da risolvere con l’Italia è quello della comunicazione. Ci sono troppi malintesi, a Roma manca un interlocutore...

Frase questa che ricorda i pesci in faccia con cui veniva preso il “povero” Silvio Berlusconi non più tardi di 5 anni fa.

Cosa spinge, dunque, i timonieri del “pilota automatico” europeo ad attaccare con tale veemenza uno dei propri ingranaggi locali (dove per “locale” si intende istituzione governativa a livello di stato-nazione, per di più parzialmente periferico) che più pedissequamente ha seguito le loro indicazioni riguardo precarizzazione del mercato del lavoro, riforma reazionaria dell’architettura costituzionale, privatizzazioni e quant’altro?

A nostro avviso sono individuabili due ordini di motivi.

Il primo risiede nella struttura del capitalismo italiano e nella sua dialettica con la costituenda borghesia transnazionale europea di cui l’Unione Europea costituisce la sovrastruttura: per quanto il Governo Renzi si sia eretto a paladino della frazione italiana che fa parte del “salotto buono” della borghesia europea, deve fare comunque i conti col fatto che essa costituisce una parte minoritaria del padronato nostrano per cui, specie alla vigilia delle campagne elettorali, è necessario mettere in campo delle mediazioni anche con delle altre frazioni; cosa sta a rappresentare, in fondo, l’adesione dei cosiddetti “parlamentari verdiniani” alla maggioranza di governo, se non la necessità di dover operare tale mediazione con le schegge del fu “blocco berlusconiano”? Nella pratica, ciò ha portato il governo a mettere in campo una serie di provvedimenti in materia fiscale, come la depenalizzazione dell’”impedito controllo agli evasori” e delle aziende che omettono di “versare le ritenute previdenziali e assistenziali” (ne parliamo diffusamente qui), che sono incompatibili con il regime di rigore fiscale che l’UE riserva ai paesi PIGS della periferia meridionale; ciò, ovviamente, ha fatto storcere il naso alla Commissione Europea.

Tuttavia, il dossier più scottante riguarda le banche. Qui, la necessità di salvare alcuni istituti appartenenti alla propria personale baracca (e a quella di Verdini, “specialista” del settore), come Banca Etruria e altre, ha indotto il governo a mettere in campo una versione leggermente più “blanda” del “bail-in” europeo, appena entrato in vigore, che vieta di salvare le banche eccessivamente esposte con fondi pubblici, ma obbliga a rifarsi delle perdite sugli obbligazionisti e sui correntisti che hanno sottoscritto conti correnti con più di 100mila euro. Nonostante tale camicia di forza europea, stretto dalla necessità di accontentare parte dei colpiti da un siffatto obbligo, i quali costituiscono comunque una parte abbastanza cospicua della base sociale del PD centro-settentrionale, l’esecutivo si è permesso di istituire un “fondo di solidarietà” di 100 milioni di euro destinato a coprire “gli obbligazionisti che sono stati truffati “ attraverso i meccanismi messi in campo dagli istituti di credito in questione, i quali, come tutti, hanno incentivato i clienti ad investire in azioni senza rendere chiari i rischi connessi (chi ricade sotto questa particolare casistica lo deciderà l’onnisciente e onnipresente Cantone).

Anche in questo caso, solo questo è bastato per scontentare gli austeri burocrati europei; che, ovviamente, anche in tema di salvataggi bancari esercitano i loro coercitivi diktat rigoristi a “targhe alterne”: mentre, dopo il prelievo forzoso imposto sui conti correnti dei Ciprioti e lo strangolamento finanziario imposto alla Grecia lo scorso luglio, si agisce ora con veemenza nei confronti del settore finanziario italiano, la Germania ha elargito largamente aiuti di stato alle proprie banche fino a pochi mesi fa, e continua ad elargirne; basti vedere come agiscono le banche di proprietà dei Lander tedeschi, che manipolano ampiamente il mercato acquistando e vendendo titoli altrui a seconda della convenienza (mentre un qualsiasi intervento di stato nei PIGS è visto come una bestemmia) e, talvolta, in caso di eccessiva esposizione, vengono salvate grazie all’aiuto dei governi locali (si ricordi il caso, temporalmente coincidente con il drammatico taglio della liquidità imposto agli istituti ellenici, di una banca di proprietà della regione austriaca della Carinzia e del Lander tedesco della Baviera, salvato grazie al taglio secco del debito a spese delle casse dei due enti locali); ma si sa, le banche locali tedesche sono sede dei feudi dei vari “Verdini” e “Boschi” tedeschi, i quali hanno un peso diverso rispetto ai corrispettivi nostrani.

Questo per tacere le enormi elargizioni fatte dalle casse della Germania e di altri paesi (si parla di 4000 miliardi di euro solo per USA, Germania e UK) per salvare le maggiori banche all’atto dello scoppio della bolla immobiliare del 2008 che ha dato avvio alla crisi finanziaria e che non furono fatte da altri paesi aventi sistemi bancari meno esposti, come l’Italia.

Queste evidenti asimmetrie, oggi mettono particolarmente nervosismo nelle stanze della borghesia nostrana (si vedano i crolli di borsa di questi giorni) poiché forte è il sospetto che le piccole banche interessate dal provvedimento renziano potrebbero rappresentare solo la punta di un iceberg riguardante l’esposizione debitoria degli istituti italiani. E anche perché forte è il sospetto che sia in atto un attacco finanziario mirato agli stessi. Tuttavia, dall’Europa si continua a guardare da un’altra parte: nell’ambito del ridisegno industriale e bancario europeo in atto, sia i nostri risparmi, sia, a quanto pare, le nostre banche, anche di una certa consistenza, sono sacrificabili.

Un secondo fronte aperto fra il governo italiano e la soverchiante governance europea riguarda la politica mediorientale. Mentre tutti i cosiddetti “partner” europei, all’indomani degli attentati di Parigi nel novembre scorso si sono allineati al richiamo di affiancare la Francia nell’estensione dell’intervento anti-Isis in Siria (sempre nell’ambito della sgangherata coalizione messa in piedi nel 2014 dagli USA, che comprende le petromonarchie del Golfo Persico, le cui borghesie finanziano il jihadismo), il governo italiano, pur votando in sede europea i dispositivi  di emergenza che, ad esempio, consentono di escludere dai vari patti di stabilità le spese “in sicurezza”, nei fatti si è defilato dall’impresa siriana anche con dichiarazioni sprezzanti del tipo “non inseguiremo i bombardamenti degli altri” (cit. Renzi) ed ha assunto un formale protagonismo riguardo il dossier libico, ospitando le conferenze internazionali volte ad annodare un dialogo per far formare un governo di unità nazionale nel frazionato e caotico paese nordafricano; ovviamente, non sono andate giù le perdite subite dall’ENI e dalle altre imprese italiane a seguito del criminale intervento NATO del 2011 (cui l’esecutivo Berlusconi si accodò obtorto collo e con una buona dose di vigliaccheria) che ha provocato l’assassinio barbaro non solo di Gheddafi ma dell’entità statuale libica in quanto tale, a beneficio degli affari di imprese britanniche e francesi e di una miriade di fazioni e milizie islamiste.

Pertanto, per recuperare le posizioni perse, la troupe renziana pensa di appoggiarsi allo storico e ancora più asimmetrico rapporto con gli USA, competitore su molti fronti con i paesi del nucleo forte dell’UE. “La nostra stella polare è il rapporto con gli USA... Se siamo tornati ai tavoli internazionali” è stato grazie a Washington “molto più che grazie ai nostri amici europei” si è spinto a sostenere il guitto fiorentino, suscitando sicuramente l’ira delle altre cancellerie europee che contano, le quali stanno cercando una faticosissima ricomposizione delle reciproche divergenza in tema di interessi mediorientali anche, come detto, in contrapposizione con gli USA (in questo senso vanno lette le recenti posizioni formalmente contrarie alle nuove colonizzazioni israeliane), nonché, probabilmente, l’imbarazzo dell’impalpabile Federica Mogherini, il cui ruolo è paragonabile a quello decorativo rivestito da un modesto soprammobile. Oltretutto, in conseguenza a quest’annuncio di fedeltà al padrino a stelle e strisce, l’esecutivo ha scriteriatamente annunciato l’invio di soldati in Iraq a protezione della diga di Mosul, la cui ricostruzione toccherà ad un’impresa italiana: si tratta, appunto, di “lavoro sporco”; tuttavia, allo stato non si capisce in quale quadro politico si inserirebbe questa missione e, di conseguenza, con quali regole d’ingaggio agirebbero i soldati italiani, i quali potrebbero trovarsi sotto il fuoco incrociato dell’Isis, che è lì a pochi chilometri, e anche di altre milizie.

Accanto a ciò, il nostro governo è impegnato a far rivestire all’esercito un ruolo di primo piano nel probabile secondo intervento in Libia (che dovrebbe essere, al momento, anti-Isis, appoggiandosi a non si sa bene quale truppe di terra, vista l’inconsistenza nei fatti del nuovo governo unitario libico), che gli USA non vogliono accollarsi per via delle molteplici incertezze che riserva l’impresa.

Come si vede, l’immenso groviglio degli interessi di classe in gioco appena delineato fa sì che il nostro paese si ritrovi in uno stato di incertezza; la prospettiva che le casse dello stato si ritornino nelle condizioni del 2011 (quasi al collasso) per via della pressione esercitata dalle istituzioni comunitarie in maniera simile a quanto accaduto in Grecia è sempre dietro l’angolo; nell’attuale quadro politico italiano, tuttavia, calcare eccessivamente la mano contro Renzi rischia di rivelarsi, per i grandi capitali europei e i loro burocrati, l’ennesima mossa da apprendisti stregoni, specie in vista del venturo referendum sulle riforme istituzionali, al momento considerato come un passaggio da “dentro o fuori” per le sorti politiche dell’esecutivo: non esiste, infatti, al momento, alcuna carta più affidabile di Renzi nell’applicare i diktat della troika, quindi quello che eventualmente verrebbe dopo sarebbe per il padronato europeo un’incognita; nel contempo,la stessa borghesia europea che conta non pare, al momento, disposta a concedere alcuna mediazione ai forti interessi di bottega ancora presenti nel nostro paese (sia all’interno, che in proiezione esterna), che rimane comunque la terza economia del vecchio continente, per cui questa contraddizione potrebbe proseguire e riproporsi.

Al di là di come finirà il tenzone verbale fra Renzi e gli eurocrati (che il primo cerca di sfruttare per rilanciare la propria popolarità di fronte alle grane interne), si vede la necessità, per le forze politiche e sociali che si propongono di rappresentare gli interessi del blocco sociale antagonista, di porsi all’altezza di questi problemi alquanto multidimensionali sia nell’elaborazione teorica che nell’azione. Di qui le tre parole d’ordine “No Euro, No UE, No NATO” al centro della mobilitazione del 16 gennaio. Tutte, ovviamente, da sviluppare e declinare ulteriormente, ma che stanno segnando l’incedere delle iniziative della ancora insufficiente, ma comunque incoraggiante campagna Eurostop.

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