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26/01/2016

Siamo di nuovo alla vigilia di una crisi globale?

C’è un modo empirico per sapere se una grande crisi è in arrivo: quando gli economisti scrivono che “non è un nuovo ’29 (o 2008)” vuol dire che è in arrivo qualcosa di peggiore del 1929 (o del 2008). Di solito gli economisti sono bravissimi a prevedere le crisi quando già sono in pieno svolgimento. Vediamo un po’.

Paul Krugman (“Internazionale” 15-21 gennaio 2016 p. 38) dice:
“I problemi della Cina provocheranno una crisi globale? La buona notizia è che le cifre non sembrano abbastanza grandi. Quella cattiva è che potrei sbagliarmi, perché spesso il contagio globale si rivela più grave di quanto i numeri non dicano”.
E conclude l’articolo con queste parole: “La mia previsione è ancora che la situazione non sia così grave: è spinosa in Cina, ma per il resto del Mondo è solo una turbolenza. Spero davvero di non sbagliarmi, perché a quanto pare non abbiamo un piano b.”

Incoraggiante vero?

Molto meno ottimista è Roubini che dice (Repubblica 18 gennaio 2016) di scorgere sinistre somiglianze con il 2008 e parla di un imminente pericolo di crack.

Spero di sbagliarmi, ma temo che abbia ragione Roubini, mentre il testo di Krugman, più che un’analisi, mi sembra una supplica alla Madonna. Credo che abbia dato ascolto più ai suoi timori e alle sue speranze che all’analisi fredda dello stato di fatto.

Intanto, i numeri della crisi cinese non mi sembrano così piccoli, visto che si tratta del secondo Pil mondiale ed il debito aggregato è al 251% del Pil e, da un anno e mezzo, ha superato in percentuale quello americano, che però (va detto) è sceso in rapporto al Pil da 5 anni in qua. Probabilmente il contagio, in termini di titoli cinesi posseduti da banche di altri paesi, è piuttosto modesto peraltro la Cina ha una robusta riserva di dollari liquidi e titoli americani, per cui, anche se la Pboc assorbisse tutti i debiti delle amministrazioni locali (che sono, con quelli dei privati, la parte più grossa) farebbe tranquillamente fronte al buco. Però, questo è il problema, se la Cina smette di rinnovare i titoli americani, che ripercussioni ha tutto questo sugli Usa e, di riflesso, sul resto del Mondo?

Probabilmente gli Usa riuscirebbero a far fronte in qualche modo: in fondo c’è sempre la risorsa di stampare dollari ed allagare il mondo, cosa che, però avrebbe un prezzo politico. Insomma, non stiamo parlando di qualcosa che resterebbe senza conseguenze. Poi, bisogna considerare quanto peserebbe sul mondo una battuta d’arresto della manifattura cinese, il che metterebbe nei guai Australia, Brasile e diversi paesi africani, facendo ulteriormente scendere la domanda di petrolio, che è l’altro fattore di crisi in agguato: l’Arabia Saudita, con la sua politica del prezzo stracciato, si sta riducendo molto male ed è costretta (cosa impensabile sino a poco tempo fa) alla spending review, ma sta riducendo ancor peggio le compagnie petrolifere americane.

Il problema è semplice: lo shale richiede costi di estrazione abbastanza alti, per cui il barile non può scendere sotto i 60-65 dollari, altrimenti va sottocosto, ma il barile ormai è sotto i 29 e diverse imprese petrolifere Usa vedono avvicinarsi lo spettro del fallimento, con tutti gli effetti a catena che si possono immaginare (perdita di posti di lavoro, calo di consumi, sofferenze bancarie ecc.). Ed il petrolio low cost mette nei guai anche la Russia che già balla pericolosamente sulla soglia del default.

Come se non bastasse, bisogna mettere nel conto gli effetti della “guerra” euro-americana per l’auto (ne riparleremo), l’evanescente ripresa europea, le spinte geopolitiche a cominciare dal terrorismo che ne è espressione, eccetera.

Ciascuno di questi fattori in se è preoccupante ma non è tale da scatenare una crisi globale, quello che fa temere un esito del genere è che questi fattori interagiscano fra loro determinando un effetto moltiplicatore. La più grande somiglianza con il 2008 è che c’è troppo debito: nei primi del 2009, la somma dei titoli di credito assommava alla folle cifra di 12 volte il Pil mondiale, anche se va detto che essa scendeva considerevolmente per effetto della compensazione che riduceva il debito netto a circa 4 volte il Pil mondiale. Dopo, in parte perché una parte dei titoli venne bruciato dalla crisi, in parte per la pur limitata ripresa del Pil (soprattutto negli emergenti), in parte per il riassorbimento di una parte dei debiti per effetto delle politiche di contenimento della spesa e per la liquidazione di una parte degli asset (o delle privatizzazione da parte degli stati), la crescita del rapporto debito/Pil ebbe un iniziale rallentamento, ma per poco. Le politiche di iper liquidità hanno spinto di nuovo alla moltiplicazione del debito: rispetto al 2007, nel 2015, infatti il debito globale mondiale è cresciuto di ulteriori 57mila miliardi di dollari aggiungendo un 17% in più al rapporto debito e Pil.

A fine 2014, il debito complessivo mondiale era di 199 mila miliardi di dollari, quasi 3 volte il Pil globale. Infatti, l’inondazione di liquidità è stata utilizzata in massima parte, solo per essere reimpiegata in investimenti finanziari: alle imprese ed ai privati sono giunte poche briciole, occupazione e consumi sono fermi al palo. E, infatti, nonostante l’alluvione di Dollari, Yen, Euro, Yuan non ci sono quei segni di inflazione che dovrebbero esserci se il flusso fosse andato all’economia reale, anzi siamo in un momento in cui quel che fa paura è la deflazione. Siamo in un classico “momento Minsky” per cui anche la nuova emissione di liquidità congiunta fra le principali banche centrali, avrebbe solo l’effetto di guadagnare tempo dal punto di vista finanziario per poi tornare in breve ad una situazione identica a quella di ora ma con un debito accresciuto.

Il problema è che quello che non funziona è il sistema neo liberista incapace di uscire dalla sua crisi senza produrre le premesse per un’altra crisi peggiore della precedente.

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