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21/11/2015

A chi e a cosa serve lo stato di guerra permanente?


E senza grandi disturbi qualcuno sparirà
Saranno forse i troppo furbi
 E i cretini di ogni età
 

Una settimana dopo, gli attentati di Parigi stanno velocemente sedimentando il significato reale degli eventi. Diradata la cortina fumogena dell’indignazione social, quello che rimane sul terreno si va consolidando come il lascito duraturo prodotto dalla gestione del fenomeno terrorista. Qualche commentatore più lucido di altri lo ha d’altronde immediatamente notato, anche perché la questione è addirittura lampante.


Nessuna “guerra” come viene intesa dall’apparato politico-mediatico è alle porte, con questa intendendo un conflitto simmetrico tra opposti eserciti. Non ci saranno chiamate alle armi, corsa agli armamenti, coscrizioni di massa e tenuta del consenso necessario ad un’operazione di questo tipo. L’asimmetria evidente delle parti in campo non verrà scalfita neanche dopo l’ennesima strage. Qualche operazione scenograficamente adatta a placare la sete di vendetta social, e tutto rientrerà nella normalità degli attuali rapporti geopolitici. Rapporti talmente chiari da essere esplicitati dagli stessi giornali della borghesia. Come riporta Alberto Negri sul Sole 24 Ore,
“i sauditi pagano e gli americani guidano coalizioni internazionali che ai loro occhi non devono abbattere il Califfato ma prima di tutto contenere l’Iran e un giorno magari liquidare Assad in Siria. La Saudi Connection condiziona la politica estera americana quanto l’alleanza con Israele[...] Se si limita ad una spedizione punitiva Parigi conserva le lucrose relazioni con la monarchia saudita, principale cliente degli armamenti francesi che quest’anno, con l’acquisto di reattori nucleari per 12 miliardi di dollari, ha salvato l’Areva dal fallimento. Ecco cosa significa la Saudi Connection”.
Non è l’Isis il problema né lo è mai stato, perché questo “è la nostra risposta sunnita al vostro appoggio in Iraq agli sciiti dopo la caduta di Saddam”, secondo le parole del defunto principe Saud Feisal al segretario di Stato Usa John Kerry, anche queste parole riportate nell’articolo di Negri sul Sole. L’Isis è lo strumento “ideologico mediatizzato” attraverso cui rafforzare lo stato di eccezione permanente con cui da un decennio abbondante si governano popolazioni e territori. Uno stato di eccezione che nel frattempo si è trasformato in uno stato di guerra permanente, un guerra però tutta particolare, non combattuta effettivamente contro i nemici dichiarati che, come vediamo da mesi, non sono neanche così tanto nemici. Una guerra, in effetti, porterebbe con sé il necessario corollario della tenuta del fronte interno, ma oggi la situazione procede nella direzione completamente opposta. Non c’è nessun consenso da rafforzare, perché non ci sono cataste di morti occidentali da giustificare. Il centinaio di morti francesi equivalgono alla quotidianità palestinese, siriana o curda. Ci è arrivato persino Crozza, è immaginabile pensare che ci siano arrivati prima gli attuali centri dirigenti dell’imperialismo occidentale. La questione allora non riguarda la lotta all’Isis ma, come riportato nel titolo, a chi e a cosa serve questo stato di guerra permanente.

Da qualche giorno le principali città d’Europa sono invase da una presenza militare senza precedenti recenti. Posti di blocco, controlli a campione, militarizzazione totalizzante di ogni spazio comune della metropoli. Treni, stazioni, aeroporti, stadi, chiese: tutti i possibili luoghi di scambio e aggregazione sono presidiati costantemente dagli eserciti di tutto il continente. Ovviamente si tratta della più scontata coreografia post-trauma, come visibile anche dalla foto a corredo dell’articolo: si mandano via quattro venditori ambulanti davanti le metro, così da soddisfare l’istinto sociale indotto dai media, come se davvero il problema terrorismo provenga in qualche modo da quel tipo di immigrazione. In realtà sono i centri cittadini, le “città vetrina”, ad essere presidiate ad usum telecamere. Le sterminate periferie di cui queste si circondano e si sostanziano continuano a sopravvivere nell’indifferenza, non presidiate e non presidiabili. E’ l’immagine pubblica che si sta preservando in questi giorni, non la sostanza. E tale immagine, in maniera speculare a quanto avvenuto dopo la strage di Charlie Hebdo dello scorso gennaio, verrà alimentata fino a quando qualche altro evento sposterà l’attenzione dell’opinione pubblica.

A quel punto, tra una settimana o due, le camionette dei militari si ritireranno in buon ordine e l’immagine del circo politico salvata da ingestibili crisi di legittimità. Non è allora la militarizzazione dei territori la chiave di lettura per comprendere a chi e a cosa sta servendo tale stato di guerra permanente. Quelli che stanno subendo un processo di “militarizzazione” sono in realtà i rapporti politici. Lo stato di sospensione delle procedure democratiche serve al controllo del fronte interno. Esattamente come indicato da Carlo Formenti, non siamo in guerra ma bisogna obbligare la società a comportarsi come se lo fosse: non è un caso che, a pochissime ore dagli attentati di Parigi, la questura di Roma abbia chiesto ai romani di limitare le manifestazioni, per non distogliere le forze dell’ordine dall’emergenza terrorista. E’ questo il risultato finale della gestione europea di un fenomeno terrorista creato dallo stesso Occidente. Diradata la nebbia tricolore e sfumata la marsigliese di sottofondo, quello che rimarrà sarà una società con meno possibilità di organizzazione, meno libertà sociali e civili, meno possibilità di manifestare e di protestare contro il potere costituito, meno scioperi, più controllo preventivo: ciò è già evidente in Francia, dove proprio ieri è stato definitivamente prolungato lo stato d’emergenza a tre mesi, stato d’emergenza che ha tra le sue caratteristiche l’attribuzione al prefetto della facoltà di impedire le manifestazioni pubbliche. La vittima principale sarà la possibilità allora di organizzare il dissenso, perché nello schema manicheo imposto dal racconto politico della vicenda terrorista, o si sta con lo Stato o con i terroristi, schiacciando automaticamente ogni dissenso sulle posizioni dell’estremismo religioso di marca sunnita-occidentale. Si compatta il fronte interno non tramite il consenso (inutile e costoso, mancando i morti occidentali), ma tramite il controllo preventivo sulle forme di opposizione al potere. E questo fatto può essere o meno recepito nelle costituzioni dei paesi europei, ma rappresenta già di per sé uno spostamento a destra del quadro dei rapporti di forze, uno spostamento che sarà difficile recuperare senza una visione alternativa della vicenda che ci schieri inequivocabilmente contro questa gestione statale del fenomeno terrorista.

D’altro lato, lo stato di eccezione, reso permanente, permette legalmente continue modifiche dell’apparto giuridico e legislativo bypassando ogni procedura democratica stabilita dalle stesse leggi. Non solo l’eccezione giustifica revisioni legislative altrimenti impossibili o difficoltose, ma lo stato stesso di sospensione della normale “proceduralità” normativa sottomette la Legge stessa al carattere vincolante dell’eccezione. Uno stato eccezionale deciso però unicamente dal potere esecutivo, non discusso né mediato con le forze politiche concorrenti. In pratica si certifica, attraverso l’escamotage della “lotta al terrorismo”, il commissariamento della politica, che se fino ad oggi era perseguito unicamente tramite la giustificazione economica del pareggio di bilancio, adesso si ritrova anche l’arma di un governo auto-descritto come in “stato di guerra” e dunque auto-investito di poteri di controllo e coercizione sulla società altrimenti ingiustificabili anche in regime liberale. Al cittadino non viene chiesto altro che accettare la limitazione delle sue libertà in nome di una presunta maggiore sicurezza.

Non c’è alcuna convergenza possibile allora con gli Stati occidentali nella loro presunta “lotta al terrorismo”. Ogni cedimento, in questo senso, non farebbe altro che scavarci la fossa con le nostre stesse mani. La lotta al terrorismo è la lotta alle politiche occidentali in medioriente.

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