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26/10/2015

Siria: guerra per procura, verso una divisione del paese in protettorati?


Com’era prevedibile, l’Esercito Libero Siriano – la parte minoritaria, nonostante il massiccio sostegno di Usa e petromonarchie, dell’insorgenza islamista anti Assad – ha detto ‘no’ all’offerta russa di assistenza militare, proferita nel week end dal ministro degli Esteri Lavrov. Il responsabile della diplomazia moscovita aveva affermato che l’aviazione russa sarebbe pronta a garantire copertura aerea ai miliziani dell’ESL – finora invece pesantemente colpiti dai raid dei Sukhoi – a condizione che questi si impegnino a combattere i jihadisti dello Stato Islamico ed anche che Washington fornisca ai comandi militari di Mosca le opportune informazioni sulla posizione dei ‘ribelli moderati’ e di quelli estremisti.

Poche ore dopo, nel corso di un intervento alla britannica BBC, un portavoce dei miliziani filoccidentali ha dichiarato che Mosca non è affidabile e che quindi il suo aiuto non è necessario. "Vladimir Putin sta assistendo un regime che uccide in modo indiscriminato il proprio popolo – ha detto Issam al-Reis – come possiamo fidarci dell'aiuto russo?". Un altro comandante dell’ESL, Ahmad Saud, ha respinto anche l’appello della Russia in favore di nuove elezioni in Siria, propedeutiche alla formazione di un governo di transizione e dalla fine della guerra civile: "La Russia bombarda l'Esercito siriano libero e adesso vuole collaborare con noi, rimanendo impegnata con Assad? Non ci capiamo niente!". Anche Samir Nashar, esponente della cosiddetta Coalizione Nazionale Siriana, parlamentino delle diverse forze liberali e islamiste che si oppongono al regime di Damasco, ha dichiarato alla Afp: "I russi ignorano la realtà sul terreno con milioni di persone sfollate in Siria o fuggite all'estero. Le città sono distrutte. Quali elezioni organizzare in tali circostanze?".

Fatto sta che la Russia continua a conquistare ruolo e posizioni nello scacchiere mediorientale, naturalmente a scapito della già precaria influenza statunitense nell’area e anche a detrimento delle strategie e degli interessi delle potenze regionali teoricamente alleate di Washington, in primis Arabia Saudita e Turchia.

Come già scritto nei giorni scorsi, dopo il governo iracheno anche quello giordano ha stretto nei giorni scorsi un accordo con Mosca creando così un secondo centro di coordinamento militare anti-Isis ad Amman, paese tradizionalmente nell’orbita degli Stati Uniti ma preoccupato che il dilagare del jihadismo possa sconvolgere gli equilibri interni al Regno Hascemita. In base all’accordo raggiunto, funzionari di Amman e Mosca dovrebbero lavorare insieme per coordinare le azioni contro lo Stato Islamico in territorio siriano condividendo informazioni di intelligence e di natura logistica.

L’intervento militare russo in Siria ha cambiato completamente lo scenario preesistente: alla coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti se ne oppone ora un’altra formata da Russia, Iran, Hezbollah e Siria, con alcuni paesi – Iraq e Giordania – che partecipano ad entrambe. Ciò mentre Mosca incalza gli Stati Uniti sull’efficacia dei rispettivi raid contro gli islamisti e offre collaborazione per coordinare con Washington i bombardamenti ed evitare incidenti.

Ovviamente la Russia intende così riacquisire una posizione di forza a livello internazionale a partire dall’area più calda, quella mediorientale, dove più di ogni altro settore del globo è evidente la difficoltà strategica degli Stati Uniti. Controbilanciare la destabilizzazione operata dagli USA e dalle petromonarchie in Siria ed Iraq vuol dire per Mosca alleggerire la pressione esercitata dalla Nato contro la Russia negli ultimi anni, incrementata dopo la reazione di Mosca al golpe filoccidentale organizzato in Ucraina dalle formazioni scioviniste e filoccidentali. Se vorranno trattare sul futuro assetto della Siria, Washington e Bruxelles dovranno da ora in poi concedere qualcosa in cambio sul fronte ucraino. Putin intende stabilizzare la Siria, sostenendone il governo, per dare una mano ai propri alleati nell’area – l’Iran in particolare – e per impedire che una caduta di Damasco crei una nuova ondata jihadista che possa mettere a repentaglio i suoi interessi strategici nell’area e anche la sicurezza della Federazione Russa, fomentando ulteriori ribellioni islamiste nel Caucaso. Lo stesso capo del Cremlino ha più volte, recentemente, avvertito sulla pericolosità dei circa 4-5000 combattenti provenienti dalle repubbliche ex sovietiche e che si sono uniti alle varie bande jihadiste operanti in Siria e Iraq.

Mosca ha approfittato dell’evidente sbandamento statunitense per proporsi come potenza altruista e pacificatrice, disponibile a trattare anche con i suoi nemici pur di porre fine ad un conflitto che rischia di far deflagrare l’intero Medio Oriente.

Quella siriana è sempre stata, e ancor di più ora, una guerra per procura tra potenze regionali e mondiali in competizione, oltre che un conflitto civile dalle feroci conseguenze animato da contrapposizioni politiche, etniche, religiose e politiche. Un elemento che non è sfuggito a Pechino, dove il giornale del Partito Comunista Cinese, il Quotidiano del Popolo, ha accusato Usa e Russia di combattere una guerra per interposta persona, avvertendo che una tale “mentalità da guerra fredda” appartiene al secolo scorso e che solo una soluzione politica potrà porre fine al contenzioso.

Non può sfuggire che il massiccio intervento diretto di Mosca ha reso impossibile una vittoria militare delle forze antiregime sostenute dall’asse sunnita, dagli Stati Uniti e in vario modo dall’Unione Europea. D’altra parte neanche la riconquista dei territori in mano ai gruppi ribelli e jihadisti da parte della forze lealiste può essere considerato uno scenario a portata di mano. Di fatto si starebbe ora assistendo a una recrudescenza dei combattimenti in vista della chiusura di un possibile accordo tra governo e opposizioni e tra le potenze invischiate nel conflitto che potrebbe cristallizzare la situazione sul campo; una fase estremamente cruenta prima dell’eventuale soluzione diplomatica durante la quale ogni soggetto in campo cerca di guadagnare più spazio, più terreno, più influenza in modo da potersi presentare al tavolo negoziale nella posizione migliore possibile.

Più volte negli ultimi anni, l’ipotesi della partizione della Siria è stata presentata come possibile soluzione a una guerra civile che non potrà avere vincitori. La soluzione potrebbe interessare gli Stati Uniti, così come le petromonarchie e la Turchia, che potrebbero accontentarsi di mettere le mani su una parte del paese se proprio non è possibile prenderselo tutto. D’altronde non si contano i paesi ‘falliti’ distrutti, disgregati da decenni di destabilizzazione occidentale in Medio Oriente, in Asia, nei Balcani ed in Africa. La soluzione di una Siria divisa in due potrebbe inoltre essere accettabile – come extrema ratio, ovviamente – anche per le forze lealiste siriane e le potenze che le sostengono, che potrebbero considerarla un cedimento momentaneo in attesa che una propria riorganizzazione e un cambiamento degli attualmente sfavorevoli equilibri nella regione possano permettere una vittoriosa campagna di riconquista del suolo patrio perduto.

Fatto sta che qualche giorno fa il New York Times ha dedicato addirittura un editoriale alla possibilità che la Siria possa essere divisa non in due, ma addirittura in tre o quattro parti, considerando lo scenario di una ‘Bosnia mediorientale’ il male minore. Puntando il dito contro la “furbizia di Putin” e accusando l’amministrazione degli Stati Uniti di essere troppo ‘remissiva’, il giornale ha riportato alcune delle questioni poste dal dibattito tra leader politici, imprenditori e ‘think tank’ andato in scena al Valdai Club, a Sochi, sul Mar Nero. Tra queste proprio l’opzione di una Siria divisa in zone d’influenza. Il regime – e coloro che al di là del sostegno ad Assad parteggiano per uno stato multinazionale, multietnico, laico e rispettoso delle differenze religiose – conserverebbe forse Damasco e sicuramente le zone costiere a maggioranza alauita intorno a Latakia (dove sorge anche la base navale russa di Tartus, l’unica che Mosca possiede sulle sponde del Mediterraneo), mentre le opposizioni potrebbero veder riconosciuta la propria sovranità sulle regioni centro-orientali del paese.

Il problema – soprattutto per gli eventuali sponsor occidentali della partizione – è che il fronte delle opposizioni è assai variegato e i vari gruppi sono in forte contrasto tra loro; a prevalere sui gruppi “moderati”, come vengono impropriamente definite le fazioni più inclini ad obbedire agli ordini di Washington, sarebbero i gruppi jihadisti come Al Nusra o addirittura lo Stato Islamico, una eventualità indesiderabile per Mosca e i paesi dell’asse sciita. Consegnare alla luce del sole mezza Siria ai tagliagole di Al Qaeda e di Al Baghdadi sarebbe inoltre insostenibile anche per alcuni di quegli stessi paesi che da anni riforniscono i jihadisti di armi e soldi, nella speranza che tolgano di mezzo il governo siriano ma al tempo stesso non si rafforzino tanto da diventare una minaccia per gli interessi di Washington o delle petromonarchie feudali della penisola arabica.

E allora invece di due zone in cui dividere la Siria, il New York Times ha adottato lo schema di tipo etnico promosso da Fabrice Balanche, a capo del think tank francese Gruppo per gli Studi su Mediterraneo e Medio Oriente, sostenendo che dovrebbero essere più numerose, anche per soddisfare le rivendicazioni di un numero maggiore di attori internazionali in campo. Ad esempio Israele potrebbe diventare lo sponsor di un ‘cantone’ druso ai suoi confini. Mentre a Nord i curdi potrebbero divenire completamente autonomi, sul modello di quanto già imposto dagli invasori e gli occupanti statunitensi nel nord dell’Iraq con la costituzione di un semistato curdo subalterno agli interessi di Washington, Israele e Turchia. Ovviamente in questo caso Ankara potrebbe avere qualcosa da ridire, vista la vicinanza delle forze turche siriane a quelle che operano nel Kurdistan turco e che l’esercito di Erdogan sta bombardando da mesi. Nella regione sunnita, sempre stando all’elaborazione degli apprendisti stregoni francesi rilanciata dal NYT, a quel punto i “ribelli moderati” massicciamente sostenuti dall’occidente potrebbero efficacemente contrastare lo Stato Islamico senza doversi preoccupare di respingere anche gli attacchi di Damasco.

Solo un accordo tra le potenze come quello di Dayton del 1995 sulla Bosnia, avverte Fabrice Balanche, potrebbe garantire la tenuta di una simile complessa e contraddittoria architettura. Ma evidentemente sfugge agli apprendisti stregoni in questione che il mondo nel frattempo è cambiato in maniera radicale; se nel 1995 l’unica superpotenza sopravvissuta e incontrastata a livello globale poteva imporre con le buone e con le cattive i suoi diktat agli altri attori, oggi i sempre più deboli Stati Uniti devono fare i conti con la loro crescente debolezza e con un numero non indifferente di competitori a livello sia regionale sia internazionale.

Oltretutto, fa notare Piotr Dutkiewicz, professore di Scienze politiche alla Carleton University di Ottawa, veterano del Valdai Club, per Mosca sarebbe assai difficile sostenere una spartizione della Siria: "Contribuire alla divisione della Siria sarebbe percepito come in netta contraddizione con il principio della difesa della sovranità, principio essenziale per Mosca anche per la sua politica interna". Secondo Dudtkiewicz, "un altro scenario è più plausibile: l'indebolimento dell'opposizione di Assad, in modo che questa apra a una soluzione di compromesso, e questa sarebbe la creazione di una blanda confederazione dentro gli attuali confini siriani. Così sarebbe preservata l'unità, almeno formale, l'opposizione non solo salverebbe la faccia, ma otterrebbe anche voce in capitolo". Ma ci sono tre condizioni "per niente scontate", affinché si possa concretizzare questo quadro: "gli Usa e i loro alleati devono accettarlo, Israele deve restare neutrale, la Russia deve essere abbastanza forte da continuare l'intervento in Siria per uno, due mesi ancora".

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