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26/09/2015

USA: "Pronti ad aprire il dialogo con Theran sulla Siria"

E’ arrivato il momento di parlare con Teheran. Cominciano a capirlo tutti, anche gli Stati Uniti, che hanno annunciato ieri di voler aprire un dialogo sulla Siria proprio con la Repubblica Islamica. A parlare è stata Wendy Sherman, sottosegretario di Stato per gli Affari politici, spiegando che la questione sarà in agenda quando il responsabile Usa degli esteri John Kerry domani incontrerà il suo omologo iraniano, Mohamad Javad Zarif, in sede Onu.

“Siamo sempre stati aperti – ha dichiarato la Sherman – a condurre colloqui a seconda dei casi. Non perché ci coordiniamo, ma perché sappiamo con certezza che ci sono interessi paralleli. C’è grande sensibilità politica in Iran ad avere queste discussioni e probabilmente alcuni limiti che sono reali, ma è importante impegnarci nella misura in cui possiamo”. La sensibilità politica della Repubblica islamica nasce però da posizioni diametralmente opposte a quelle degli Usa: sostenere il presidente siriano Bashar al-Assad, quando invece Washington ne chiede – e ne foraggia – da quattro anni la rimozione.

Una rimozione che non è ancora arrivata e che, almeno da parte statunitense, per ora non sembra neanche vicina. Dopo anni di sostegno, pochi giorni fa è stato infatti decretato un nuovo fallimento della politica Usa in Siria con l’annuncio, fatto dal capo del comando militare centrale statunitense Lloyd Austin alla Commissione dei Servizi Armati del Senato, di reali numeri della milizia anti-Assad finanziata da Washington: quattro, forse cinque combattenti starebbero realmente prestando servizio, mentre un altro centinaio sarebbe in fase di addestramento. Troppo pochi per giustificare quei 500 milioni di dollari finora investiti dall’amministrazione Usa per i cosiddetti “ribelli moderati”. Per questo, annunciano alcuni funzionari della Difesa, il programma di addestramento sarà ridimensionato.

Ed è proprio ora che la discussione tra i due storici nemici, freschi firmatari di un accordo sul nucleare, avrebbe “senso”, a detta del Sottosegretario di Stato Usa: ora che gli ultimi sviluppi sul campo stanno cambiando le carte in tavola. Con la Russia sempre più presente in Siria al fianco di Assad, tanto da spingere Washington a centrare la discussione di domenica prossima con il titolare degli Esteri russo Sergei Lavrov proprio su questo. Con l’Isis e le altre formazioni jihadiste che non appaiono neanche lontanamente indebolite, nonostante i raid della coalizione anti-califfato iniziati la scorsa primavera. E con i “ribelli moderati” riccamente foraggiati da Washington e dai suoi alleati che piano piano stanno cedendo.

L’ultima batosta l’hanno ricevuta qualche giorno fa, quando all’ennesimo fallimento dell’offensiva di quel che resta dell’Esercito Libero Siriano per strappare la città meridionale di Deraa alle truppe governative, le operazioni contro il regime in quella zona sono state dichiarate “chiuse”. Non dai miliziani stessi, bensì da Washington e Amman, che dalla Giordania dirigono il “Centro per le Operazioni Militari” assieme ad alti rappresentanti militari di 14 nazioni occidentali e del Golfo, fornendo assistenza logistica, equipaggiamento e stipendi ai miliziani. Una fonte all’interno del Centro ha rivelato al portale Middle East Eye che gli americani e i giordani avrebbero deciso di chiudere il fascicolo sulla riconquista di Deraa, la prima città ribelle ad aver sperimentato la durissima repressione del regime siriano all’inizio del 2011.

L’ultima offensiva per la riconquista della città è stata pianificata dal Centro per le Operazioni Militari e lanciata il 25 giugno scorso. L’operazione “Tempesta del sud”, a distanza di tre mesi, avrebbe – secondo quanto raccontato dalla fonte interna al COM – prodotto solo 200 morti tra le fila dell’Esercito siriano libero e un enorme spreco di denaro, oltre a frizioni sempre maggiori tra i miliziani sponsorizzati da Washington e le fazioni islamiste presenti nella zona, che pure nel 2014 si erano unite ai ribelli cosiddetti “moderati” in un’altra operazione di riconquista della città.

A fronte della situazione sul campo, torna a farsi spazio nelle menti statunitensi l’ipotesi della presenza di Assad in una futura transizione, il secondo cedimento di Washington dopo anni di intransigenti “no” all’eventualità. Negli ultimi giorni alcuni funzionari della Segreteria di Stato Usa, tra cui Kerry stesso, avevano lasciato intendere che l’intransigenza non era più un’opzione. Wendy Sherman ha chiarito le cose: “Noi non pensiamo che non sia credibile per Assad rimanere per un certo periodo di tempo come leader del suo paese. Apprezziamo però che ci possa essere una soluzione politica in cui Assad sia lì per un certo periodo di tempo mentre avviene la transizione”.

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