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26/08/2015

Yemen - Se la terra promessa e la Somalia

di Federica Iezzi – Il Manifesto

Vec­chie navi da carico che fino allo scorso marzo tra­spor­ta­vano bestiame, ora almeno una volta a set­ti­mana, dopo 30 ore di navi­ga­zione, sca­ra­ven­tano debi­li­tati rifu­giati dallo Yemen in Soma­lia o a Gibuti. I mer­can­tili par­tono dal porto yeme­nita di al-Mokha, a ovest della città di Taiz, dal porto di Hodeida, nell’omonimo gover­na­to­rato, e dal porto di al-Mukalla, nella regione costiera di Hadh­ra­maut. Seguono la tratta pre­sta­bi­lita nel golfo di Aden.

All’ingresso del Mar Rosso, Bab al-Mandeb è il canale chiave di tra­sporto che separa l’Africa dalla peni­sola ara­bica. Largo solo 30 chi­lo­me­tri nel punto più stretto. Nello stretto ci sono tre prin­ci­pali rotte di con­trab­bando, tutte poco distanti dal porto di al-Mokha. Rotte non sog­gette ai con­trolli di sicu­rezza per anni, da sem­pre uti­liz­zate per il traf­fico di armi, droga, petro­lio e per­sone. Ignote per­fino alle navi mili­tari della Coa­li­zione sau­dita dispie­gate nell’area.

Nad­heer, un avvo­cato yeme­nita, rac­conta: «Il viag­gio può costare dai 100 ai 300 dol­lari. Anche per i bam­bini. Le bar­che tra­spor­tano 200 per­sone e 600 ton­nel­late di merce». E con­ti­nua: «Lo Yemen è diven­tato un luogo dif­fi­cile da abban­do­nare. La via di terra per l’Arabia Sau­dita è bloc­cata dai ribelli hou­thi. Le città costiere meri­dio­nali pre­si­diate dagli hou­thi sono inavvicinabili».

I rifu­giati sbar­cano in Soma­lia, nei porti di Ber­bera e Lughaya, nella regione auto­noma del Soma­li­land, o nel porto di Bos­saso, nel Pun­tland, e tro­vano rifu­gio tem­po­ra­neo spesso nei para­liz­zanti campi spon­ta­nei, non uffi­ciali, dove c’è ener­gia elet­trica per appena 8 ore al giorno.

Tra i rifu­giati, ci sono anche somali bantu fug­giti venti anni fa dalla spi­rale di vio­lenza che tut­tora ancora deva­sta la loro terra. All’epoca tro­va­rono casa in Yemen, ma ora il governo somalo di Has­san Sheikh Moha­mud ha offerto il suo soste­gno alla Coa­li­zione sau­dita nella lotta con­tro i ribelli di al-Qaeda gui­dati dall’emiro Qasim al-Raymi, e con­tro la mino­ranza sciita hou­thi, appog­giata dalle forze fedeli all’ex pre­si­dente yeme­nita Ali Abdul­lah Saleh e dall’Iran. Dun­que la popo­la­zione yeme­nita che fino a poche set­ti­mane fa con­vi­veva con i tra­pian­tati somali, oggi li aggredisce.

I dati dell’Unhcr, l’Alto Com­mis­sa­riato delle Nazioni Unite per i Rifu­giati, par­lano di 28.596 yeme­niti arri­vati in Soma­lia, tra cui almeno 12.000 bam­bini, dall’inizio del con­flitto. Nel cen­tro di acco­glienza, alle­stito nel porto di Ber­bera, uomini, donne e il pianto incon­so­la­bile dei bam­bini pos­sono sostare solo tre giorni. Rice­vono cibo, acqua e cure medi­che. Ci sono solo cin­que ser­vizi igie­nici per più di 400 per­sone. Da Ber­bera in massa si pre­ci­pi­tano nella capi­tale Har­gheisa, dove si acco­dano alle infi­nite file delle strut­ture della Mez­za­luna Rossa, per man­giare e per chie­dere asilo.

Senza cibo, né scarpe, secondo i dati dell’Organizzazione Inter­na­zio­nale per le Migra­zioni, 23.360 rifu­giati sono tran­si­tati nel cen­tro di al-Rhama e poi accolti nel campo di Mar­kazi, nella pic­cola città por­tuale di Obock, in Gibuti. Su petro­liere o mer­can­tili. Senza posti veri. Un com­mer­cio fio­rente di biglietti e passaporti.

Faaid, un agente marit­timo del porto di Ber­bera, ci dice che «1.325 per­sone sono arri­vate in Soma­lia e a Gibuti nelle due set­ti­mane suc­ces­sive all’inizio del con­flitto in Yemen». Le Nazioni Unite par­lano di almeno 900 per­sone arri­vate nel Corno d’Africa negli ultimi 10 giorni. 58.234 il totale di arrivi tra Gibuti, Soma­lia, Sudan e Etio­pia. Secondo i doga­nieri del porto di al-Mokha, più di 150 per­sone lasciano lo Yemen legal­mente ogni giorno. Sono i pesca­tori con le loro bar­che o chi ha soldi suf­fi­cienti per com­prare un posto sui mer­can­tili. E ogni giorno, come merce di con­trab­bando, più di 400 per­sone affron­tano quel mare, su bar­che di medie dimen­sioni. Di pro­prietà di com­mer­cianti o pesca­tori yeme­niti, ven­gono com­prate qual­che giorno prima della pre­vi­sta par­tenza, da bande di trafficanti.

Tutto ini­zia in mezzo alle 18.000 per­sone del campo pro­fu­ghi di al-Kharaz, a 150 chi­lo­me­tri a ovest del porto di Aden. Strade bucate dai mor­tai. Nella deserta regione del sud dello Yemen, durante la distri­bu­zione di cibo da parte del World Food Pro­gramme, quando le per­sone sono ammas­sate e le tem­pe­ra­ture arri­vano a 35 gradi, Fadaaq, un ragazzo forse di 19 anni, ini­zia la “ricerca”. Fadaaq, ci rac­con­tano nel campo, lavora per con­trab­ban­dieri migranti in Kuwait. L’obiettivo è di tro­vare almeno 30 per­sone per ogni viaggio.

Il tra­sporto dal campo al porto di al-Mokha è in auto­bus. Ogni rifu­giato paga dai 25 ai 50 dol­lari, incon­trando diversi chec­k­point mili­tari sulla strada, fre­quente tar­get dei mili­ziani di al-Qaeda.

C’è anche chi, dai quar­tieri di Cra­ter, Ash Sheikh Outh­man, Khur Mak­sar e Atta­wahi della città di Aden, cam­mina a piedi per due giorni interi, fino a al-Mokha. Lo Stato Isla­mico e al-Qaeda hanno bloc­cato la mag­gior parte delle strade tra Sana’a e Aden.

Si aspet­tano anche 15 giorni nel porto, in attesa di un posto sui mer­can­tili o in attesa di sal­dare il debito con i con­trab­ban­dieri. Si dorme per terra su teli. Si aspetta l’acqua dalle orga­niz­za­zioni uma­ni­ta­rie. Agenti di poli­zia, guar­die di fron­tiera e diplo­ma­tici fanno finta di non vedere.

Il con­trab­bando di migranti coin­volge reclu­ta­tori, tra­spor­ta­tori, alber­ga­tori, faci­li­ta­tori, ese­cu­tori, orga­niz­za­tori e finan­zia­tori. Spesso i traf­fi­canti sono essi stessi migranti. Spesso i migranti clan­de­stini gui­dano le bar­che. Spesso si usano imprese ad alta inten­sità di capi­tale per il rici­clo dei proventi.

Tre­cento pas­seg­geri è il mas­simo per una barca di 17 metri. Ma le bar­che ven­gono cari­cate di 700–800 per­sone. Su quasi ogni barca la sto­ria è la stessa. Ven­gono rac­colti tutti i tele­foni cel­lu­lari. Tutti par­tono senza baga­glio. Hanno diritto a man­giare, bere e andare in bagno fino al momento dell’imbarco.

Ci rac­conta Reem: «Mi hanno por­tata in un posto dove ho incon­trato altri come me, in viag­gio verso la Soma­lia. In totale era­vamo 157. Una parte del viag­gio l’ho fatta in piedi, per far posto ai miei figli. Poi sono riu­scita a sedermi con le gambe appog­giate al petto. Sono rima­sta per più di dieci ore così». Reem ci ha detto che arri­vati a Ber­bera, in Soma­li­land, hanno spinto tutti fuori dalla barca, in mare. Alcuni sono anne­gati. Altri sono riu­sciti a rag­giun­gere la riva. La barca è spa­rita in pochi minuti tra le onde.

A Mareero, Qaw e Elayo, nella regione somala del Pun­tland, a Obock, in Gibuti, a Bab al-Mandeb, al largo della città di Taiz, e nel golfo di Aden, l’Unhcr ha regi­strato il più alto numero di decessi nel Mar Rosso e nel Mar Arabico.

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