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24/08/2015

Stefano Feltri, la polemica sulle facoltà universitarie “inutili”, e la triste verità sull’Italia

Nei giorni scorsi, su Internet si è scatenata una vivacissima polemica generata da un articolo di  Stefano Feltri sul Fatto Quotidiano (seguito poi da un secondo altrettanto controverso), eloquentemente intitolato “Il conto salato degli studi umanistici”. L’autore, in sostanza, sostiene che iscriversi a un corso di laurea umanistico è sostanzialmente un lusso, visto che poi si trova difficilmente lavoro, e se lo si trova è sottopagato, e invita i giovani che non siano ricchi di famiglia a dedicarsi piuttosto a studi ingegneristici o scientifici. Naturalmente, le reazioni contrarie sono state accese, ma la cosa che mi ha spinto a scrivere questo post è che secondo me sia Feltri che i suoi critici sbagliano completamente obiettivo. Vediamo perché.

Innanzitutto, riepiloghiamo: gli articoli di Feltri prendono spunto da uno studio del CEPS pubblicato a luglio scorso, e che tenta di calcolare l’opportunità delle diverse possibili scelte per l’area di studi universitaria esaminate come opzioni di un investimento economico che il giovane neodiplomato si trova davanti. Lo studio, quindi, prende in considerazione per impostazione solo il costo e il beneficio economico legati a un corso di studi, e solo dal punto di vista dello studente (il ritorno, economico e non, per la società non è preso in considerazione).

Feltri, riportando parzialmente i dati dello studio, ne conclude che per chi li sceglie gli studi umanistici rappresentano un costo netto (ossia un investimento a valore negativo), e che quindi sceglierli è un grave errore, a meno che lo studente sia disposto a pagare per acquisire conoscenze che il mercato del lavoro non remunererà. Nel suo secondo articolo, Feltri si spinge a chiedersi se non sia più logico per lo Stato tagliare i fondi a corsi di laurea “che producono disoccupati” e piuttosto destinare i finanziamenti “alla ricerca in campo chimico o elettronico”. A queste affermazioni ha fatto seguito la classica levata di scudi di coloro che rivendicano l’ineguagliabile valore culturale degli studi umanistici che supera le considerazioni prosaicamente economiche, mentre altri hanno preso più semplicemente di mira personalmente Feltri in quanto bocconiano e privilegiato. Critiche più pertinenti e fondate sono invece presentate ad esempio in un post  di Galatea Vaglio sul blog Valigia Blu, che correttamente osserva che lo studio da cui Feltri prende le mosse non dice propriamente quello che il vicedirettore del Fatto riporta, ma manca anch’esso di cogliere il vero significato di quei dati.

Ma insomma, cosa dice davvero questo studio? In effetti, ho il sospetto che Feltri non lo abbia neanche letto, perché in un certo senso dice il contrario di quello che afferma lui. Ma vediamo, e soprattutto vediamo in quale contesto si inserisca questo studio.

Premessa: i dati su cui lo studio si basa sono onestamente limitati (gli autori rielaborano dati di altre fonti) e quindi sui risultati presentati io non metterei la mano sul fuoco. In ogni caso, è importante sottolineare la finalità dello studio: l’Unione Europea ha infatti in diverse occasioni segnalato una relativa penuria di laureati in materie scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche (STEM). Lo stesso studio del CEPS fa riferimento al documento EU Skills Panorama – Focus on STEM Skills, anche se singolarmente a quello relativo al 2012 anziché all’ultimo pubblicato nel 2015. In esso si legge che i posti di lavoro relativi alle competenze STEM sono cresciuti in tutta Europa del 12% nel periodo 2005-2013, a fronte di una crescita dell’occupazione in tutti i settori solo del 4%. Inoltre, non solo l’ “occupazione STEM” è cresciuta molto recentemente, ma è destinata a crescere ulteriormente, con una previsione del 9,5% tra il 2015 e il 2025 rispetto al 3% per il complesso di tutti i settori. Non sorprendentemente, “gli studi evidenziano una penuria di professionisti STEM e la necessità di coinvolgere gli studenti di tutti i livelli nello studio della scienza per dare impulso all’offerta di lavoratori STEM” (documento citato, traduzione mia, come nel seguito). A partire da questa esigenza, lo studio del CEPS vuole investigare le ragioni per cui il numero degli studenti universitari nelle materie STEM non cresce quanto ci si potrebbe aspettare: si tratta forse di un caso di “irrazionalità nelle scelte degli studenti”?

Lo studio del CEPS trova in realtà che gli studenti sono forse più razionali degli osservatori: i dati mostrano che, in termini di investimento economico, le materie STEM sono un investimento mediocre se non addirittura scadente. Indovinate in quale tra i paesi osservati questo investimento risulta peggiore? Ovviamente, in Italia. Il (non bellissimo) grafico qui sotto indica in sostanza che sia per gli uomini che per le donne gli studi umanistici sono un investimento negativo (il costo è maggiore del beneficio); tuttavia, neanche per le materie STEM le cose sono non particolarmente rosee, soprattutto a causa dell’elevato costo degli studi (in particolare in termini di tempo necessario per la laurea), non compensato dalle retribuzioni post-laurea. Decisamente più convenienti sembrano le lauree del comparto sociologico, legale ed economico, e soprattutto quelle di Medicina e materie affini.

Valore dell’investimento in un corso di studi per uomini e donne (media tutti i settori = 100)

Insomma, al contrario di quanto consiglia Feltri, non solo gli studi umanistici sono economicamente svantaggiosi, non è conveniente per un giovane italiano iscriversi a un corso di laurea scientifico: secondo lo studio del CEPS per le donne è addirittura economicamente più conveniente scegliere una materia umanistica! La conclusione di quello studio è che se si vuole avere più laureati scientifici bisogna adottare politiche in grado di modificare il bilancio costi/benefici per quei corsi di laurea; la conclusione a cui vorrei arrivare io è invece diversa, e per introdurla ricorrerei a un altro grafico prelevato dalla stessa fonte:

Valore medio dell’investimento negli studi universitari nei diversi paesi

In pratica, in Italia una laurea ha in media un valore netto come investimento bassissimo, addirittura negativo per le donne. Questo è il vero problema; e il motivo è che, per quanto in Italia si “producano” meno laureati che in altri paesi europei (secondo l’Eurostat, in Italia la percentuale di laureati tra i 30 e i 34 anni è del 23,9%, il livello più basso dell’UE a 28, la cui media è 37,9%), il mercato del lavoro non offre loro granché, anzi. Per rendercene conto, possiamo fare ricorso a un ultimo grafico, questa volta preso in prestito dal  documento del 2014 Skills challenges in Europe, sempre dell’Unione Europea: l’Italia è uno dei paesi europei dove i lavoratori hanno più frequentemente un titolo di studio superiore a quello che sarebbe richiesto dal lavoro che svolgono, ossia in Italia chi possiede un titolo di studio elevato è frequentemente sottoccupato.

Confronto tra competenze, titolo di studio posseduto e lavoro svolto – Fonte: Eurostat

La conclusione mi sembra chiara: se, come in fondo sappiamo tutti, iscriversi a una facoltà umanistica non avvia verso sbocchi professionali particolarmente redditizi, in Italia anche le lauree che dovrebbero avere le migliori prospettive occupazionali “rendono” poco, anche perché le aziende sottoutilizzano e sottopagano proprio quelle persone che dovrebbero dare impulso all’innovazione delle imprese. Di tutto questo nell’articolo di Feltri, e anche nelle repliche più o meno stizzite che ha suscitato, non c’è purtroppo traccia, eppure sarebbe un tema ben più interessante della solita, sterile polemica tra cultura umanistica e scientifica.

Fonte

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