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23/08/2015

L'Alba euromediterranea: da provocazione teorica a percorso reale

Una conversazione con Luciano Vasapollo e Rita Martufi

Cosa possiamo contrapporre alle distruzioni di un capitalismo in crisi? È possibile anche in Europa un’unione del mondo del lavoro e del lavoro che non c’è, che possa guardare alle sponde del Mediterraneo in nome di una solidarietà finora mancata? Possiamo unire i sindacati conflittuali, i movimenti sociali antagonisti e le organizzazioni politiche anticapitaliste dell’area euro-afro-mediterranea in nome dell’internazionalismo di classe?

Ne parliamo con il Prof. Luciano Vasapollo, marxista, critico dell’economia e docente alla "Sapienza" Università di Roma e alle Università de La Habana e Pinar del Rio (Cuba), e con Rita Martufi anche lei marxista e critica dell’economia, entrambi direttori del Centro Studi CESTES dell’USB-Unione Sindacale di Base e militanti politici comunisti da oltre quaranta anni.

L’intervista, di Ettore Gallo studente e militante del Collettivo Economia di Sapienza Università di Roma, deriva da una lunga collaborazione politico-culturale, di cui ricordiamo un’intervista-conversazione alla vigilia delle elezioni europee del maggio 2014(link) e la partecipazione dello stesso Prof. Vasapollo a un’iniziativa promossa lo scorso maggio dal Collettivo Economia sullo sviluppo economico e le prospettive politiche dei Paesi dell’ALBA (video).

Le politiche di austerità applicate nell’Unione Europea dal 2010 si dimostrano ogni giorno più fallimentari, anche all’interno di un’ottica peculiarmente capitalistica. Dove condurrà la strategia dell’austerità in Europa?

L.V. Vorrei prima di tutto far parlare i dati. Dal 2010, al momento dell’introduzione più massiccia delle misure di austerity, il debito estero complessivo - pubblico e privato - dell’Eurozona, a due anni dopo, nel 2012, subisce una crescita percentuale del 6,67%. Allo stesso modo il debito pubblico estero del 2010 al 2012 ha una crescita del 14,29%. In poche parole le politiche di aggiustamento del debito hanno totalmente fallito.

Non bisogna però lasciarsi ingannare neppure da tentazioni keynesiane, contrapponendo alle misure di austerità programmi orientati verso la crescita economica sviluppiste. Come sempre bisogna guardare alle dinamiche dello scontro di classe: l’austerità, economicamente disastrosa, è politicamente necessaria nella misura in cui persegue una redistribuzione fra lavoro e capitale a favore di quest’ultimo, indebolisce la lotta dei lavoratori e li mette in conflitto fra loro, supportando la fallace categorizzazione che l’ideologia capitalista opera degli sfruttati (precari contro lavoratori a tempo indeterminato, lavoratori pubblici contro lavoratori privati, immigrati contro residenti, ecc ecc.).

Uno degli slogan che costantemente si sentono in TV e sui giornali oltre che da parte dei poteri economici centrali, siano essi la Banca Centrale, il Fondo Monetario Internazionale o altri organismi compresa la Commissione Europea (le tre entità che di fatto formano la Troika, cioè apparati per il massacro sociale negli interessi della borghesia transnazionale europea), affermano di essere in una crisi senza precedenti; una crisi che secondo i nostri metodi e modelli scientifici marxisti di riferimento è a carattere sistemico, determinato da una crisi di accumulazione e di sovrapproduzione che induce come effetto secondario una crisi sottoconsumistica.

R.M. L’Unione Europea è una costruzione utile e necessaria a salvare l’export tedesco, senza alcuna possibilità di sviluppo per i Paesi del Mediterraneo. È proprio dal presupposto dell’irriformabilità dell’UE che anni fa muovemmo la nostra proposta - come CESTES Centro Studi dell’USB e poi ripresa da sindacati conflittuali e molti movimenti sociali in Europa, e da organizzazioni politiche in particolare in Spagna, Grecia, in primis in Italia come la Rete dei Comunisti e da qualche mese dal Movimento 5 Stelle - di una nuova area mediterranea incentrata sulla solidarietà e cooperazione fra lavoratori e proletari, poi teorizzata come ALBA euro-afro-Mediterranea (e nel corso dei processi di diffusione del progetto politico in tutta Europa anche chiamata ALBA euro-Mediterranea o semplicemente ALBA Mediterranea) ricollegandoci all’impostazione antimperialista e anticapitalista nel processo di transizione verso il socialismo, che la fondazione dell’ALBA di Nuestra America indo-africana già nelle sue origini nel 2004 portava con sé.

ALBA e Unione Europea sono unioni politiche ed economiche assolutamente opposte tra loro; l’ALBA costruisce percorsi di transizione al socialismo e per questo ha messo al centro del proprio operato la priorità della lotta contro la povertà e l'esclusione, per la sovranità energetica sulle proprie risorse, per il controllo del sistema bancario e, in generale, per le nazionalizzazioni nella prospettiva della  socializzazione dei mezzi di produzione; mentre l’UE ha spinto verso la liberalizzazione dei commerci, verso politiche di riduzione del deficit con abbattimento della spesa sociale e di controllo dell’inflazione, che non hanno fatto altro che difendere i profitti e le rendite acquisite, facendo salire disoccupazione, povertà ed esclusione sociale, insomma una costruzione imperialista e neoliberale.

R.M. Rispetto al passato ci troviamo di fronte a un quadro geopolitico totalmente differente, con l’assenza del grande blocco sovietico, ma anche con una leadership mondiale statunitense fortemente ridimensionata. Abbiamo davanti agli occhi l’immagine di un capitalismo in crisi, dove gli Stati Uniti in decadenza - che pur costituiscono ancora la maggior potenza mondiale - fanno passaggi attendisti sullo scacchiere internazionale, certo non espressione di un dominio incontrastato, e che si concretizzano nel  negoziare con Cuba per tentare di siglare l’accordo di normalizzazione, ma poi tentano di strozzare il Venezuela bolivariano e chavista per far crollare i processi rivoluzionari dell’ALBA; o ad esempio da un lato scatenano una feroce competizione nella contrapposizione fra area del dollaro e area dell’euro, ma dall’altra vogliono siglare il TTIP per tagliare fuori i BRICS.

Di conseguenza l’espansione del commercio estero, per il suo appetito di mercati sempre più estesi, continua a trasformarsi. I processi di dominio coloniale e imperiale del centro sulla periferia si erigono come caratteristiche fondamentali dell’internazionalizzazione del capitale alle condizioni di modello premonopolista. 

In tal senso e secondo tali dinamiche imposte dalle borghesie transazionali, quanto sta oggi accadendo in Grecia, in forma più violenta che in altri paesi del sud Europa, è esattamente l’emblema di cosa significhi vivere all’interno della gabbia politica ed economica che l’Unione Europea ha sempre rappresentato e ciò ovviamente anche nelle dinamiche attuative delle regole del commercio estero capitalista in quanto, come detto, si tratta di una costruzione imperiale in via di completa costruzione.

L.V. Dal nostro punto di vista interessa analizzare gli squilibri provocati dallo sviluppismo capitalistico e dall’emergere di nuovi accordi internazionali, di nuove comunità statali, a partire dalla determinazione come polo geoeconomico e geopolitico dell’Eurozona imperialista e come area valutaria finanziaria all’interno dell’attuale polarizzazione capitalista connessa all’odierna divisione internazionale del lavoro. Questi sono i connotati dell’attuale fase della mondializzazione capitalista intesa come competizione globale, cioè come dimensione dell’attuale fase dell’imperialismo.

Nell’Unione Europea, negli ultimi anni, sono prevalse le manovre a carattere monetario e per tale causa sono diminuiti percentualmente proprio gli investimenti produttivi, perché la stessa politica monetaria ha creato flussi di enorme liquidità diretti al sistema bancario e finanziario. Invece in termini di politica economica la crescita dipende dall’aumento degli investimenti, quelli inattivi produttivi (cioè le macchine), e dal capitale produttivo pubblico e privato. E nella crisi sistemica per le organizzazioni sindacali conflittuali e i movimenti sociali anticapitalisti che agiscono in Europa si tratta allora di acutizzare tutte le contraddizioni contrapponendosi direttamente alle regole dei potentati dell’Europolo.

Eppure, al di là della proposta di un’alleanza alternativa nel Vecchio Continente, allo stato attuale possiamo individuare delle similitudini di contesto storico economico  fra le due aree?
R.M. Vi sono senz'altro differenze enormi fra America Latina ed Europa in quanto a modelli di capitalismo e metodo di attuazione dello sfruttamento del lavoro e delle risorse e in merito al diverso ruolo egemonico delle diverse frazioni e centri di comando del Capitale nelle due aree. Nonostante ciò è importante notare che ai Paesi aderenti all’Unione Europea sono applicati approssimativamente gli stessi piani di aggiustamento strutturale che 30 anni fa l’FMI applicava ai Paesi dell’America Latina, imponendo le regole del massacro sociale neoliberista per fare “strozzinaggio”, condizionando lo sviluppo di intere aree che recalcitravano o si opponevano duramente al diventare terra di conquista per il Capitale transnazionale.

Invece in maniera diametralmente opposta sia sul piano economico ma soprattutto politico. Nei Paesi dell’area dell’ALBA si mettono ogni giorno sempre più in moto nuove forme di economia plurale e solidale attraverso lo strumento politico della democrazia partecipativa.

L.V. La competizione globale sempre più agguerrita in questa crisi sistemica, evidenzia l’impossibile esistenza, a medio-lungo termine, del capitalismo, o meglio del modo di produzione capitalista.

Niente a che vedere con una visione immediata di fine del capitalismo per “autodistruzione” e quindi in una sorta di teoria del crollismo, anche perchè, in assenza di un confronto di classe radicale e con in campo una soggettività rivoluzionaria organizzata, il sistema troverà ancora delle modalità attuative dei capitalismi per far sopravvivere il modo di produzione capitalista.

Ma oggi nell’approfondirsi di una crisi sistemica e globale del capitale che non vede soluzioni, crediamo che stia nascendo una nuova alleanza del lavoro, di un rinnovato internazionalismo di classe con l’attuale diversificazione dei soggetti del lavoro e del lavoro negato, cioè una nuova unità di lasse tra nord e sud come ad esempio nello spazio Mediterraneo.

Bisogna, quindi, costruire una nuova correlazione di forze che si deve fondare su un programma dell’internazionalismo di classe che si dialettizzi ai proletari dei Sud del mondo che possano trovare nei paesi dell’area Mediterranea, l’esempio di un percorso capace di sparigliare le carte dell’”azienda mondo” come la definiva il grande Maestro Hosea Jaffe.

In questo senso allora da subito è possibile inceppare i meccanismi di potere dei centri-polo, come sta tenacemente realizzando l’alleanza dell’ALBA in America Latina.

Al fianco delle similitudini nei processi storici del dominio capitalista, sia in America Latina e in Europa, ieri ma anche oggi, possiamo individuare delle sostanziali differenze che tuttavia non scalfiscono la nostra proposta, ma la rafforzano nella misura in cui postulano la necessità e non più solo la possibilità di una nuova area politica ed economica in Europa e nel Mediterraneo.

In termini gramsciani, è necessario un cambiamento di egemonia che modifichi il senso comune, una modificazione radicale e socioculturale che inverta le relazioni fra economia e politica.

Credete che questo cambiamento di egemonia ci sia già stato in America Latina? Che Guevara, in una frase divenuta celebre, sosteneva che “le rivoluzioni non si esportano, le rivoluzioni nascono in seno ai popoli”. Non ho dubbi che il processo di transizione che il PSUV ha avviato in Venezuela sia un processo rivoluzionario, così come lo è la costituzione dell’ALBA nel 2004. Eppure riproporre in maniera più o meno provocatoria la prospettiva di una nuova ALBA fra le sponde del Mediterraneo può sembrare un malcelato tentativo di esportare un processo politico in un contesto totalmente differente.

L.V. Non mi piace mai fare apologia di processi che non sono mai definitivi, poiché nel divenire storico necessitano di ulteriore sviluppo e presentano talvolta importanti contraddizioni.

Partiamo da un dato di fatto: Gramsci oggi è letto e studiato molto più in Sud America che in Italia e nel Vecchio Continente. Tutti i processi di trasformazione chiamiamoli in termini generici post-capitalistici hanno sempre messo al centro questo cambio di egemonia, una modificazione del senso comune come “concezione della vita e la morale più diffusa” (si veda su questo ad esempio A. Gramsci, Quaderni dal Carcere, Q 1, 65, 76 ),verso la sua sedimentazione in un folklore che diventa Storia e Storia di classe. Le disuguaglianze presenti nei paesi dell’America Latina, le condizioni sfavorevoli delle aree rurali, la povertà del mondo contadino sono anche accompagnate da una grande ricchezza del tessuto sociale e di quello politico, in particolare in questi ultimi anni, con la nascita, il consolidarsi e rafforzarsi  dell’alleanza politica ed economica del’ALBA.

Questi processi prendono sempre più piede particolarmente in Bolivia grazie al compagno campesindio Presidente Evo Morales, ai movimenti sociali, agli indios, ai contadini e ai minatori. Il MAS in Bolivia oggi è interprete dei contenuti dei programmi dei movimenti sociali ed è portatore delle istanze di prospettiva dei percorsi di transizione al socialismo promossi dai partiti, dagli stessi governi rivoluzionari e progressisti dell’ALBA che si oppongono alle politiche e ai trattati che vogliono imporre ancora una volta lo scambio diseguale delle aree di libero scambio e il commercio secondo le regole dei vantaggi comparati competitivi contrapponendo il progetto dell’ALBA a forti connotati politico-socio-economici anticapitalisti.

E’ grazie alle battaglie e gli ideali forti del MAS, del PC cubano, del PSUV che si vanno rafforzando strutture, settori e modelli economico-produttivi e commerciali dell’ALBA e sempre più progetti che mettono al primo posto la lotta contro la povertà e l’esclusione sociale, come le esperienze della CELAC, dell’UNASUR e dello stesso MERCOSUR.

R.M. Grazie a questa ricchezza politica, infatti, si continuano a diffondere in tutta Nuestra America le pratiche dell’economia locale popolare con modi di produzione pianificati e socializzati, con un commercio equo e solidale, anche in forme differenziate e a volte come esperienze sperimentali di auto imprenditorialità e imprenditorialità sociale che si accompagna ad un vero cooperativismo solidale, compartecipato.

Il principio che guida l’ALBA è quello di una maggiore solidarietà e complementarietà tra i popoli dell’America Latina e dei Caraibi, che si rifà al pensiero di Josè Martì, di Bolivar, di Tupac Katari e tanti altri grandi rivoluzionari. Lo scopo è la trasformazione delle società della Nuestra America indo-africana, con l’abolizione delle disuguaglianze sociali e un intervento di miglioramento della qualità della vita attraverso la redistribuzione di reddito e ricchezza e la socializzazione dei mezzi di produzione.

Così si può comprendere perché le trasformazioni che hanno avuto maggior successo in America Latina si sono avute nel triangolo della speranza dell’umanità di Cuba, Venezuela e Bolivia, dove movimenti politici di base diretti da grandi leader rivoluzionari hanno una chiara strategia anticapitalista, socialista, governando ad esempio non solo per la difesa dello Stato sociale, non con il semplice “no” alle privatizzazioni ma con l’abbattimento della proprietà privata dei mezzi di produzione e quindi per esercitare il potere politico.

Prima iniziavamo a parlare di Grecia. La sinistra europea, dimostrandosi anche in questo caso facile preda per isterismi di sorta, continua a dividersi sull’operato del governo di Syriza, non considerando che vincere le elezioni non significa automaticamente avere il potere politico. Il dissenso in Grecia, anche fra i proletari, è forte e non vi è una oggettiva preparazione politica e militante in grado di permettere uno strappo rivoluzionario. L’esecutivo di Tsipras ormai sconfitto e dimissionario, anche prima del referendum, era pienamente consapevole di ciò; colpa oggettivamente imputabile al governo ellenico è piuttosto quella di essersi dato una linea si radicale ma senza strategia, troppo generica e a tratti confusa. Parlare di “rottura con l’euroliberismo” è senz’altro un segno forte di discontinuità con i governi greci precedenti e con i governi a varia maniera comunque neoliberisti dell’Eurozona, ma non sufficiente. L’esito dei negoziati riflette per molti tratti questa debolezza, questa incapacità di teorizzare una rottura diffusa dell’Unione Europea e dell’Eurozona.

La colpa (se di colpa si può parlare) è solo della sinistra greca o va individuata nell’assenza di una strategia alta della trasformazione post-capitalistica nell’intera Europa?

L.V. Il governo greco di Tsipras, come anche tu evidenzi, ha avuto fin dall’inizio un connotato riformista eurocompatibile, e queste sono le fondamentali colpe di assenza di strategia di classe e rivoluzionaria; e in tal senso Tsipras non ha sicuramente tradito il proprio elettorato, al contrario di come molti a sinistra hanno detto, ma ha scelto una diversa opzione politica, e così, pur avendo anche pagato sicuramente l’isolamento politico, si è impantanato nella gestione di interessi enormi affinché la Grecia rimanesse nell’Eurozona (“la loro uscita sarebbe potuta essere un cattivo esempio per l’intera Europa”- parafrasando Mario Draghi).

Ciò che pesa maggiormente nelle scelte di Tsipras è però proprio la mancanza di coraggio per la rottura in una prospettiva strategica rivoluzionaria e quindi di determinazione politica di lungo respiro, pur se logicamente si fosse stati costretti a compromessi, ma che dovevano restare tattici e non di rinuncia alla strategia anticapitalista, antimperialista e quindi di necessaria fuoriuscita dall’Eurozona. Ma stiamo ipotizzando ciò che Tsipras non è mai stato, né mai ha voluto essere, in quanto per scelta già iniziale eurocompatibile, cioè convinto di poter perseguire un impraticabile euro riformismo, nel senso generale di possibilità di riformare la UE poiché irragionevolmente convinto della riformabilità di questo capitalismo.

Abbiamo sempre sostenuto già in tempi certamente non sospetti, oggi è semplice davanti alla resa di Tsipras e le dimissioni del suo Governo, che in Grecia, ma ciò vale per tutti i Paesi dell’Europa serve un programma di classe alternativo che permetta di superare il marasma sociale ed economico in cui si trovano i proletari europei. Syriza a modo suo ci ha provato ed è riuscita ad individuare molte delle contraddizioni capitalistiche implicite nei meccanismi di accumulo di debito, ma ciò non è sufficiente. Individuare le contraddizioni è inutile se non ci si muove per superarle.

Gli strumenti più adeguati per l’uscita dalla crisi oggi devono mirare a una socializzazione crescente dei mezzi di generazione della ricchezza sociale; ribadiamo non serve solo governare ma una strategia di lungo respiro per giungere al potere politico e saperlo gestire negli interessi di classe.

R.M. E’ per questo che bisogna realizzare lotte che si muovano sul terreno della rottura della gabbia del polo imperialista europeo e non bisogna neppure avere la paura di paventare un’uscita dall’Euro; Tsipras avrebbe dovuto invece di sedersi a trattare al contrario mirare a far saltare il tavolo.

L’uscita dall’Euro, specie per i Paesi del Sud Europa, non è una condizione sufficiente, ma sicuramente un passaggio necessario verso la costruzione di un sistema alternativo, come ad esempio percorrere nelle lotte il cammino per l’ALBA euro-afro Mediterranea. Dobbiamo partire, in Grecia e altrove, dal presupposto dell’irriformabilità dell’Unione Europea e dell’incompatibilità fra l’idea di Europa uscita dai Trattati europei (Maastricht su tutti) e quella della redistribuzione sociale della ricchezza, quando addirittura i Trattati affossano la stessa visione keynesiana e lo Stato sociale.

Se non si adotta questo spirito in Europa e in particolare in quella del Sud, non avremo mai nessuna possibilità di rompere con il progetto imperiale europeo e di porre le basi per una nuova area politica che metta al centro la complementarietà, la solidarietà di classe contro le leggi del profitto, quindi in contrapposizione alla competitività di questa gabbia dell’Europolo.

Capisco ciò che sostenete, ma mi è meno chiaro capire cosa bisognerebbe fare per rendere l’uscita dall’Euro condizione sufficiente e non soltanto necessaria. Come si dovrebbe procedere?
R.M. Prima di tutto è irrinunciabile perseguire da subito la costituzione di un sistema monetario e finanziario alternativo all’Euro e alla globalizzazione neoliberista. L’alternativa monetaria e finanziaria per i Paesi della periferia europea è incompatibile con il Mercato Unico di stampo imperialista e deve passare necessariamente per un’integrazione crescente, solidale e complementare sia economica che sociale, dando importanza centrale e qualificazione alle istanze dei lavoratori e delle loro organizzazioni politiche e sindacali conflittuali e rivoluzionarie come avviene oggi nei paesi dell’ALBA.

Non abbiamo quindi timore nel dire ad esempio che la nazionalizzazione delle banche è fondamentale nel processo complessivo per contrastare l’aumento del tasso di profitto a danno dei lavoratori. Solo attraverso la nazionalizzazione della banca potremo finanziare le attività socialmente utili, guardando ad esse con criteri di rendimento sociale e non più meramente del profitto economico. Non è solo un discorso di cambiamento socioculturale: sul piano economico la nazionalizzazione consente in una situazione d'insolvenza di evitare le fughe di capitali.

Non è neppure sufficiente la sola nazionalizzazione delle banche: non riusciremo a produrre ricchezza sociale da redistribuire ai lavoratori senza passare dalla nazionalizzazione dei settori strategici, fra cui l’energetico, le comunicazioni, i trasporti. Solo in questo modo potremo dare un’opportunità lavorativa vera, a pieno salario e pieni diritti ai milioni di disoccupati e precari della periferia mediterranea, schiacciati dalle regole di sfruttamento aggressivo di questo euro-capitalismo in crisi.

L.V. Per rispondere in maniera decisamente in controtendenza alle politiche imperiali della Troika serve obbligatoriamente una strategia internazionalista di classe coordinata e concertata fra i paesi del Mediterraneo, ed è altresì necessaria una comune pianificazione socio-economica d'impronta politica socialista che sappia fissare una politica economica con chiari obiettivi e strategie di classe di breve, medio e lungo termine: sulla base di quanto detto prima, ad esempio la nazionalizzazione delle banche è un passaggio fondamentale per conseguire obiettivi di medio-lungo periodo, mentre nel breve l’opportunità e l’urgenza storica richiedono la nazionalizzazione dei settori strategici e la creazione di nuovi posti di lavoro liberi dallo sfruttamento capitalistico.

Complessivamente credo che i passaggi necessari per un’uscita in forma concertata dall’Euro verso la costituzione di una nuova area siano cinque: da una prima fase di determinazione di una nuova moneta comune (anni fa la chiamammo LIBERA in quanto svincolata dai diktat monetari, una sorte di SUCRE Mediterraneo inizialmente con carattere di moneta di conto compensativa); a una rideterminazione del debito nella nuova moneta comune; fatto ciò dovremmo passare alla terza fase immediata con la cancellazione del debito illegittimo per poi  rinegoziare quello residuo (come anni fa ha proceduto il Presidente Correa in Ecuador) e, infine,una quarta fase per nazionalizzare le banche controllando i mercati finanziari al fine di evitare fughe di capitali; per poi giungere alla  quinta fase di nazionalizzazione dei settori strategici a partire dalle aziende dei servizi a rete, trasporti, energetico, telecomunicazioni e il recupero delle aziende in crisi a causa dei processi di ristrutturazione industriale o di innovazione tecnologica a causa della competizione internazionale a livello microeconomico di impresa o macroeconomico settoriale; camminando così verso la socializzazione dei mezzi di produzione in percorsi di transizione verso il socialismo.

Nazionalizzazione e programmazione, pianificazione, insomma. Scusate, ma non credete che qualcuno potrebbe obiettare criticando questo approccio come eccessivamente “vetero-marxista”?

R.M. Non capirei sinceramente quest’accusa. Processi di nazionalizzazione e programmazione si mettono in campo ogni giorno e non solo nei Paesi a economia socialista. Non si sarà trattato di socializzazione ma sono state realizzate politiche di programmazione economica e molte nazionalizzazioni anche nell’Italia degli anni sessanta e primi settanta, e senza il consistente intervento pubblico degli anni passati neppure nell’Europa imperialista sarebbe stato possibile salvare il sistema bancario. La nostra proposta di estrema attualità politico economica di nazionalizzare le banche è volta esclusivamente a eliminare quell’odiosa tendenza del capitalismo in crisi a socializzare le perdite e privatizzare i profitti. Se i Paesi della periferia europea desiderano ritornare al controllo sull’attività produttiva questo lo possono realizzare soltanto in maniera congiunta e mediante un processo di rottura con il modello della finanza privata e dello spazio monetario asimmetrico vigente.

È necessaria però una generale applicazione di un pianificazione socio-economica a partire da incisive riforme strutturali di redistribuzione della ricchezza e di investimenti pubblici, un piano industriale e una capacità di un nuovo movimento dei lavoratori organizzato che proponga tali rivendicazioni nell’ambito di lotte come quelle portate avanti ad esempio in America Latina per andare al governo e prendere il potere politico.

L.V. Per quanto riguarda la programmazione economica quest’eventuale critica risulta ancora più assurda. Spesso molti soggetti che si arrogano il diritto di essere espressione della sinistra cosiddetta alternativa o radicale usano proprio simili argomenti per nascondere le proprie responsabilità politiche e per continuare a portare avanti inutili ricette keynesiane di un'impossibile riformabilità del capitalismo e quindi di una  UE dal “volto umano“ nell’illusoria idea di un'Europa dei popoli (è questo, in Italia, il caso della minoranza del Partito Democratico, ma anche di formazioni politiche che si collocano formalmente a sinistra dello schieramento di maggioranza, e non solo in Parlamento).

Il keynesismo si è accompagnato al sistema fordista-taylorista come ammortizzatore sociale con forme di redistribuzione dei reddito in un determinato contesto storico politico, economico, produttivo, stante un determinato rapporto di forza nel conflitto capitale - lavoro più favorevole a quest’ultimo sul piano internazionale e nazionale.

Oggi si presentato altre forme di keynesismo, con connotazioni diciamo così di contesto, come quello che si può definire Eurokeynesismo, con:

- Keynesismo del privato, con il quale viene garantito pieno sostegno con denaro pubblico alle imprese private e al sistema bancario;

- Keynesismo militare, già visto nella seconda guerra mondiale, e che anche oggi mira al sostenimento della domanda pubblica dell’apparato industriale militare e poi dell’indotto e sostiene l’economia di guerra e la variante della guerra economica;

- altre forme difficili da etichettare, come ad esempio il sostenimento della domanda attraverso una sorta di keynesismo criminale, cioè il fatto che l’economia criminale venga messa quasi a produzione o comunque utilizzata come una parte del PIL; ma ciò vuol dire drogare la ricchezza complessiva senza aumento della ricchezza reale accompagnando così improduttivamente  e in forma criminale legalizzata tutto ciò che si realizza a rendita da capitale fittizio e improduttivo.

In tale contesto è davvero assurdo come una certa sinistra in Europa non capisca la necessità della programmazione economica se non della pianificazione socio-economica; le multinazionali come tutte le altre imprese fissano continuamente obiettivi e strategie a uno, due, cinque, dieci anni, ecc: in poche parole pianificano continuamente la loro attività.

Il punto non è accettare e praticare o meno la pianificazione in quanto tale, ma la capacità di programmare la politica per il governo dell’economia e fissare obiettivi a beneficio dei bisogni complessivi dei lavoratori anziché dei profitti, in processi reali di transizione al socialismo.

I popoli dell’ALBA fanno parte di una sorta di koinè, accomunati da uno stesso linguaggio, stessa storia di sfruttamento coloniale e imperialista e approssimativamente stesso ruolo nella divisione internazionale del lavoro. Fra le sponde del Mediterraneo, al contrario, convivono istanze totalmente diverse. I popoli del Sud Europa, dell’Africa settentrionale e dell’Asia Minore condividono molti aspetti comuni, ma è altresì vero che fra quei popoli sussistono anche abissali differenze, prima di tutte un’identificazione ancora forte fra popolo e nazione di appartenenza. Permangono enormi differenze linguistiche e non bisogna trascurare la diversa destinazione economica delle aree considerate: il Sud Europa ha avuto un passato e ha un presente di riserva di valore lavoro e valore merce per le aree maggiormente sviluppate del Nord, mentre l’area afro-asiatica (al netto dell’eccezione israeliana) ha avuto come ruolo peculiare quello di approvvigionamento di risorse energetiche e di materie prime, in virtù di un passato coloniale e un presente imperialista non cancellabile.

In poche parole, anche in virtù di fattori storico-culturali non trascurabili, risulta molto più difficile pensare a un’unità politica ed economica fra un andaluso e un libico piuttosto che fra un venezuelano e un boliviano. Come credete si possa superare questo problema?


R.M. Gli assetti e le dinamiche della geoeconomia e la geopolitica internazionale sono del tutto cambiati rispetto a qualche decennio fa e anche i fattori storici culturali fortunatamente sempre più si contaminano vicendevolmente.

Nella lunga fase espansiva il modello fordista-keynesiano ha permesso la crescita quantitativa del capitale, ma nella fase neoliberista è anche vero che la finanziarizzazione dell’economia, le privatizzazioni forzate, l’attacco ai diritti e al costo del lavoro, al salario diretto, indiretto e differito in tutte le sue forme, non ha potuto risolvere questa crisi attuale proprio perché è crisi sistemica, che determina sicuramente la fine del predominio del capitalismo e imperialismo statunitense, non offre prospettive di recupero all’Europolo e allo stesso tempo preannuncia la fase terminale del sistema capitalista stesso, perchè le possibilità di accumulazione reale del sistema hanno raggiunto il loro limite.

Nonostante il sempre più evidente accentuarsi della competizione globale della crisi sistemica, sicuramente il capitalismo statunitense, per una fase più o meno lunga, potrà restare ancora un attore importante, ma si sta realizzando la fine di un ciclo politico, in cui gli USA non hanno più una posizione dominante rispetto ad altri centri di potere come l’Europa, la Russia, la Cina, l’India, il Brasile che stanno imponendo, anche se in maniera diversificata, nuove forme di potere politico del capitale che accompagnano la natura sistemica della crisi di cui si è detto in precedenza, e poi c’è la “fastidiosa impertinenza“ della esperienza antimperialista e anticapitalista dell’ALBA di Nuestra America.

E’ forte in noi, al contempo la convinzione politica strategica che in America Latina non è solo in corso un processo di integrazione e di autodeterminazione, ma oggi è proprio nella Nuestra America di Martì, di Bolivar, di Che Guevara, di Tupac Katari che è il livello più alto del conflitto internazionale capitale-lavoro.

La vittoria di importanti processi rivoluzionari in corso non hanno solo connotati antimperialisti ed antiliberisti con una caratterizzazione fortemente di classe ma al contempo presentano tutti i contenuti, diversificati e contraddittori, propri della transizione socialista; ciò avviene a partire dal ruolo di vari dinamici movimenti di classe e dal riferimento fondamentale del Partito Comunista cubano.

E allora perché non si chiude questo secolare eurocentrismo oggi molto in voga anche nella sinistra salottiera e ridicolamente riformista e non si deve guardare con gran interesse, attenzione e simpatia alle esperienze rivoluzionarie e a quelle progressiste reali dell’America indo-africana ?

E perché una costruzione democratica partecipativa antimperialista e anticapitalista portata avanti dalle lotte dei lavoratori e dei movimenti sociali non deve guardare alla grande esperienza dell’ALBA di Nuestra America?  Non si tratta di imitare o importare modelli, ma semplicemente di ragionare dialetticamente secondo le leggi del materialismo storico, quindi nell'evolversi delle dinamiche della lotta di classe.

L.V. Non è un caso che vivo è il dibattito in Venezuela, Bolivia e dove le fasi della transizione hanno raggiunto un punto più avanzato, anche se con le contraddizioni che oggettivamente un processo rivoluzionario comporta. E il dibattito in tema di transizione rimane più alto e articolato nella Cuba socialista rivoluzionaria, dove queste dinamiche oggi vengono analizzate, studiate e, per alcuni versi, riprodotte nelle diverse forme che assume la pianificazione dell’economia come risposta forte e attuale alla crisi sistemica del capitalismo.

Ecco perchè l’analisi teorica e il nostro agire politico si realizza ora e qui in Italia e in Europa, con la dimensione dell’internazionalismo di classe. Ciò avviene in termini di prospettiva reale, praticando esperienze politiche di classe come parte di una dimensione internazionalista dell’anticapitalismo e delle ipotesi di transizione socialista già in campo in varie parti del mondo.

Diventa perciò, nonostante le naturali contraddizioni dei processi in atto, sempre più chiaro che nella Nuestra America indo-africana è in atto una vera offensiva, e non resistenza, delle forze di classe contro il capitalismo e nella costruzione delle dinamiche della transizione al socialismo, e quindi del Socialismo nel e per, e del XXI secolo.

Bisogna capire la concretezza di un processo reale e complesso, a cui la sinistra di alternativa italiana ed europea è chiamata a dedicare assolutamente più studi collettivi, più convinto impegno politico, e non come spesso avviene solo con una dichiarata solidarietà che però rimane di facciata.

Per costruire i percorsi per l’ALBA euro-afro-Mediterranea, abbiamo oggi certamente l’esigenza di avviare e mantenere aperto il dialogo ed il confronto con tutte le organizzazioni di classe, proprio perché ci sentiamo parte della dimensione internazionale del movimento rivoluzionario anticapitalista.

Non capire questo e quanto ciò ci riguarda direttamente qui ed ora, significa non avere la cognizione nemmeno della partita che è in gioco, di quale è la nostra concreta pratica della proposta politica per il superamento del modo di produzione capitalista. Ecco la risposta non solo teorica, ma derivata dalla concretezza materiale della dinamiche della lotta di classe, al come contestualizzare la proposta dell’ALBA euro-afro Mediterranea in relazione ai percorsi di transizione.

Un’alternativa mondiale, e quindi anche europea, per la trasformazione radicale deve essere un progetto che contenga un significato transnazionale, con da subito una strategia che si muova in un orizzonte capace di determinare processi politici che, anche nei momenti rivendicativi tattici, abbiano sempre chiara la strategia politica per il superamento del modo di produzione capitalista e di costruzione del socialismo possibile; possibile perché le tappe della costruzione del socialismo devono sempre considerarsi   in relazione ai rapporti di forza presenti, certo modificabili e da modificare, ma tenendo conto sempre di dove si è e come si sta concretamente nella situazione, quali sono le condizioni oggettive e la forza delle soggettività in campo del momento nelle dinamiche dello scontro di classe.

Il Socialismo, con la S maiuscola, non è questione di bandiere, ma di un divenire in processi politici lunghi, completi, a tratti contraddittori.

Ecco perché oggi nel momento in cui si riprendono le fila della necessità storica del socialismo ci troviamo di nuovo da subito a proporre di subordinare l’economia alla politica, stiamo mettendo un freno al processo di mondializzazione che non può che portare a un certo punto attraverso la soggettività rivoluzionaria che sovverte i rapporti di forza, a un superamento del modo di produzione capitalista verso l’affermazione del Socialismo.

Oggi continuiamo un cammino mai interrotto, ma che certo ha visto e vede difficoltà enormi anche per nostri gravi errori e limiti anche strategici, e per la colpa di chi volutamente ha imposto al movimento di classe che alcune tattiche si siano scientemente trasformate in strategie per la cogestione e la piena internità alle regole e ai voleri imposti dalle leggi del modo di produzione capitalista.

La sinistra in Italia e in Europa è molto frammentata, si sa. Così, mentre da una parte potrebbero piovere critiche sull’approccio troppo spinto su nazionalizzazione e programmazione, dall’altro lato qualcuno potrebbe obiettare che questa proposta di ALBA euro-afro Mediterranea risulta velleitaria rispetto al piano alto della trasformazione sociale, ossia per quanto riguarda il superamento del capitalismo e la costruzione del socialismo.

R.M. L’interpretazione delle contraddizioni del capitalismo come un processo lineare che avanzi verso il socialismo, attraverso tappe della sua crisi generale, non concorda con la pratica.

E’ su tali basi che a differenza di molti marxisti “da salotto”, o di chi si definisce marxista ma opera a supporto del sistema capitalista, noi da tempi non sospetti (da oltre 20 anni fa) definiamo la crisi del capitalismo come strutturale e che si è poi trasformata in sistemica.

Ma tutto ciò ha a che fare con una visione immediata di fine del capitalismo per “autodistruzione”? Non davvero, perché il sistema capitalista troverà ancora delle modalità attuative dei capitalismi per far sopravvivere il modo di produzione capitalista; e ciò perché la transizione ad un sistema politico economico altro, presuppone non solo l’esplosione dell’oggettività in cui si presenta la crisi, ma la presenza politica organizzata della soggettività di classe, che può indirizzare verso i percorsi reali di trasformazione radicale.

Questa proposta tutta politica prima che economica dell’ALBA euro-afro-mediterranea non si è prefissa aprioristicamente il conseguimento del Socialismo. Sono proprio certe rigidità ideologiche ad averci portato a una frammentazione e a un’incapacità della sinistra di classe di rappresentare gli sfruttati. Ciò non toglie nulla al fatto che il Socialismo nel XXI secolo sia possibile e necessario; la nostra proposta di una nuova area fra le sponde del Mediterraneo mira a uno sviluppo sociale complementare e solidale, ma pur sempre in un’ottica di una comune strategia politica a carattere socialista.

L.V. Le alleanze politiche del mondo del lavoro devono affrontare una sfida storica. Anche in questo caso è chiaro ad esempio che la Grecia da sola non ce la può fare ma ha bisogno del supporto di un’area, di un sistema bancario nazionale, della nazionalizzazione dei settori strategici, di una nuova moneta di conto perlomeno per la compensazione interna (più o meno lo stesso percorso attuato nei paesi dell’ALBA, processi di transizione verso il socialismo che ora da noi viene indicato come esempio di alleanza prima politica ed economica). 

Necessariamente ormai l’unica via è dire NO!!! all'Unione Europea e uscire dall’euro, ma non con per tornare alle monete nazionali o ad un nazionalismo di carattere fascistoide e profondamente incarnato in un razzismo di classe, ma attraverso un’ipotesi che parta dal basso nell’internazionalismo proletario, nella logica dell'alleanza politica per il socialismo, partendo dalla cooperazione fra sfruttati, dalla solidarietà di classe, dalla complementarietà produttiva, che includa il Nord Africa e l’Est Europa in cui si è trasferito il fordismo, in modo da integrare risorse primarie ed energetiche, fordismo e servizi e gestione popolare di tutti i beni comuni con nazionalizzazione e per la socializzazione dei mezzi di produzione.

Proprio per questo motivo, è necessario guardare al passato nell’analisi dell’evoluzione storica del Socialismo nel ventesimo secolo, che ha approntato modelli di organizzazione economica funzionali ma s’è anche imbattuta, in diversi casi, con alcune contraddizioni irrisolte della pianificazione socialista.

Fra tali questioni c’è quella del sistema di direzione dell’economia socialista e dell’uso delle categorie mercantili, come strumento per la transizione dal capitalismo al socialismo.

Le sfide del Socialismo nel XXI secolo, che si confrontano con un capitalismo aggressivo, alle prese con una crisi sistemica ultraquarantennale e con la strategia della guerra imperialista, sono complesse, soprattutto perché bisogna riprendere – dopo il 1989 – il percorso di costruzione della società socialista in un mondo in cui i riferimenti internazionali tradizionali sono venuti meno e i rapporti di forza sono decisamente sfavorevoli al movimento internazionale della classe che vive, o vorrebbe e dovrebbe vivere di lavoro.

In tutti i casi la fuoriuscita dall’euro e dalla UE rappresenterebbe già da subito, qui ed ora come si dice, un’opzione di attacco al sistema del capitale europeo, confermando comunque l’intenzione politica di mettere in discussione immediatamente le istituzioni comunitarie, con un progetto completamente alternativo, di rottura, rivoluzionario che è inevitabile si debba mantenere e anzi rafforzare nel tempo inglobando i paesi dell’Africa Mediterranea e dell’Est Europeo nella iniziale area alternativa che vede insieme i paesi della periferia europea.

E’ appunto in questa accezione ampia che identifichiamo l’ALBA euro-afro-mediterranea.

Ed è proprio il materialismo storico e quello dialettico, che ci fanno capire che fasi storiche con contesti internazionali diversi e quindi con condizioni socio-economico-produttive tipiche del momento, determinano percorsi mutevoli della transizione che devono essere interpretati dentro le dinamiche di contesto, non come validi sempre e comunque non associabili in differenti contesti.

E’ per questo che il marxismo è una scienza vera e completa al servizio dell’umanità, perché sa leggere ed interpretare i fenomeni sociali, politici ed economici, le loro tendenze per trasformarle in movimento capace di superare radicalmente lo stato presente delle cose, nella costruzione del Socialismo nel e per il XXI secolo.

* Collettivo di Economia dell'università La Sapienza, Roma

da http://www.nuestra-america.it/index.php/it/iniziative/item/1216-“chi-dice-che-è-impossibile-non-dovrebbe-disturbare-chi-lo-sta-facendo”albert-einstein

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