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24/08/2015

Il caso Levato ed il bambino negato

Chi segue questo blog sa che di solito dedico il lunedì ad un editoriale sulla politica interna, ma questa settimana faccio una eccezione, sia perché, data la pausa ferragostana, c’è poco da dire, sia perché c’è un caso che ritengo molto importante sul piano del costume e della civiltà giuridica, e che mi ha molto toccato.

Il caso è quello del bambino di Martina Levato e di Alexander Boettcher, la coppia ”dell’acido”, i due che hanno aggredito (per ragioni che non abbiamo ancora capito) una serie di giovani spruzzandogli acido corrosivo sul volto. I due sono stati condannati in primo grado ad una lunga pena detentiva (14 anni) e sono in attesa di appello, ma, nel frattempo è nato il piccolo che l’Autorità giudiziaria ha immediatamente separato dalla madre, aprendo le procedure di adozione, salvo autorizzare successivamente un momentaneo contatto fra madre e bambino, ma con divieto di allattamento, “per non far sorgere il vincolo affettivo”.

La consultazione on line del “Corriere della Sera” (per quel che valgono questi sondaggi) ha approvato il comportamento dei magistrati con il 79% contro uno scarso 21%. Ovviamente, il caso ha scatenato molti commenti sui social, che sono un interessante test di quello che pensano gli italiani.

Ragioniamo freddamente: qui abbiamo tre ordini di posizioni giuridiche in contrasto fra loro, ma che dobbiamo contemperare e disporre in ordine di importanza:

1. i diritti del bambino, che non è una cosa, ma è portatore di diritti soggettivi dal primo momento della nascita. Essendo ancora incosciente, naturalmente, non è in grado di adire il foro, questo spetterebbe ai suoi genitori che, però, potrebbero trovarsi in posizione tale da configurare un conflitto di interessi, per cui, direi che spetta ai nonni costituirsi come rappresentanti dei diritti del minore.

2. I diritti dei due genitori, che non perdono la loro qualità per il solo fatto di essere condannati (peraltro in primo grado) per un grave reato e che, peraltro, hanno diritto (nonostante l’evidenza della loro colpa) ad essere considerati innocenti sino alla sentenza definitiva passata in giudicato. E, per di più, anche in caso di condanna, avrebbero diritto ad una pena “non contraria al senso di umanità” (come previsto dall’art. 27 della Costituzione) ed orientata alla loro rieducazione.

3. La certezza della pena irrogata in ragione del loro delitto.

In questo quadro, bisogna stabilire una gerarchia che dica quale sia il diritto che prevale sugli altri ed ovviamente gli interessi del bambino prevalgono su ogni altra cosa, sia perché si tratta di un soggetto in una condizione che esige la massima tutela, sia perché, non avendo alcuna colpa, non può essere penalizzato per il comportamento dei suoi genitori. Pensare di usare il neonato come strumento per una punizione ulteriore dei due sciagurati genitori è una aberrazione giuridica ed un comportamento umanamente abietto.

Quali sono gli interessi del bambino? Qui il discorso si fa delicato.

In linea generale è ovvio che il diritto principale è quello di crescere con i propri genitori naturali. Si tratta di un diritto soggettivo assoluto per il quale lo Stato deve astenersi da qualsiasi comportamento negativo, salvo che la convivenza con i genitori naturali possa essere fonte di danno. Ad esempio, se si teme che la madre possa avere manie omicide o che possa dargli una educazione gravemente distorta o possa trasmettergli gravi malattie ecc. oppure che questo lo esponga a gravi traumi psichici.

A quanto pare, le perizie psichiatriche sui due genitori hanno appurato che sono pienamente in grado di intendere e di volere e, proprio per questo, hanno avuto una pena particolarmente severa (anche se continuiamo a chiederci per quale maledetto motivo possano aver fatto cose così orribili); nulla ci dice che la madre abbia manie omicide o, quantomeno, non c’è un a perizia psichiatrica che lo adombri; quanto alla capacità educativa vediamo come se la cava, la condanna o anche il reato di per sé non dicono che la donna sia automaticamente inidonea ad educare un figlio. In fondo ci sono numerosissimi casi di ogni sorta di criminali che, però, sono stati genitori irreprensibili.

Ho letto un articolo del Corriere che attribuiva ai magistrati un giudizio per il quale i due genitori (nello specifico la madre) non sarebbero in grado di educare il bambino perché ”non sono pentiti di quello che hanno fatto”. Se questa frase fosse vera, significherebbe che un magistrato della Repubblica, di fronte a dei condannati di primo grado, non solo dà per scontata la condanna definitiva, ma ha già stabilito che i rei non sono neppure pentiti, ed orienta le sue decisioni sulla base di questi pre giudizi. Non posso credere che un magistrato possa aver detto una castroneria del genere, per la quale il Guardasigilli dovrebbe avviare subito azione disciplinare: preferisco pensare che al solito i giornalisti capiscono male, forzano il senso delle parole, riferiscono a modo loro. Dunque, facciamo conto che questa frase non sia stata mai detta.

C’è, però, un aspetto che può indurre a perplessità e che, personalmente, mi ha fatto inclinare in un primo momento, a favore della decisione dei magistrati: il bambino potrebbe vivere con la madre in regime carcerario attenuato sino ai sei anni, dopo dovrebbe essere separato. E qui sorge il dubbio che da questa rottura in una età delicatissima, quando il minore ha già piena coscienza, possa derivare un trauma ancora peggiore di quello che potrebbe esserci ora, con un essere umano senziente ma non cosciente (quantomeno nel senso che comunemente diamo alla parola). Questo è un aspetto che merita riflessione, ma su questo credo si debba lasciare la parola agli psicologi.

Dunque, salvo questo singolo aspetto, peraltro non proprio irrilevante, non vedo ragioni per le quali lo Stato possa intervenire di fronte ad un diritto soggettivo di questo peso.

Ovviamente una soluzione perfetta non c’è ed il bambino, in un modo o nell’altro, riceverà un danno da questa situazione, si tratta di trovare la soluzione che lo danneggi meno.

In secondo luogo, fra l’esecuzione della pena (giustissima, perché il delitto è grave) ed i diritti soggettivi dei condannati, prevalgono questi ultimi. In primo luogo, perché non esiste una pena aggiuntiva come la perdita della genitorialità, può esserci la decadenza della patria podestà, ma questo non determina una negazione assoluta del diritto-dovere derivante dalla genitorialità. Tanto il bambino quanto i genitori hanno diritto all’affettività e, se non c’è un gravissimo e comprovato motivo che imponga una separazione come quella prospettata, non si capisce sulla base di cosa si possa negarlo. Con tutto il rispetto per la Ag, trovo poi fuori del mondo il divieto di allattamento: siccome in qualche modo il bambino dobbiamo allattarlo e non si capisce perché occorra farlo artificialmente se la madre è in condizione di farlo, che succede se una giurisdizione di appello, la Cassazione o la Corte Europea (ricordiamoci che c’è una Corte europea e che i suoi orientamenti sono molto più garantisti di quelli della nostra magistratura) annullano questa decisione, magari dopo due anni?

Il bambino avrebbe ricevuto un ingiusto danno ed avrebbe ragione di (o meglio, i suoi rappresentanti legali potrebbero) chiedere un adeguato risarcimento. E, poi, il padre sarà quel che sarà, non discuto, ma ha diritto a conoscere il figlio, perché proibirglielo? Hanno paura che possa allattarlo?

Si dimentica, poi che, pur sempre (nonostante l’evidenza dei fatti) i due possano uscire assolti – magari per un difetto procedurale – fra due o tre anni: che si fa in quel caso con un bambino già adottato da altri e su un presupposto poi falsificato? Anche io non mi aspetto che i due possano essere assolti, ma intanto esiste un articolo 27 della Costituzione che, a mio modesto avviso, rende illegittime una serie di decisioni che danno per scontata la conferma della condanna in tutti i gradi di giudizio. Qui ci stiamo dimenticando che si tratta di detenuti in attesa di giudizio e la loro detenzione ha carattere cautelare, non è un inizio di pena. Magari potrebbero emergere circostanze attenuanti (non ne immagino ma può sempre succedere) o che i danni patiti dalle parti lese siano meno gravi o altro, per cui la pena è ridotta e magari sensibilmente e questo potrebbe riproporre la questione dell’affidamento del bambino. Come la mettiamo?

Infine, la rieducazione dei detenuti: vi sembra questo il modo migliore per cercare di rieducare qualcuno? Magari è proprio la genitorialità quello che può cambiare la testa di questi due sciagurati.

Un’ultima considerazione sulla reazione dell’opinione pubblica che è stata semplicemente bestiale: nessuna considerazione per i diritti del bambino e meno che mai per quelli di due persone che, quale che sia la loro colpa, restano esseri umani e cittadini di questa Repubblica. L’unica cosa che ha interessato è stata l’esecuzione della pena, quello che Hegel chiamava la “vendetta della società” sul colpevole. Una ondata di barbarie da fare vergogna, persino l’idea di usare un neonato come strumento di punizione.

Garantismo e senso di umanità ormai sono parole senza senso. Questi sono i frutti di quel populismo giudiziario seminato in questi anni, di quella cultura manettara con cui troppi hanno giocato, dimenticando quanto possa essere pericoloso vellicare certi istinti animaleschi della bassa plebe (e per essa intendo non quella a basso livello di reddito, ma quella a basso livello di civiltà).

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