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23/04/2015

L'unità palestinese, un sogno tramontato?

di Abdalhadi Alijla*

(traduzione di Romana Rubeo)

Circa otto anni fa, la Striscia di Gaza è stata interessata da violenti scontri tra fazioni opposte della popolazione palestinese. Da una parte, Hamas e il Movimento Islamico, dall’altra Fatah e le Forze dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Oltre ad aver causato diverse migliaia di vittime, tra cui giornalisti, accademici, militanti e leader politici, la crisi si è risolta in un disastro politico paragonabile alla Nakba del 1948, che vide i Palestinesi cacciati dalle loro case e dalle loro terre.

Hamas, primo partito alle elezioni politiche del 2006, non è riuscito a governare a causa degli ostacoli di natura finanziaria e politica, posti lungo il cammino del suo governo. All’epoca, la comunità internazionale e il Quartetto per il Medio Oriente (Russia, Stati Uniti, Unione Europea e Nazioni Unite) avevano chiesto a Hamas il riconoscimento di Israele e la rinuncia a qualsiasi azione violenta, in cambio del pagamento dei salari dei funzionari dell’ANP, che erano in massima parte membri o attivisti di Fatah e dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Nel 2007, in seguito alle continue provocazioni da parte di un particolare organismo dell’ANP, le forze di sicurezza guidate da Mohammed Dahlan, uomo di Fatah a Gaza, Hamas ha preso il controllo del territorio con la forza, uccidendo decine di membri di Fatah, e usando ogni arma possibile per destituire gli organismi dell’ANP e assumere un controllo totale sulla Striscia di Gaza.

PER MOLTI ANNI, Dahlan è stato considerato il nemico numero uno tra le fila di Hamas, come dimostrato dalle numerose dichiarazioni rese tra il 2007 e il 2008, tutte tese a ribadire che l’azione militare era diretta esclusivamente contro Dahlan e i suoi fedelissimi. Purtroppo, Hamas stava mistificando la realtà, ingannando gli arabi e i palestinesi. Nel giro di pochissimo tempo, infatti, ha ucciso decine di persone, membri delle più influenti famiglie di Gaza, oltre a decine di membri dei partiti islamici antagonisti, come i Salafiti e il Movimento per il Jihad Islamico. In definitiva, Hamas ha dimostrato, giorno dopo giorno, di essere interessato al governo su Gaza e non alla lotta contro Dahlan e la corruzione.

Con l’esacerbarsi delle violenze, la Lega Araba, l’Egitto, la Giordania e l’Arabia Saudita hanno svolto un lavoro di mediazione per evitare la catastrofe. Gli esponenti di Fatah, Hamas e delle altre forze politiche palestinesi si sono riuniti più volte, al Cairo e in altre città arabe. Prima del “coup d’état” del 2007, le varie fazioni palestinesi avevano sottoscritto due accordi, finalizzati a una gestione condivisa del potere e alla riforma dell’OLP. Purtroppo il più importante, il cosiddetto “Accordo della Mecca”, fu disatteso dopo meno di un mese: Hamas e Fatah fecero capire chiaramente che non erano intenzionati a condividere il potere. In effetti, Hamas si era reso conto che gli USA e l’UE cercavano di scavalcarlo, nonostante la vittoria elettorale: inviavano fondi direttamente al Presidente Mahmoud Abbas; offrivano sostegno alle forze speciali guidate dallo stesso Dahlan; e, cosa ancora più importante, esercitavano una notevole pressione, inasprendo le condizioni dell’assedio e fomentando la comunità internazionale, riuscendo anche a mobilitare una larga fetta dell’opinione pubblica palestinese contro il Movimento Islamico.

Dopo essere salito al potere, Hamas ha inserito i suoi fedelissimi nelle agenzie di polizia e nei servizi pubblici locali. Ha anche fondato nuove istituzioni governative, con organici e strutture gerarchiche ben definite. La tesi che vede contrapporre Hamas e Fatah sulla base di principi ideologici era accettabile un tempo, ed è stata già ampiamente dibattuta, ma era valida solamente prima del 2007. Da allora, invece, le differenze tra Hamas da una parte, e Fatah e l’ANP dall’altra sono più che altro di natura istituzionale. La configurazione e la gestione della pubblica amministrazione, unita all’ingente numero di dipendenti, impediscono a Hamas di modificare il suo assetto burocratico per venire incontro alle richieste di Fatah e dell’ANP, che chiedono il reintegro dei propri dipendenti.

Il punto è che Hamas non ha intenzione di compromettere il consenso di cui gode ormai solo presso i suoi fedelissimi, dopo i gravissimi errori nella gestione della Striscia e l’insostenibile situazione umanitaria, causata da previsioni errate compiute negli ultimi otto anni. Nonostante la lunga serie di incontri e gli accordi siglati, è chiaro che tra le due parti permane una sostanziale diffidenza, che non si limita a questioni formali, ma che ha radici più profonde. Il desiderio di vendetta sociale che ha spinto i combattenti di Hamas a commettere crimini e a uccidere decine di membri di Fatah, è legata alla natura tribale della società gazawa.

SENZA OMBRA DI DUBBIO, la decisione di formare un governo di unità o di consentire, per la prima volta, a un ministro nominato da Abbas di visitare la Striscia di Gaza, è stata indotta dalla chiusura dei canali che garantivano a Hamas le risorse finanziarie di cui aveva bisogno. Quali sono i fattori che hanno determinato questa situazione?

In primis, la posizione di Hamas rispetto alla situazione siriana: la decisione di voltare le spalle alla Siria, accusando il regime di aver commesso delle atrocità, ha indispettito l’Iran, alleato del regime siriano, che quindi ha smesso di finanziarli. Nel 2002, infatti, quando Hamas si era ritrovato isolato e senza più i fondi provenienti dai paesi del Golfo (in seguito agli attacchi dell’11 settembre) si era rivolto all’Iran, con la mediazione del regime di Assad. L’Iran l’aveva sostenuto finanziariamente, aveva addestrato i suoi uomini e forse persino orientato alcune scelte.

In secondo luogo, il blocco imposto da Israele sulla Striscia di Gaza e la chiusura dei tunnel che la collegavano all’Egitto ha impedito a Hamas di reperire le risorse necessarie al mantenimento del potere, perché non può più guadagnare dalla doppia tassazione applicata sui beni introdotti illegalmente dall’Egitto. La situazione era tale che, per parecchi mesi, Hamas non è stato in grado di pagare gli stipendi ai suoi dipendenti.

Di recente, i toni verso Mohammed Dahlan si sono improvvisamente ammorbiditi. Hamas ha incontrato i suoi uomini e ha consentito la visita di sua moglie nella Striscia. Sono stati addirittura organizzati eventi comuni, tra cui matrimoni di gruppo e giornate per la formazione. Chiaramente, Dahlan ha agito in questo modo per rafforzare la sua posizione contro il Presidente Mahmoud Abbas, suo rivale in Cisgiordania, che l’ha accusato di aver infranto la legge, di essersi reso complice di vari omicidi politici, persino dell’avvelenamento di Arafat. Nel frattempo, però, si assiste a un riavvicinamento tra Hamas e l’Iran, seguito a una serie di incontri, a partire dal mese di agosto 2014.

L’Iran ha interesse a finanziare Hamas, soprattutto la sua ala militare e la frangia più estremista. Al contempo, però, con il cambiamento dell’assetto nella regione, le autorità saudite hanno chiesto a Hamas di entrare a far parte della nuova coalizione sunnita che si sta formando con la partecipazione di Turchia ed Egitto, contro l’Iran, e che è già attiva, con la guerra in Yemen contro gli Houthi.

Se Hamas accettasse, potrebbe ricevere come contropartita il pieno controllo sulla Striscia di Gaza. L’Arabia Saudita potrebbe, infatti, sfruttare le sue relazioni con l’Egitto, gli USA e Israele, a patto che Hamas argini possibili agitazioni a Gaza. L’asse a guida saudita potrebbe persuadere Abbas ad accettare una gestione condivisa della Palestina, rinunciando alla Striscia di Gaza in favore di Hamas. Ovviamente, i Sauditi non sono interessati al futuro del popolo palestinese.

Un altro fattore che compromette l’unità palestinese è la questione legata alla sicurezza e alle milizie armate. Hamas non accetterà mai un eventuale ritorno alle forze guidate dall’ANP, che operavano prima del 2007; d’altro canto, l’ANP e Fatah sarebbero contrari al mantenimento delle milizie di Hamas. Abbas, sostenuto dagli arabi e ovviamente da Israele, mira alla smilitarizzazione di Hamas e degli altri movimenti. In questo campo, non si troverà mai un punto di incontro.

IN BUONA SOSTANZA, la situazione attuale è destinata a restare pressoché inalterata. Il recente appello, rivolto da un consigliere di Abbas alle forze arabe, per un giro di vite contro Hamas, e la dura risposta da parte del Movimento Islamico, indica che entrambe le fazioni non sono intenzionate a una matura accettazione di una gestione condivisa e partecipata del potere. A questo, si aggiungono le ultime dichiarazioni di Hamas (che ha accusato l’ANP di auspicare l’instabilità della Striscia di Gaza) e la reazione da parte dell’ANP (che ha usato toni poco adeguati alla corretta dialettica politica); sono tutte dimostrazioni del fatto che nessuna delle due parti è realmente interessata a trovare un compromesso; anzi, l’intenzione è di rimarcare le differenze e mantenere inalterate le proprie posizioni.

In Palestina, la divisione tra Fatah e Hamas non è più di natura ideologica, bensì di natura istituzionale. Se a questo si aggiungono la diffidenza e le questioni legate alla sicurezza, il divario non fa che aumentare.

La speranza che possa concretizzarsi una reale unità di vedute, con una strategia politica comune, un governo e una sola autorità legittima, è quanto mai lontana per i Palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania.

*Abdalhadi Alijla è uno scrittore, saggista e blogger palestinese, dottore di ricerca presso l’Università di Milano. Fa parte dell’organizzazione Soliya per la promozione del dialogo; già borsista DAAD di Public Policy and Good Governance, collabora con l’Institute for Middle East Studies in Canada, il Middle East Development Network di Instanbul e il Varietes of Democracy Institute dell’Università di Göteborg.

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