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24/04/2024

25 Aprile1974: la Rivoluzione dei Garofani in Portogallo

Il 25 aprile del 1974 una rivolta militare – sostenuta da un’ampia mobilitazione popolare – metteva un deciso stop al regime dittatoriale di António de Oliveira Salazar e del suo delfino Marcelo Caeteno che durava da decenni nel paese lusitano. La fine di questa dittatura provocò anche l’implosione del sistema coloniale portoghese (Guinea Bissau, Mozambico, Angola, Capo Verde, Sao Tomè e Principe).

Il 25 aprile, a mezzanotte, dalle frequenze di Radio Renascença viene trasmessa una canzone proibita dal regime: Grândola Vila Morena, di Zeca Afonso. Questo atto è il segnale di inizio di una delle più epiche rivoluzioni della storia europea.

Incitati dalle note di uno chansonnier i militari escono dalle caserme, questa volta non per marciare contra o povo – come era successo appena un anno prima in Cile per abbattere il governo di Salvatore Allende – ma per liberarlo.

Il putsch militare, condotto dai settori progressisti dell’esercito, fu soprattutto la risultante di un lungo lavorio, nei duri anni della repressione autoritaria, condotto clandestinamente dai comunisti, dai socialisti e – nei territori coloniali – dalle organizzazioni politico/militare dei vari movimenti di liberazione nazionale.

L’indipendenza delle colonie portoghesi ebbe effetti anche su altre lotte di liberazione africane. Il regime salazarista (e quello di Caetano) erano stati stretti alleati del Sudafrica dell’apartheid e della Rhodesia segregazionista di Ian Smith.

Così stretti, che i velivoli sudafricani, cui nessun aeroporto sul continente africano permetteva di atterrare, nelle loro rotte con l’Europa facevano scalo nell’isola di Sal a Capo Verde, dove i portoghesi offrivano loro il carburante per proseguire.

Non solo: i ribelli rhodesiani che sconfinavano in Mozambico trovavano la dura opposizione dei militari portoghesi che li respingevano e spesso li consegnavano alle forze di sicurezza di Salisbury.

Con l’indipendenza del Mozambico, la guerra in Rhodesia voltò pagina in direzione progressista e tendenzialmente socialista. Una nuova stagione si aprì così per l’Africa australe e per il complesso del movimento anti-coloniale internazionale.

Ovviamente l’MFA (la denominazione del Movimento delle Forze Armate) aprì la strada ad un processo di forte protagonismo popolare e sociale nel paese e di grande attivismo politico che fece irruzione in un Mediterraneo dove ancora permanevano regimi fascisti come nella Spagna Franchista, nella Grecia dei Colonnelli o come nella stessa situazione italiana, dove lo stragismo di Stato e le scorribande squadristiche erano una pesante costante per arginare il movimento operaio e le sue organizzazioni.

Il tutto avveniva in un “mondo bipolare”, dove la contrapposizione USA/URSS aveva nel Mediterraneo una sua linea di faglia molto sensibile e la NATO era (ed è ancora tutt’ora) uno strumento di comando, controllo e di aggressione interna ed esterna ai propri confini ed area d’influenza.

Anche per la persistenza di questo complesso contesto generale, la Rivoluzione dei Garofani (come fu denominata questa bella vicenda politica) ebbe un grande eco nel nostro paese, dove si svolsero grandi e partecipate manifestazioni a sostegno della lotta e della vittoria conseguita dal popolo portoghese.

Molti compagni e dirigenti dell’allora sinistra rivoluzionaria (Lotta Continua in primis) si recarono in Portogallo per conoscere dal vivo e studiare questa esperienza che – nell’approvazione della Costituzione del 1976 – sancì, anche formalmente, un “percorso di transizione al Socialismo” e l’obiettivo di una “società libera, giusta e solidale“.

Successivamente – anche a causa della controffensiva borghese a tutto campo e della pesante gabbia rappresentata dalla divisione dell’Europa in blocchi tra le due superpotenze – le ragioni della Rivoluzione dei Garofani si affievolirono e l’intero moto sociale si depotenziò progressivamente.

Successivamente molti dirigenti dell’MFA o del Partito Comunista Portoghese subirono ondate repressive, carcere ed esilio.

In altra sede ritorneremo con più accuratezza ed argomentazione su questa originale esperienza storica e sui suoi esiti. In ogni caso tale vicenda rappresentò – comunque – un tentativo di Rivoluzione in Occidente dopo lo snodo/cesura della Seconda Guerra Mondiale, la configurazione geo-politica che era scaturita dalla Conferenza di Yalta e la rigida persistenza della contrapposizione Est/Ovest.

Intanto ricordiamo la liberazione di questo popolo dalla dittatura, la fine della lunga stagione di rapina esercitata dal colonialismo portoghese in Africa e la straordinaria funzione “di avanguardia e di massa” oltre che di autentica “direzione politica” che seppero svolgere i comunisti del Portogallo in quel complicato tornante storico e materiale.

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Le stragi dimenticate degli “Alleati” in Sicilia

Se sulle vicende dello sbarco anglo-americano in Sicilia (9 luglio 1943) si sono versati fiumi di inchiostro, poco si è scritto, invece, sulle stragi compiute dalle truppe americane a partire dai primi giorni dell’invasione.

Di quelle compiute dalle truppe tedesche ai danni dei militari del regio esercito italiano e della popolazione civile italiana, sappiamo tutto. Al contrario, su quelle degli americani poco o nulla. È questa una storia tutta da scrivere.

È del 2011, ad esempio, il libro dello storico Fabrizio Carloni intitolato “Gela 1943: le verità nascoste sullo sbarco americano in Sicilia”, in cui sono descritti per la prima volta, attraverso una ricostruzione ben documentata, alcuni di questi crimini di guerra. Risulta, infatti, che sono parecchi, oltre alle stragi che sono state in parte documentate dagli atti processuali della Corte Marziale degli Stati Uniti, gli episodi in cui soldati italiani sono stati fucilati dalle truppe americane, pur essendosi arresi dopo il combattimento.

Sennonché gli ordini del generale Patton, comandante della 7ª Armata Usa, erano stati chiari ben prima dello sbarco: non bisognava fare prigionieri. Nella cosiddetta “Battaglia di Gela”, che vide impegnata nella difesa costiera la sola divisione “Livorno”, questa perse 11.400 uomini tra morti e feriti, 214 ufficiali e 7.000 sottufficiali e soldati. È probabile che appartenessero ad essa anche i 73 militari italiani fucilati a Biscari. Ma quanti morti sono caduti in battaglia oppure sono stati fucilati dopo aver opposto una strenua resistenza?

È dunque lecito pensare che siano state parecchie le fucilazioni di nostri soldati, né si può rinunciare a rendere giustizia alle vittime e alla storia, impedendo, nella misura del possibile, che sia il vincitore a scrivere anche la storia dei vinti. Purtroppo, in quei giorni dominati dalla paura e dalla confusione molte morti di civili, nascoste dai vertici militari alleati che non volevano macchiare la loro immagine di “liberatori”, furono piante nel riserbo e nel silenzio dei familiari.

Del resto, va detto che gli Alleati non si comportarono affatto da “liberatori”, poiché progettarono ed attuarono la conquista della Sicilia in base ad una logica squisitamente imperialistica. La Sicilia venne attaccata ed occupata come terra nemica in quanto rappresentava l’avamposto del regime fascista, che bisognava distruggere. Solo dopo l’armistizio dell’8 settembre, quando ormai la capitolazione dell’esercito italiano in Sicilia era definitiva e le truppe anglo-americane non erano riuscite a bloccare i tedeschi sullo stretto di Messina, l’Italia divenne nazione cobelligerante e gli italiani da quel momento vennero trattati come alleati.

La Sicilia, con le sue numerose vittime civili e con i tanti prigionieri inermi fucilati dagli americani, ha quindi pagato un prezzo altissimo alla “liberazione”.

Sta di fatto che solo di due grandi stragi si è scritto e parlato sin dalla fine della guerra, mentre di altre ancora si tace: quella consumata nei pressi dell’aeroporto di Biscari e quella consumata nella contrada Piano Stella, situata nel comune di Caltagirone. Dieci anni fa, la Procura militare di Napoli, competente anche sul territorio siciliano, ricevendo una denuncia da parte di cittadini su una strage di civili compiuta dagli Alleati, aprì un’inchiesta sui crimini di guerra compiuti dalle forze militari anglo-americane in Sicilia nei giorni successivi allo sbarco.

Da lì prese le mosse un’indagine che si presentava difficile, forse anche impossibile, a causa dell’ampio lasso di tempo trascorso. Il fascicolo riguardava l’ipotesi di reato di omicidio compiuto ai danni di civili con efferatezza e per futili motivi: un reato che non si prescrive. Essendo difficile anche trovare i testimoni di quei fatti, la Procura militare di Napoli chiese la collaborazione di storici e studiosi. E qui essa trovò terreno fertile, perché da alcuni anni l’egemonia della ricostruzione filoamericana dei fatti ha dovuto dare spazio a studi e testimonianze che portano alla luce le verità nascoste su quello sbarco e sull’uccisione di cittadini inermi.

Molte uccisioni di singoli civili, forse scambiati per militari, e molte delle uccisioni sommarie di militari italiani rappresentarono l’applicazione dei concetti espressi da Patton nel discorso tenuto agli ufficiali, il 2 giugno 1943, a Comberwell, secondo cui, in base alla “organizzazione che era in corso non si dovevano prendere troppi prigionieri e si doveva evitare di fraternizzare con loro”. In ispecie, durante i combattimenti non si dovevano prendere prigionieri, soprattutto se si trattava di cecchini o di soldati che avevano combattuto le linee avanzate americane.

Sulle navi, prima dello sbarco, gli altoparlanti ripetevano il discorso di Patton: «Se si arrendono, quando tu sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra le terza e quarta costola, poi spara. Si fottano. Nessun prigioniero! È finito il momento di giocare, è ora di uccidere. Io voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali!». Orbene, a quei concetti fecero séguito i bagni di sangue, quasi tutti verificatisi nei primi dieci giorni dello sbarco, quando ebbe inizio l’avanzata delle truppe della 7ª Armata verso Canicattì-Caltanissetta e verso Gela-Caltagirone-Ragusa.

Sarebbe una buona cosa se la ricorrenza del 25 aprile contribuisse a porre in rilievo anche i crimini di guerra perpetrati in Italia dagli americani, dagli inglesi e dai soldati di altre nazioni al séguito di questi. Per intanto, occorre essere grati alla «Rivista Militare», periodico dell’Esercito italiano, per l’importante contributo storico fornito a suo tempo con l’ampio e documentato articolo su “L’assalto degli Alleati alla Sicilia”, del quale qui si è cercato di indicare gli aspetti essenziali.

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L’Italia aspetta Dongfeng, in Spagna arriva Chery: l’auto elettrica cinese pianta radici nell’UE

Chery produrrà presto macchine a Barcellona, nello stabilimento ex Nissan. L’annuncio è arrivato il 14 aprile scorso dal presidente della casa automobilistica cinese, Yin Tongyue, confermato due giorni dopo dal governo catalano. Dopo BYD, che nel dicembre scorso ha ufficializzato la prossima apertura di una fabbrica a Szeged, nel sud dell’Ungheria, Chery è il secondo grande player dell’automotive cinese a localizzare la produzione nell’Unione Europea.

Venerdì 19 aprile i dettagli della joint-venture tra Chery (che avrà una partecipazione di minoranza) e la spagnola EV Motors (che aveva acquistato da Nissan l’impianto, fermo dal 2021) verranno illustrati nel corso di una cerimonia a Barcellona. L’accordo dovrebbe permettere a 1.600 dipendenti ex Nissan di mantenere il posto di lavoro.

L’investimento cinese in Spagna è molto diverso da quello in Ungheria: nel primo caso la protagonista è una compagnia di stato, nel secondo un’azienda privata; Chery è ancora legata ai veicoli con motore a combustione interna e ibridi, BYD fabbrica solo macchine elettriche e ibride; quello del produttore di Wuhu è un progetto meno ambizioso se paragonato alla fabbrica nuova di zecca che la multinazionale di Shenzhen sta costruendo a Szeged (al confine tra Ungheria, Serbia e Romania), che dovrebbe essere inaugurata nella seconda metà del 2025 e sfornare 200.000 veicoli elettrici all’anno.

La sostanza però e la stessa, i grandi produttori cinesi si sono mossi con decisione per localizzare la produzione di veicoli elettrici all’interno dell’Unione Europea, per una serie di motivi:

- quello dell’Ue è un mercato ricco, aperto, e nel quale – in linea con l’obbligo, a partire dal 2023, di vendere auto solo a nuova energia – la domanda di veicoli elettrici è in costante aumento;

- a causa dei costi, della logistica e delle tensioni commerciali, per le esportazioni cinesi è difficile stare al passo con l’incremento della domanda dell’Ue;

- l’inchiesta lanciata nell’ottobre 2023 dalla Commissione potrebbe determinare un aumento dei dazi d’importazione nell’Ue, attualmente al 10 per cento, fino al 25 per cento.

Secondo le ultime indiscrezioni, per fabbricare le sue auto “made in the EU” l’azienda di stato cinese utilizzerebbe la piattaforma E0X, quella impiegata per la Luxeed S7 sviluppata da Chery assieme a Huawei. A Barcellona Chery inizierebbe subito a produrre i modelli del suo brand Omoda, mentre la spagnola EV Motors seguirebbe, sfornando i suoi dal quarto trimestre di quest’anno.

Le esportazioni di Chery sono più che raddoppiate nel 2023 arrivando a 937.148 veicoli, pari a quasi la metà delle sue vendite annuali totali. Nel primo trimestre di quest’anno, hanno toccato le 253.418 unità, con un aumento su base annua del 40,9 per cento. Il presidente Yin ha rivelato che Chery prevede di introdurre 24 modelli ibridi e 15 completamente elettrici nei prossimi 20 mesi.

L’Italia invece sta pensando a Dongfeng come partner da affiancare a Stellantis. I colloqui con il ministro dell’industria, Adolfo Urso, sono in corso e, secondo quanto trapelato, il governo Meloni offrirà a Dongfeng alcune opzioni per i siti di produzione nelle prossime settimane.

Intanto Qian Xie – responsabile di Dongfeng per l’Europa – ha confermato che sono in corso discussioni «allo stadio iniziale con il governo italiano», aggiungendo che «l’Italia è uno dei maggiori mercati automobilistici europei e per una casa automobilistica cinese avere una produzione locale significa poter rifornire tutti gli altri Paesi dell’area».

L’azienda di stato di Wuhan sarebbe pronta a produrre in Italia oltre 100.000 veicoli all’anno. Ci sono però da superare, tra l’altro, le resistenze di Stellantis, con la quale Urso si è scontrato. Nei giorni scorsi l’amministratore delegato, Carlos Tavares, ha minacciato di dover prendere «decisioni impopolari» se un produttore cinese di veicoli elettrici dovesse insediarsi in Italia.

Come Chery, Dongfeng è un produttore ancora legato ai veicoli tradizionali e al mercato interno (non è tra i primi dieci esportatori di auto cinesi). Dopo aver raggiunto un picco nel 2017 con 2,83 milioni di consegne, le vendite di Dongfeng sono scese a 1,72 milioni lo scorso anno, con un calo del 38%.

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23/04/2024

Lucky (2017) di John Carroll Lynch - Minirece

Aspettando il 25 aprile. 1 – L’inizio della Resa dei Conti

di Massimo Zucchetti

Ci avviciniamo alla data più bella dell’anno, il 25 aprile. La data nella quale le facce dei fascisti di ieri e di oggi si fanno più livide, le loro voci più stridule, il loro imbarazzo e fastidio sempre più evidenti.

Soltanto questo dovrebbe far capire come l’antifascismo – sopratutto oggi che i protagonisti dei giorni di allora sono tutti scomparsi, mentre sporgono sempre più da oscure profondità i crapini dei loro nipoti, una dei quali a capo del Governo addirittura – sia attuale e indispensabile.

Condividerò in questi giorni dei brani tratti (e accorciati) dalla nuova edizione del mio libro “Mussolini, ultimi giorni. Contro il revisionismo. Nuova edizione 2024”, che sta per uscire.

Rispetto alla vecchia edizione del 2018 (scaricabile gratis qui) è passato da 98 a 274 pagine.

1 – L’inizio della Resa dei Conti

“È già da qualche tempo, che i nostri fascisti, si fan vedere poco, e sempre più tristi, avran capito forse, se non son proprio tonti, che sta per arrivare la Resa dei conti” (Festa d’Aprile, canzone partigiana)

Verso il finire della guerra, nella primavera del 1945, iniziarono a farsi più frequenti gli episodi nei quali i fascisti repubblichini, responsabili dei peggiori fatti di sangue e violenze, venivano abbattuti dalle forze partigiane, specialmente dai GAP.

Queste azioni di giustizia partigiana non sono mai mancate, anche nei primi tempi della guerra di liberazione, ma il periodo iniziale durante il quale i fascisti, a guinzaglio dei nazisti invasori, forti del numero, potevano maramaldeggiare con la popolazione, era finito.

La tendenza si invertì, l’odio generalizzato di tutti gli italiani ancora sotto occupazione si poteva percepire ad ogni passo, rendeva l’aria pesante per le “camicie nere”. I funerali – formalmente “solenni” – dei militi repubblichini caduti erano squallidi e semi-deserti.

I fascisti corsero ai ripari asserragliandosi nelle caserme, uscendo preferibilmente in gruppo, mentre i più criminali si abbandonarono ad un crescendo di raid e feroci ritorsioni oramai prive di qualsiasi scopo, se non sfogare la rabbia per la sconfitta imminente, trascinando con loro nella morte e nella rovina il maggior numero di persone possibile: un cupio dissolvi che però non riguardava mai loro stessi, se non a parole, ma sempre civili disarmati o prigionieri, politici o rastrellati a caso.

Poi, giunse la fine di aprile: quegli stessi che fino a poche settimane prima si aggiravano tracotanti e minacciosi, con le armi spianate e l’aria da padroni e da bravacci, provarono a sparire.

Alcuni spararono qualche colpo dimostrativo e si arresero, pensando che fosse sufficiente; molti altri gettarono le armi e scomparvero, fidando spesso nella confusione di fine guerra e nella sbrigativa e noncurante clemenza degli Alleati.

Noncuranza che si basava su un ragionamento semplice: toccava agli Italiani, se davvero erano diventati antifascisti, fare giustizia.

L’Italia era uno Stato, se non vincitore, almeno co-belligerante dei vincitori: la giustizia toccava allo Stato italiano e – nella transizione – al CLNAI, suo unico delegato a nord della Linea Gotica.

La peculiare pretesa fascista fu che, più o meno, fosse finita una guerra cavalleresca; le decine di migliaia di civili o prigionieri assassinati senza pietà, le stragi, le violenze fisiche e non, le distruzioni e le ruberie, i rastrellamenti e le deportazioni, la collaborazione con la più feroce occupazione nella storia moderna d’Italia, quella nazista, il terrore, facevano secondo loro “parte della guerra”: ma la guerra ora era finita, ognuno quindi poteva rimettersi in borghese, si girava un interruttore e la vita riprendeva.

Appare evidente come si trattasse di una pretesa eccessiva: fu naturale che, nel 1945, vi fosse in Italia un redde rationem, in modo da far pagare il fio ai criminali fascisti ed espellere le tracce innumerevoli dei danni che il fascismo aveva fatto alla società italiana, in un ventennio di dittatura e nella coda atroce dei due anni di occupazione nazista e di spietata guerra civile.

Espellere la stessa mentalità fascista, che aveva danneggiato e malridotto il tessuto sociale e il livello di civiltà e democrazia dell’Italia al livello di degrado di uno staterello dittatoriale centro-americano.

Per molti motivi, quindi, non abbiamo timore di parlare della complementarità della Resa dei conti – giustizia sommaria e quindi necessariamente approssimativa e sbrigativa – rispetto alla Giustizia ordinaria – necessariamente ponderata ed a volte inefficace.

Anche a noi sarebbe piaciuta una situazione nella quale i criminali fascisti avessero pagato in maniera giusta e severa per i loro misfatti, condannati in regolari processi da un’ipotetica giustizia italiana, erede diretta della Resistenza; ciò non fu possibile, ed allora la Resa dei conti va considerata come parte di un necessario epilogo, ed un parziale rimedio all’Italicidio fascista.

Un rimedio alla completa distruzione, materiale e morale, di una nazione e dei suoi abitanti, causata dal fascismo e dalla guerra, la cui responsabilità è da attribuirsi a nessun altro se non al fascismo stesso.

Dimostrò che l’Italia aveva anticorpi sufficienti a sconfiggere e ripudiare il fascismo, anche se non del tutto, e non per sempre.

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USA - Nonostante gli arresti proseguono le proteste per la Palestina nelle università

Altre decine di manifestanti solidali con la Palestina sono stati arrestati lunedì nell’ambito delle proteste che si susseguono da giorni in numerose università degli Stati Uniti. Oltre alla Columbia University altri studenti sono stati arrestati all’Università di Yale.

Lo riferiscono i media statunitensi, che forniscono un resoconto dell’ultima giornata di proteste: la polizia ha effettuato decine di arresti presso le università di Yale e New York, mentre la Columbia University ha risposto alla mobilitazione studentesca contro la guerra a Gaza cancellando le lezioni in presenza.

Nonostante i numerosi arresti eseguiti anche la scorsa settimana, gli attivisti pro-Palestina non sembrano intenzionati a porre fine alla mobilitazione: da giorni gli attivisti vivono accampati in tendopoli in numerosi campus universitari del Paese, ostacolano o impediscono le lezioni e gli eventi universitari e si confrontano con le forze dell’ordine.

Nei giorni scorsi la Columbia University è stata protagonista di vaste proteste e di un intervento della polizia che aveva portato all’arresto di oltre 100 studenti.

Ma proprio gli arresti alla Columbia University hanno innescato mobilitazioni in numerosi altri atenei statunitensi, incluse le università di Boston e del North Carolina, il Massachusetts Institute of Technology e la University of California-Berkley.

Le proteste in crescita da parte dei gruppi studenteschi pro-Palestina hanno suscitato le condanne bipartisan da parte del Congresso e della Casa Bianca, fortemente influenzati dalla potentissima lobby sionista statunitense.

Le dirigenze universitarie sono oggetto di pressioni sempre più pesanti da parte dei legislatori statunitensi, che accusano gli atenei di aver ignorato o assecondato fenomeni di antisemitismo all’interno degli atenei, mistificando e criminalizzando così le proteste dirette contro il genocidio dei palestinesi a Gaza.

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Il carcere “liberal-fascista” tortura e uccide. Anche i minorenni

Ci siamo presi un attimo di tempo in modo da smaltire l’indignazione e riflettere freddamente.

Ieri, 22 aprile, sono stati arrestati tredici agenti della polizia penitenziaria accusati di “maltrattamenti, lesioni e falso ideologico” nei confronti di almeno una decina di detenuti dell’istituto penitenziario minorile Cesare Beccaria.

L’elenco delle prove raccolte dai magistrati è lunghissimo e costituisce un’enciclopedia dell’orrore. Ve ne daremo anche noi un piccolo compendio per consentire a tutti di misurare la distanza siderale tra la realtà delle carceri italiane e le indicazioni scritte sia nella Costituzione che nelle leggi ordinarie.

Un di più di orrore viene dal fatto che le vittime sono minorenni, ossia persone in formazione – non “delinquenti professionali” – che sarebbe compito dell’istituzione (anche di quella repressiva) provare a recuperare alla vita civile.

Sembra scontato concluderne che, se quella che segue è l’identità dell’istituzione, quei ragazzi e tutti coloro che condividono la loro vita saranno convinti per sempre che lo Stato è solo una macchina da tortura fondata su un suprematismo straccione.

Nell’ordinanza si legge: “Dopo che un gruppo di circa dieci agenti raggiungeva la cella” un poliziotto “apriva la finestrella del blindo” (la porta blindata della cella, ndr), chiedeva al detenuto di avvicinarsi “e gli spruzzava negli occhi uno spray al peperoncino”.

Sei poliziotti subito dopo “entravano nella cella e aggredivano” il ragazzo con “calci e pugni su tutto il corpo e lo facevano cadere a terra, mentre lo insultavano dicendogli “Sei un figlio di p*****, tua madre è una tr***, sei un clandestino, ti faccio vedere io come fare il figlio di put****”, una volta steso a terra, lo ammanettavano, continuando a colpirlo e gli strappavano la maglietta, mentre il ragazzo tentava di difendersi con un pezzo di piastrella”.

Dopo averlo portato in una cella in isolamento un agente lo ha spogliato “lasciandolo completamente nudo e ammanettato; a questo punto” un altro poliziotto “toglieva la cintura” a un collega “e lo colpiva con più cinghiate anche sulle parti genitali fino a provocarne il sanguinamento, mentre” un altro agente “continuava a colpirlo con numerosi calci”.

Il mattino successivo due agenti “lo svegliavano per spostarlo dalla sua cella e lo colpivano nuovamente in faccia con schiaffi e pugni insultandolo con termini quali ‘sei un bastardo, sei un arabo zingaro, noi siamo napoletani, voi siete arabi di merda, sei venuto ieri’; lo trasportavano in una cella singola ove lo colpivano nuovamente in faccia e sul naso”.

Più o meno le frasi che 60 anni fa delle guardie lumbard o piemontesi rivolgevano ai detenuti meridionali, napoletani in testa... Suprematismo straccione, appunto, da penultimi della fila...

«Sono arrivati sette agenti, mi hanno messo le manette e hanno cominciato a colpirmi», racconta ai pm S.

«Ho un problema con la spalla sinistra e mettendomi le manette me l’hanno fatta uscire»
. Poi uno schiaffo, un pugno, infine calci nelle parti intime: «Vedevo tutto nero. L’ultima cosa che mi ricordo è che mi sputavano addosso. Dopo mi hanno sollevato così, da dietro, dalle manette».

Come ulteriore premio ha ricevuto 10 giorni in cella d’isolamento, i primi tre senza materasso e cuscino.

«È normale essere picchiati al Beccaria» racconta A.

Una violenza sistemica, scrive la gip Stefania Donadeo nell’ordinanza d’arresto: «Le violenze perpetrate all’interno del carcere Beccaria corrispondono esattamente a una pratica reiterata e sistematica che connota la condotta ordinaria degli agenti che vogliono stabilire le regole di civile convivenza e imporle picchiando, aggredendo e offendendo i minorenni detenuti».

Oltre a lesioni, maltrattamenti, tortura c’è anche una tentata violenza sessuale. Novembre 2022, mentre il detenuto minorenne dorme, un agente si avvicina al suo letto e gli pone la mano sul sedere, accarezzandolo. Al risveglio improvviso del recluso che gli chiede: “Cosa vuoi?”, l’agente risponde: “Stai tranquillo, voglio solo fare l’amore con te”. Questo episodio non si è poi concretizzato in violenza sessuale solo grazie alla reazione del ragazzo (e probabilmente al fatto che, in casi come questo, l’agente non poteva chiedere la complicità dei colleghi).

Gli agenti sono accusati anche di aver falsificato le relazioni di servizio per nascondere quello che accadeva.

«La diffusione sistematica della violenza ha determinato anche negli stessi detenuti la maturazione di un’idea di normalità della stessa».

Talmente “normale” che in previsione del prossimo pestaggio i ragazzi mettevano in atto le solite “misure preventive”. «Ci eravamo coperti con tanti vestiti a strati perché così avremmo sentito meno le botte».

Il sistema di tortura era talmente “normale” da aver destinato alcune celle ai pestaggi più violenti; erano senza telecamere interne, di modo che non potesse restarne traccia video (avevano capito, dopo Santa Maria Capua Vetere, che quelle fornivano “prove”).

Una notte «mi hanno svegliato e mi hanno picchiato mentre ero in cella con un altro, mi hanno portato giù in una stanza singola e lì mi hanno ancora picchiato in faccia, sul naso, che mi faceva tanto male. Mentre mi picchiavano dicevano ‘sei venuto ieri... e fai così, sei un bastardo, sei un arabo zingaro’».

Un concentrato di sadismo e razzismo, che sintetizza un fondo “ideologico” comune a molti corpi militari o assimilati. E pure a diversi partiti politici, immaginate quali...

Gli agenti usavano «sacchetti tipo di sabbia per picchiarli, per non lasciare tracce», in questo caso lividi evidenti e refertabili da un medico.

I difensori istituzionali dei presunti “tutori dell’ordine” hanno immediatamente imbracciato il mitra retorico che riduce scandali del genere a responsabilità individuale o di gruppo di “poche mele marce”.

Noi ci limitiamo a constatare che solo negli ultimi due anni abbiamo avuto episodi come quello di Santa Maria Capua Vetere, dove i video delle telecamere mostrano che tutto il personale del carcere partecipava ai pestaggi, distinguendosi individualmente solo per il dosaggio di violenza o entusiasmo partecipativo.

Molto più grave quello che è avvenuto a Modena, in piena pandemia, quando ben nove detenuti sono morti in circostanze mai chiarite e anzi frettolosamente derubricate a “overdose di farmaci”. In quel caso le telecamere interne erano state tutte spente e gli agenti hanno avuto piena libertà di azione. Niente prove, se non le testimonianze dei detenuti sopravvissuti, praticamente identiche a quelle dei ragazzi del Beccaria, ma considerate in quel caso dai magistrati come “poco credibili”.

Il rapporto dell’associazione Antigone ricorda che nel 2023 sono state almeno 70 le persone che si sono tolte la vita all’interno di un istituto di pena. Nei primi mesi del 2024, almeno 30. “Almeno” – sottolinea l’associazione – perché numerosi sono i decessi con cause ancora da accertare, tra i quali potrebbero quindi celarsi altri casi di suicidio. Seppur in calo rispetto all’anno precedente, i 70 suicidi del 2023 rappresentano un numero elevato rispetto al passato. Il più elevato dopo quello del 2022. Guardando agli ultimi trent’anni, solo una volta si è andati vicini a questa cifra con 69 suicidi nel 2001”.

Tra le cause dei tanti suicidi si fa spesso riferimento al sovraffollamento, ma poche volte si menziona il clima di terrore e violenza con cui vengono gestite tutte le carceri di questo paese. E sembra davvero incredibile che gli “spazi ristretti” siano giustamente considerati come una causa di depressione, mentre la frequenza dei pestaggi e la sensazione di essere in balia di torturatori sarebbero praticamente ininfluenti.

Eppure anche l’induzione al suicidio è un reato, no?

Lo “sfondo ideologico”, come si può notare, è quello ben noto di un “liberismo” che colpevolizza la povertà e l’emarginazione sociale, massimamente sugli immigrati. Un liberismo che affida poi la “gestione concreta” della presunta “devianza” alla disinvolta capacità di un personale “fascista nell’anima” di praticare la violenza ad libitum. Al riparo da sguardi indiscreti.

Tortura, omicidio, violenza sessuale. Nulla viene escluso. È il tenore della “guerra interna”, che riflette il clima di quella esterna, che è “nell’aria”. Dal Beccaria a Gaza.

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Guardare il dito dei sussidi cinesi o la Luna della transizione climatica?

Recentemente la Commissione Europea ha aperto un procedimento d’indagine contro le importazioni di veicoli elettrici provenienti dalla Cina, a causa dei sussidi di cui godrebbero i produttori localizzati all’interno di quel Paese.

Secondo l’accusa, il supporto governativo contribuirebbe a ridurre il prezzo dei veicoli esportati, determinando uno svantaggio competitivo per i produttori localizzati all’interno della UE. È importante osservare che i sussidi in questione sono accessibili a tutte le imprese operanti in Cina, incluse quelle di proprietà straniera, in accordo con la politica di apertura agli investimenti esteri praticata dal governo cinese.

Ad esempio, il secondo maggiore beneficiario degli incentivi all’acquisto di veicoli elettrici sul mercato cinese nel 2022 è stata Tesla e, tra i primi 10, compaiono le joint-venture di Volkswagen e General Motors. In definitiva, se è stata la cinese BYD a ricevere la stragrande maggioranza degli incentivi (Bickenbach et al. 2024: 13), è perché i consumatori cinesi hanno preferito di gran lunga i prodotti di quest’azienda.

Il successo di BYD è continuato nel 2023, dopo che gli incentivi all’acquisto di auto elettriche sul mercato cinese sono cessati, e adesso quest’azienda, come molte altre, si affaccia sul mercato europeo. BYD si avvale di un modello organizzativo di stampo neo-fordista, che privilegia l’integrazione verticale, e poggia sul network innovativo in cui è immersa, in cui il settore pubblico ha giocato un ruolo determinante attraverso investimenti mirati in termini di ricerca di base e applicata.

L’azienda controlla tutte le fasi della propria catena del valore: dalla tecnologia delle batterie ai microchip e persino alla proprietà delle miniere di litio e delle navi che trasportano le proprie auto (Gerbaudo, 2024). Quest’approccio si sta rivelando vincente, perché consente di gestire all’interno della propria organizzazione le incertezze tecnologiche e di mercato legate allo sviluppo di un prodotto con caratteristiche radicalmente nuove.

Al contrario, i produttori occidentali, che avevano abbandonato il modello fordista negli anni Ottanta, quando la competizione si era intensificata a causa della saturazione dei mercati occidentali, hanno tardato a comprendere che siamo entrati in una fase di rivoluzione tecnologica nei trasporti che richiede un approccio di trasformazione radicale rispetto al recente passato. Così oggi si trovano ad essere meno competitivi della concorrenza cinese (Wang et al., 2022).

L’indagine della Commissione rischia di condurre all’adozione di tariffe punitive nei confronti delle importazioni di veicoli elettrici provenienti dalla Cina. Alcuni esperti europeisti sottolineano, con un residuo di saggezza, che una misura di questo tipo sarebbe dannosa dal punto di vista economico, e suggeriscono piuttosto di intavolare trattative con il governo cinese per ottenere l’abolizione delle misure più sgradite (Bickenbach et al. 2024: 13).

In effetti, l’aumento delle tariffe danneggerebbe pesantemente i consumatori europei, limitandone la possibilità di acquistare beni che, nel contesto della transizione climatica, portano beneficio non solo ai diretti interessati ma alla società in generale.

Inoltre, le tariffe punitive rappresenterebbero un improvvido sostegno per un’industria automobilistica europea che è in netto ritardo sul piano degli investimenti per la transizione climatica e che invece potrebbe essere stimolata dalla concorrenza cinese a fare meglio.

In breve, le tariffe contro i veicoli elettrici cinesi costituirebbero un furto di benessere ai danni della collettività che metterebbe a rischio il raggiungimento degli obiettivi climatici da parte dell’UE.

Una volta acquisito che le tariffe anticinesi non sono una buona idea, resta tuttavia drammaticamente vero che, da una parte, milioni di posti di lavoro nell’industria automobilistica europea sono a rischio, e che, dall’altra, la crisi climatica incombe. Urge agire poiché i problemi si aggravano, giorno dopo giorno, mentre l’establishment europeo non sembra in grado di fronteggiare la situazione.

Che cosa dovrebbero fare la Commissione e i governi dei Paesi che compongono la UE?

Prima di rispondere a questa domanda, è opportuno formulare alcune precisazioni in merito alla valutazione occidentale delle politiche industriali cinesi. Uno studio americano recente (Di Pippo et al., 2022) collocava i sussidi industriali cinesi nel 2019 ad un livello pari a 1,73% del PIL. Nella comparazione condotta da questi autori, si tratterebbe di un livello fino a quattro volte superiore rispetto a quello di Stati Uniti, Francia e Germania, e questa differenza giustificherebbe l’accusa rivolta alla Cina di distorcere la competizione internazionale a proprio favore.

Andando ad analizzare i dati contenuti nel rapporto, risulta che il 45% dei sussidi (pari allo 0,77% del PIL) consisterebbe in benefici impliciti a favore delle industrie di stato, determinati dall’orientamento politico favorevole a questo settore da parte del Partito Comunista Cinese.

La parte maggioritaria di questi benefici (0,52% del PIL) è rappresentata da risparmi sugli interessi bancari, che si spiegano con la minore rischiosità dei crediti erogati verso le imprese pubbliche, favorite della garanzia implicita di salvataggio da parte del governo in caso di loro bancarotta.

È improprio assimilare questo risparmio ad un sussidio, perché un creditore, pubblico o privato, che eroghi il credito su basi competitive non può non tenere conto della diversa rischiosità dei propri debitori, ed è quindi perfettamente corretto che richieda un interesse minore alle imprese pubbliche. In pratica, questa voce dipende esclusivamente dall’esistenza di un grande settore di impresa pubblica in Cina.

La critica occidentale alla politica industriale cinese diviene così paradossale, perché la competitività cinese viene ricondotta all’esistenza di imprese pubbliche che dovrebbero, al contrario, essere la causa di una mancanza di competitività della Cina, stando ai canoni del liberismo occidentale secondo il quale solo ‘il privato’ può essere efficiente.

Secondo la stessa fonte, il supporto della Cina per le proprie imprese è molto maggiore di quello occidentale anche se ci limitiamo a considerare i soli sussidi diretti e gli sconti fiscali (0,76% del PIL nel 2019 contro 0,17% e 0,12% di Germania e USA).

Per valutare questa differenza si dovrebbe tenere conto del fatto che la Cina è ancora un’economia a medio reddito e che quindi le sue esigenze non sono perfettamente comparabili con quelle delle economie ricche. Inoltre, occorre considerare che la Cina è sottoposta ad uno strisciante embargo tecnologico da parte degli USA e quindi si trova obbligata a sviluppare rapidamente una propria base tecnologica indipendente.

Tralasciando questi aspetti, pur non secondari, possiamo evidenziare che la differenza di peso tra i sussidi cinesi e quelli di USA e Germania è nell’ordine dello 0,6% del PIL.

Considerando che nel 2022 la spesa militare in Germania era stata pari all’1,4% del PIL (non lontana dalla spesa cinese, pari all’1,6% nel 2022 e ridottasi all’1,5% nel 2023) e che il governo tedesco nel 2023 l’ha portata al 2% del PIL, sembra evidente che il livello più modesto dei sussidi industriali tedeschi si dovrebbe associare a decisioni sovrane di cui il governo cinese non porta ovviamente alcuna responsabilità.

Riguardo agli Stati Uniti, possiamo dire che, da una parte, i sussidi previsti dall’Inflation Reduction Act peseranno all’incirca per uno 0,28% annuo del PIL per il decennio 2022-2032, contribuendo a ridurre in modo significativo il gap rispetto alla Cina; e che, dall’altra, la spesa militare statunitense vale ben il 3,5% del PIL.

Per entrambi i Paesi occidentali esiste dunque potenzialmente la capacità fiscale per pareggiare i sussidi cinesi. Ne manca però la volontà, perché i governi occidentali preferiscono al momento finanziare la produzione militare a scapito di quella civile. Di questo, ovviamente, non si può ritenere responsabile il governo cinese.

Ecco che, in conclusione, risulta evidente come l’esperienza dello sviluppo economico cinese rappresenti un’importante opportunità per la transizione climatica in Europa, e non soltanto perché rende disponibili sul mercato veicoli elettrici competitivi, ma per motivazioni più generali e profonde.

Ad oggi la Cina è l’unica tra le principali aree economiche mondiali a collocarsi in modo convincente sul sentiero della neutralità climatica (Macheda, 2023). Avremmo quindi molto da imparare dalle politiche economiche di quel Paese. In particolare, se le imprese private cinesi, al contrario delle imprese europee, beneficiano di input a costi ridotti offerti loro dalle imprese pubbliche, è perché i governi dell’UE hanno smantellato quasi completamente la presenza pubblica nei settori industriali di base, mentre le residue imprese di proprietà statale seguono le medesime logiche di profitto dei monopoli privati.

La privatizzazione dei monopoli pubblici in Europa è andata di pari passo con lo smantellamento della capacità industriale interna, aprendo una fase economica in cui la rendita immobiliare e finanziaria hanno rappresentato il motore principale dell’accumulazione, la crescita dei consumi è stata soddisfatta prevalentemente da merci importate, gli investimenti industriali sono caduti ai minimi storici e la residua produzione manifatturiera è stata destinata principalmente all’esportazione.

Oggi questo modello si rivela insostenibile perché i Paesi europei si sono accorti di non possedere più la capacità industriale per realizzare quegli investimenti reali, a beneficio del mercato interno, che sono l’ingrediente indispensabile della transizione climatica.

È un fatto ben noto della storia industriale italiana che negli anni Sessanta la nazionalizzazione dell’Enel abbia realizzato l’obiettivo strategico di razionalizzare l’industria elettrica per ottenere quelle economie di scala che potessero ridurre i costi dell’elettricità a beneficio di un apparato industriale largamente privato, contribuendo in modo significativo al boom economico italiano.

In quel caso, il monopolista pubblico ha operato in modo efficiente non per massimizzare i propri profitti, ma per perseguire un obiettivo politico di interesse generale.

Le imprese pubbliche cinesi, in sostanza, non fanno niente di diverso da questo. Soltanto, lo fanno su grande scala e, per molti aspetti, lo fanno in modo molto più efficace, perché operano all’interno di un contesto istituzionale dove il governo persegue la massimizzazione del benessere sociale, e non quella dei profitti monopolistici privati.

Il governo cinese sta agendo con decisione e nel momento giusto, poiché la transizione climatica richiede un fortissimo aumento degli investimenti reali. Mc Kinsey ha stimato che per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 servirà, a livello globale, un investimento annuale aggiuntivo di 3mila miliardi di dollari, pari a metà dei profitti annuali di tutte le imprese del mondo, e a un quarto di tutte le tasse pagate annualmente livello globale.

In pratica, gli investimenti reali annuali dovranno aumentare del 60% rispetto ad oggi e restare su questi livelli più alti per 30 anni.

Se questi sono i termini della sfida, mobilitare tutte le risorse necessarie per raggiungere lo scopo, come sta facendo il governo cinese, è la cosa giusta da fare. Ai fini della transizione climatica il problema non sono i sussidi cinesi troppo alti, ma i sussidi occidentali troppo bassi, e ancora di più l’incapacità politica dell’Occidente di mobilitare tutte le risorse della società intorno ad un obiettivo così importante e così chiaramente definito.

Al contrario, la classe dirigente europea ha deciso di impiegare le limitate risorse pubbliche per finanziare prioritariamente il riarmo conseguente alla propria politica estera orientata allo scontro.

La possibilità di perseguire una politica di pace è sempre a portata di mano: basta dimostrare di volerlo, aprendosi ad una cooperazione sincera con tutti i Paesi. Grazie alla cooperazione sarà sempre possibile affrontare e risolvere i problemi di sovrapproduzione industriale nei settori legati alle tecnologie verdi che potranno eventualmente determinarsi nel lungo periodo.

Ma, data la portata dell’impegno richiesto dalla transizione climatica, non ha senso parlare adesso di “eccesso di capacità produttiva” in questi settori. Infatti, secondo le stime dell’Agenzia internazionale per l’energia, la domanda globale di veicoli elettrici raggiungerà i 45 milioni di unità entro il 2030, aumentando di 4,5 volte rispetto al 2022, e la domanda annuale di capacità fotovoltaica aggiuntiva raggiungerà, nello stesso anno, 820 gigawatt, circa quattro volte il livello del 2022.

Date queste proiezioni sulla domanda, il compito principale dei governi è di contribuire alla massima espansione dell’offerta, non di creare ostacoli artificiali che ne rallentino la crescita.

Se la Commissione è giustamente preoccupata di tutelare i posti di lavoro nell’industria automobilistica europea, la soluzione migliore dal punto di vista economico è quella di aprirsi alla cooperazione, favorendo gli investimenti dei produttori cinesi sul territorio europeo e richiedendo, al tempo stesso una maggiore apertura cinese agli investimenti europei, in uno spirito di reciprocità, come il governo cinese sta chiedendo da anni. Gli autoveicoli prodotti localmente, grazie ai minori costi di trasporto, sarebbero più convenienti di quelli importati.

Inoltre, la realizzazione di collaborazioni e joint-venture tra produttori europei e cinesi attiverebbe quel travaso di conoscenze che è stato fondamentale in Cina per avviare lo sviluppo industriale e tecnologico, e che potrebbe fluire oggi in senso inverso, dalla Cina verso l’Europa, a beneficio della nostra transizione climatica.

In definitiva, una rinnovata presenza di imprese pubbliche efficienti nei settori industriali di base, il massimo supporto governativo per la transizione climatica, anche attraverso sussidi mirati, e una politica di cooperazione e di pace nel rispetto del diritto internazionale rappresentano oggi le chiavi per il successo industriale, per la transizione climatica e per la prosperità futura dell’umanità.

Saranno capaci i governi europei di comprenderlo?

Bibliografia

Bickenbach F. et al. (2024), Foul Play? On the Scale and Scope of Industrial Subsidies in China, Kiel Policy Brief, Aprile 2024.

DiPippo et al. (2022), Red Ink. Estimating Chinese Industrial Policy Spending in Comparative Perspective, Center for Strategic & International Studies, Maggio 2022.

Gerbaudo P. (2024), The Electric Vehicle Developmental State, Phenomenal World, Aprile 2024.

Macheda F. (2023). China’s Road towards Decarbonization: Unrealistic Promise or a Credible Commitment? Forum for Social Economics, 1–29.

Wang X., Zhao W., Ruet, J. (2022). Specialised vertical integration: the value-chain strategy of EV lithium-ion battery firms in China. International Journal of Automotive Technology and Management, 22(2), 178.

Fonte