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19/04/2024

Cina - L’economia meglio delle previsioni: Pil +5,3% nel primo trimestre

L’economia cinese apre il 2024 con una crescita del prodotto interno lordo del 5,3 per cento nel primo trimestre che lancia segnali positivi. Sia perché superiore alle aspettative (il sondaggio degli economisti di Caixin aveva previsto +4,9 per cento), sia perché calcolata rispetto a una base di riferimento elevata, quella del periodo gennaio-marzo 2023, durante il quale si registrò una forte ripresa conseguente alla rimozione delle restrizioni anti-Covid.

Oltre a quelli sul Pil, tra i dati sul primo trimestre 2024 pubblicati martedì 16 aprile dall’Ufficio nazionale di statistica (Nbs) segnaliamo:

• gli investimenti in capitale fisso, cresciuti nel primo trimestre 2024 del 4,5 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso;

• gli investimenti manifatturieri, aumentati del 9,9 per cento nei primi tre mesi del 2024 rispetto allo stesso periodo del 2023;

• gli investimenti infrastrutturali, che hanno registrato tra gennaio e marzo 2024 una crescita del 6,5 per cento, sempre su base annua;

• le vendite al dettaglio, +3,1 per cento a marzo 2024 rispetto allo stesso mese del 2023;

• gli investimenti immobiliari, calati del 9,5 per cento tra gennaio e marzo 2024 su base annua;

• il valore aggiunto della produzione industriale, cresciuto a marzo 2024 del 4,5 per cento rispetto allo stesso mese del 2023.

Secondo Ding Shuang, capo economista Greater China di Standard Chartered Bank, i dati di questo primo trimestre 2024 sono il frutto della «rapida crescita nel settore dei servizi, nonché dall’aumento della domanda dall’estero che ha favorito la crescita delle esportazioni nel settore industriale», soprattutto quelle dei veicoli elettrici.

Al contrario i dati sulla produzione industriale e sulle vendite al dettaglio evidenziano la persistente debolezza della domanda interna. A marzo la produzione industriale è cresciuta del 4,5 per cento rispetto allo stesso mese del 2023, meno dell’aumento previsto del 6,0 per cento e meno del +7,0 per cento del bimestre precedente.

Sempre a marzo i consumi sono aumentati del 3,1 per cento su base annua, meno della crescita prevista del 4,6 per cento e in rallentamento rispetto al +5,5 per cento del periodo gennaio-febbraio.

Continuano a farsi sentire gli effetti della crisi del settore immobiliare. Il prezzo delle case ha continuato a scendere a marzo, così come le vendite, nonostante l’allentamento da parte del governo delle restrizioni sugli acquisti e delle norme sui mutui. I prezzi delle case nuove in 70 città sono scesi dello 0,3 per cento rispetto al mese precedente.

Guangzhou e Shenzhen hanno visto i prezzi degli appartamenti non nuovi scendere dell’1 per cento il mese scorso, mentre Fuzhou, la capitale della provincia del Fujian, è stata l’unica delle 70 città campione del Nbs a vedere aumentare i prezzi delle case non nuove, ma solo dello 0,1 per cento.

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Sicilia, crolla la “Repubblica di Sammartino”

I Carabinieri del comando provinciale di Catania hanno eseguito un’ordinanza di misura cautelare nei confronti di 11 persone, esponenti politici, funzionari comunali e imprenditori accusati, a vario titolo, di scambio elettorale politico – mafioso, estorsione aggravata dal metodo mafioso, corruzione aggravata, istigazione alla corruzione e turbativa d’asta.

Tra gli arrestati c’è il sindaco di Tremestieri Etneo, Santi Rando, destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare per scambio elettorale politico-mafioso e corruzione aggravata.

Ai domiciliari il suo oppositore politico, il farmacista Mario Ronsisvalle, diventato dopo le elezioni alleato di Rando. Fra i personaggi “che contano”, indagato per corruzione, spicca Luca Rosario Sammartino, della Lega, vice presidente della Regione Siciliana, assessore regionale all’Agricoltura, il quale è stato sospeso dalle funzioni pubbliche per un anno.

Il provvedimento è stato emesso nell’ambito di indagini svolte tra il 2018 e il 2021 e coordinate dalla Procura distrettuale etnea. L’inchiesta, denominata “Pandora”, ha fatto emergere gli accordi illeciti tra alcuni amministratori del Comune di Tremestieri Etneo ed elementi vicini alla cosca mafiosa Santaopaola-Ercolano, riguardanti le elezione (2015), avvenute con l’aperto sostegno di Sammartino, che allora era un esponente di spicco del PD isolano.

Ulteriori indagini hanno fatto luce su quella che la Procura definisce “la successiva degenerazione affaristica dell’Ente, messa in atto dai funzionari infedeli mediante numerose corruttele, per concedere permessi e assegnare lavori agli imprenditori amici”.

Sammartino, chi è...

Nato politicamente nell’Udc, il dentista Sammartino, fra una inchiesta giudiziaria ed un’altra, lasciava la ormai decrepita Udc per far parte del neonato movimento “Articolo 4” fondato da Lino Leanza, che a sua volta aveva abbandonato il Mpa di Raffaele Lombardo.

Successivamente Sammartino, forte di un elevato pacchetto di preferenze elettorali, aderisce al PD, dove diventerà deputato regionale con oltre 30 mila voti di preferenza, mettendo in un angolino non pochi personaggi del PD etneo, fra cui Anthony Barbagallo, l’attuale segretario regionale del PD. Ma non è ancora finita, perché Sammartino seguirà Matteo Renzi, e, quindi, lascia il Pd e aderisce a Italia Viva.

Successivamente, accade una sorta di fulmine a ciel sereno: Sammartino e i suoi voti s’imbarcano nella Lega di Salvini. E con la Lega, finalmente, Sammartino è fra i vincitori delle elezioni regionali e riceve l’incarico di vice presidente della Regione Siciliana e di assessore regionale, che per colpa... del vaso di “Pandora” ... ha dovuto mollare.

Sammartino a caccia di voti per la Chinnici...

In quella che possiamo ben definire la Repubblica di Sammartino è accaduto di tutto, come il sostegno di Sammartino, (all’epoca col PD) alla candidatura alle europee del 2019 di Caterina Chinnici (estranea all’inchiesta) anche lei all’epoca col PD.

Ronsisvalle, titolare di una farmacia a Tremestieri Etneo, scrive la Procura “anche grazie all’intervento di Luca Rosario Sammartino, principale referente politico del sindaco, all’epoca dei fatti deputato regionale e attuale vicepresidente della Regione, sarebbe stato avvantaggiato attraverso la riduzione del numero delle farmacie presenti nella pianta organica comunale, promettendo in cambio il sostegno elettorale, per le elezioni europee del 2019, al candidato sostenuto dal Sammartino”.

La candidata era Chinnici, per la quale in cambio dei voti, alcuni funzionari pubblici avrebbero compiuto “atti contrari ai doveri del loro ufficio”, approvando una delibera che riduceva il numero delle farmacie nel territorio comunale, “in contrasto con i primari interessi della popolazione”. E di seguito, come detto all’inizio, Ronsisvalle divenne il fido sostenitore del sindaco suo avversario.

Sammartino e le “operazioni di bonifica”...

Nella “Repubblica di Sammartino” accade che lo stesso Sammartino avrebbe elargito somme in denaro a un appuntato dei carabinieri in servizio alla sezione di polizia giudiziaria della Procura di Catania per fare delle bonifiche e raccogliere informazioni sulle indagini in corso.

Insomma, il carabiniere avrebbe eseguito “operazioni di bonifica” negli uffici di Sammartino, “anche attraverso strumentazione tecnica, alla ricerca di microspie”.

Sammartino avrebbe “sollecitato ripetutamente” il carabiniere a eseguire le bonifiche e avrebbe “abusato del proprio ruolo all’interno dell’Ufficio di Procura, informazioni, anche riservate e coperte da segreto istruttorio, in ordine a procedimenti penali a carico del Sammartino”.

Sammartino e la sanità... privata

Ma il cuore della “Repubblica di Sammartino” è la sanità, ovviamente quella privata, dove spicca l’azienda colosso “Humanitas centro catanese di oncologia” che all’apertura era guidata da Ivan Michele Colombo, con amministratore delegato Giuseppe Sciacca, zio dell’odontoiatra Luca Sammartino (appena rieletto nel Partito Democratico con 32mila voti durante le ultime regionali) e direttore sanitario Annunziata Sciacca, mamma di Luca.

Nel frattempo a Catania, territorio della “Repubblica di Sammartino”, arrivava il nuovo prefetto, Claudio Sammartino, lo zio...

Per la cronaca, attualmente “lo zio” è fra i giuristi nominati dal Ministro degli Interni per la commissione d’accesso che sta verificando il ruolo dell’amministrazione comunale barese nell’ambito dell’inchiesta “Codice Interno”.

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18/04/2024

Le amiche (1955) di Michelangelo Antonioni - Minirece

Tra gli studenti in sciopero della fame alla Sapienza. Un appello a non cedere

Incastrati tra “i corpi del reato” (due macchine della polizia) ma ostinatamente sotto il Rettorato della Sapienza, una studentessa e uno studente dell’università di Roma da ieri sono in sciopero della fame e incatenati. Intorno a loro c’è un continuo pellegrinaggio di altri studenti, giornalisti, persone solidali.

Gli è arrivata la solidarietà di Fiorella Mannoia, ma anche di Giorgio Cremaschi, della Comunità Palestinese, del portavoce di Potere al Popolo Giuliano Granato, dell’Arci di Roma e tanti altri.

Qualche decina di metri più in là c’è la tendopoli allestita sul pratone per dare continuità alle mobilitazioni di questi giorni. Tende e cartelli contro la guerra, gli accordi con Israele, in solidarietà con il popolo palestinese ma contro la Nato. E ai tavolini gli studenti in lotta ne approfittano per studiare.

Ne troviamo un gruppo chini a studiare su tomi di codice civile, codice penale, storia contemporanea etc. Un po’ diffidenti quando pensano che siamo giornalisti come quelli che da giorni li tormentano con le domande più strampalate, ma poi ci accolgono… e ci scroccano le sigarette. Spiegano che con lo sciopero della fame intendono mantenere e rilanciare la mobilitazione in corso ormai da settimane per mettere fine alla complicità della più grande università d’Europa con gli apparati israeliani e l’industria militare.

Occorre ammettere che se il governo e la filiera dei giornali di destra e filo-israeliani (Corriere della Sera in testa) volevano giocare sull’immagine degli studenti estremisti, si sono ritrovati spiazzati da una protesta classicamente pacifica ma non meno determinata nei contenuti.

“Chiediamo alla rettrice Polimeni di riceverci, le nostre richieste, così come quelle di una parte non irrilevante del corpo docente e dei ricercatori, non sono state affatto prese in considerazione” – dicono gli studenti in sciopero della fame sotto il Rettorato – “La sospensione degli accordi di collaborazione con le istituzioni israeliane e l’industria bellica è una contraddizione politica, materiale ed etica dell’università. Ignorarla non è accettabile”.

Da qui la decisione di proseguire sia con la protesta che con la mobilitazione nell’ateneo.

Per intervistare gli studenti incatenati sotto il Rettorato occorre quasi scavalcare uno sbarramento di due automobili. Quando chiediamo il perché ci rispondono che sono le auto – una Punto civile della polizia, l’altra presa in leasing da una compagnia privata di sicurezza – oggetto della contestazione di reato di danneggiamento ai due studenti processati ieri mattina per direttissima e rinviati a giudizio per il 22 e 23 maggio.

Ci spiegano però che una delle auto – la Punto della polizia (in borghese) era senza il freno a mano tirato, per cui nella concitazione si è mossa andando a tamponare l’altra. Sull’auto civile è visibile la rientranza sul tetto dovuta al fatto che uno studente ci si era arrampicato sopra per megafonare.

Insomma una scena quasi più comica che drammatica, sicuramente meno drammatica di quanto hanno provato a disegnarla i membri del governo e le loro cordate di giornalisti. Non solo.

Immagini video e testimonianze confermano che gli studenti erano a mani nude quando si sono spintonati con gli agenti sotto al Rettorato ed anche quando gli agenti hanno usato i manganelli alla porta dell’ateneo su via Regina Elena.

Per dirla alla romana, nelle mobilitazioni di queste settimane ed anche nei giorni scorsi “Non s’è visto né un sèrcio né un tortòre”, e allora di quale violenza degli studenti stanno starnazzando da lunedi ministri, sottosegretari e portaborse?

Le memoria corre a qualche anno fa, quando venne indicata come violenza anche il bacio apposto da una manifestante No Tav sulla visiera del casco di un agente. Il senso del ridicolo non rende però chi lo esprime meno inquietante.

Più che la stigmatizzazione strumentale, e pure falsa, della “violenza” degli studenti che perde credibilità di fronte alla realtà, appare evidente come il governo e gli interessi che rappresenta temano come la peste che nelle università i giovani si siano attivati, intorno al genocidio dei palestinesi a Gaza sicuramente.

Ma le proteste di queste settimane hanno anche rivelato un malessere profondo nel mondo della formazione/istruzione pubblica che ormai dilaga anche tra docenti e ricercatori. Ne è prova l’ampia adesione all’appello sottoscritto da centinaia di docenti e ricercatori che hanno chiesto di non sottoscrivere il bando del Ministero degli Esteri per la collaborazione tra le università italiane e istituzioni israeliane.

Una questione talmente vera e seria da aver visto atenei come Torino, Pisa, Bari, Napoli deliberare in tal senso o sfilarsi rettori da fondazioni come Med-Or, creatura della maggiore industria di armamenti italiana: Leonardo.

Dovrebbe far riflettere molti la lettera inviata nei giorni scorsi alla rettrice Polimeni dalla Fondazione Elisabeth Rotschild nella quale si chiede di non accettare le richieste degli studenti e si paventano i danni che la Sapienza subirebbe se venisse meno alla collaborazione con le istituzioni israeliane.

E dovrebbe far riflettere – e agitare – lo stato di totale destrutturazione del sistema della formazione, istruzione, ricerca pubblica, portata avanti con sistematicità dalle classi dominanti e dirigenti in questi decenni.

È ora che tutta la filiera politica, massmediatica ed economica che ha prosperato rendendosi complice dei crimini di guerra israeliani (anche quelli prima del 7 ottobre e dell’operazione di Gaza, ndr), se ne faccia una ragione. E questa volta non basteranno le ricostruzioni piuttosto fantasiose e un po’ stantìe del Corriere della Sera su jihadisti e anarchici infiltrati o alla guida delle proteste studentesche. Così non è, neanche se vi pare.

Qui di seguito l’appello lanciato dagli studenti in sciopero della fame.
Appello a democratici, pacifisti e società civile a sostenere le richieste di studenti e accademici nelle università per fermare il genocidio in Palestina.

Siamo studenti e studentesse dell’Università La Sapienza di Roma, abbiamo deciso di intraprendere uno sciopero della fame dalla mattina di mercoledi 17 aprile, incatenati sotto al rettorato del nostro ateneo.

Ci rivolgiamo a tutti coloro le cui coscienze sono scosse dalle terribili immagini del genocidio in corso a Gaza, dalla preoccupante condizione in cui versano tutti i territori palestinesi sotto attacco continuo, e dalla possibilità sempre più reale di una escalation generalizzata della guerra in Medio oriente e non solo.

Siamo arrivati alla scelta di questa forma di protesta non violenta, dopo mesi di una mobilitazione eterogenea e diffusa che ha visto in diversi settori della società una presa di posizione netta contro le guerre, per un cessate il fuoco, per fermare l’escalation in corso che rischia di trascinare il mondo in una terza guerra mondiale a pezzi.

A tutto questo però è corrisposto soltanto un preoccupante avvitamento antidemocratico che nei casi più estremi si è tradotto anche in manganelli e violenza repressiva su studenti e studentesse, tanti gli ultimi eventi noti.

È poi proprio nell’università, da tempo fulcro della coscienza critica, che una convergenza di professori, ricercatori, studenti e studiosi di ogni genere, ha messo all’ordine del giorno la necessità di mettere fine alle collaborazioni di ricerca e didattiche che legano la formazione all’industria della guerra e ad Israele, e in alcuni atenei come quelli di Torino, Pisa, Bari, Napoli e Milano questa battaglia ha conquistato alcune importanti vittorie.

Oggi tuttavia, guardandoci attorno, non riusciamo a vedere altro che l’urgenza di fare di più e fare meglio: siamo in sciopero della fame perché il nostro Paese non è ancora disposto ad adoperarsi per costruire le condizioni per la pace, ma non c’è più tempo di aspettare.
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USA - Dipendenti Google in rivolta contro gli affari con Israele e per la Palestina

Ieri decine di dipendenti di Google avevano fatto irruzione nella sede del colosso del Big Data in California per protestare contro la decisione della compagnia di firmare un accordo da oltre un miliardo di dollari con il governo di Israele.

I lavoratori, che hanno intonato cori pro-Palestina, si sono uniti in un gruppo chiamato “No Tech for Apartheid”, e avevano reso pubbliche alcune dichiarazioni in cui accusano Google di fare “affari con chi porta avanti il genocidio”, bombardando la Striscia di Gaza, ed avevano chiesto all'azienda di cancellare la sua partecipazione al Progetto Nimbus, un accordo da 1,2 miliardi di dollari che vede coinvolte Google Cloud e Amazon Web Services.

Un altro gruppo ha occupato per protesta il decimo piano della sede di Google a Manhattan.

A seguito di questa azione diversi dipendenti di Google sono stati arrestati negli uffici dell’azienda a New York City e a Sunnyvale, in California. Secondo il Washington Post, che riporta le dichiarazioni di Jane Chung, portavoce dei manifestanti, gli arresti in tutto sarebbero nove. “Impedire fisicamente il lavoro di altri dipendenti e di accedere alle nostre strutture è una violazione delle nostre politiche – ha affermato Bailey Tomson, portavoce di Google – Questi dipendenti sono stati messi in congedo amministrativo e il loro accesso ai nostri sistemi è stato interrotto”.

Il contratto ‘Project Nimbus’ da 1,2 miliardi di dollari è stato firmato nel 2021, e prevede sia da parte di Google sia di Amazon la fornitura di infrastruttura cloud alle forze armate israeliane. Secondo gli organizzatori, anche i dipendenti di Amazon hanno partecipato alle manifestazioni di martedì.

Già a dicembre alcuni dipendenti Google avevano diffuso e-mail interne e protestato fuori dagli uffici aziendali organizzando una manifestazione sotto uno degli edifici del colosso tecnologico a San Francisco, bloccando il traffico di una strada. A marzo Google ha licenziato un dipendente che nel corso di una conferenza a New York aveva protestato durante il discorso del massimo dirigente della società in Israele.

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Gaza - Via libera degli USA all’offensiva israeliana su Rafah

Una fonte egiziana ha rivelato al quotidiano Al-Arabi Al-Jadid che l’Amministrazione Biden ha approvato il piano d’attacco del gabinetto di guerra israeliano contro Rafah, in cambio Israele non lancerà un attacco su larga scala all’Iran. Inoltre funzionari americani hanno detto alla rete ABC che Israele non attaccherà Teheran prima della fine della Pasqua ebraica (22-29 aprile).

Al Arabi Al Jadid aggiunge le forze egiziane nel Nord Sinai sono in piena allerta lungo il confine con la Striscia di Gaza per far fronte allo scenario di un’invasione di Rafah. Il Cairo è in allarme da lunedì scorso, da dopo i colloqui avuti con Israele relativi proprio ai preparativi per la nuova fase dell’offensiva militare nel sud di Gaza.

Il piano israeliano prevederebbe la suddivisione di Rafah in quadrati numerati che verranno presi di mira uno dopo l’altro, spingendo i civili palestinesi al loro interno a scappare, in particolare verso Khan Yunis e Al-Mawasi. La fonte egiziana ha affermato che, nell’ambito dei preparativi egiziani, la capacità di assorbimento dei campi per sfollati nella città di Khan Yunis, che sono supervisionati dalla Mezzaluna Rossa egiziana, è stata aumentata e la quantità di aiuti che vi entrano è cresciuta.

Intanto la tv Kan riferisce che il gabinetto di guerra israeliano avrà difficoltà ad attuare la risposta originale, pianificata e approvata inizialmente contro l’Iran. Una risposta ci sarà, ma molto probabilmente sarà diversa da quanto previsto nella notte tra sabato e domenica. Gli alleati occidentali, ha aggiunto la rete televisiva, sanno “che Israele risponderà ma che nessuno può garantire che la risposta non porti ad un’ampia escalation” con l’Iran.

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Il nuovo disordine mondiale / 25: Fratture della guerra estesa

di Sandro Moiso

«Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, LUISS University Press, Roma 2023, pp. 170, 18 euro

«Grand Continent» è una rivista online consacrata alla geopolitica, alle questioni europee e giuridiche e al dibattito intellettuale con lo scopo di “costruire un dibattito strategico, politico e intellettuale”. Nata nell’aprile 2019, è pubblicata dal Groupe d’études géopolitiques, associazione indipendente fondata presso l’École normale supérieure nel 2017. A partire dal 2021 è integralmente pubblicata in cinque lingue diverse: francese, tedesco, spagnolo, italiano e polacco.

Gli articoli sono scritti da giovani ricercatori e universitari, ma anche da esperti e intellettuali di vario indirizzo, come: Carlo Ginzburg, Henry Kissinger (†), Laurence Boone, Louise Glück, Toni Negri(†), Olga Tokarczuk, Thomas Piketty, Élisabeth Roudinesco e Mario Vargas Llosa.

«Grand Continent» ha animato un ciclo di seminari settimanali presso l’École normale supérieure, nonché un altro di conferenze trasmesse da Parigi in numerose città europee e divenuto un libro, Une certaine idée de l’Europe, pubblicato dall’editore Flammarion nel 2019 (con scritti di Patrick Boucheron, Antonio Negri, Thomas Piketty, Myriam Revault d’Allonnes e Elisabeth Roudinesco). Gli articoli della rivista sono stati ripresi in numerosi quotidiani e media internazionali.

Fratture della guerra estesa è il secondo volume cartaceo di «Grand Continent», il primo pubblicato anche in italiano. Uscito per LUISS University Press, pur presentando contenuti per molti punti di vista ampiamente discutibili, si rivela comunque di grande interesse per chiunque voglia affrontare i problemi connessi all’attuale età della guerra e della crisi dell’ordine occidentale del mondo seguito sia alla fine della guerra fredda e alla fine dell’URSS che alla successiva crisi apertasi con la fine della globalizzazione o, almeno, di ciò che l’Occidente intendeva come tale.

Il titolo della rivista rinvia al Grande Continente, intendendo con questa definizione l’Europa nella sua possibile concezione francese (sottintendente per questo una grandeur che viene estesa all’intera politica continentale), sia nelle sue scelte economiche che politiche e strategico-militari.

Il contenuto, in questo numero, è ancora incentrato sulla guerra in Ucraina, essendo uscito, in Italia, proprio nel mese di ottobre 2023, a ridosso dell’azione militare di Hamas e delle sue conseguenze politiche, militari e umanitarie. Ma pur mantenendo il baricentro sulla frontiera orientale d’Europa, allarga comunque lo sguardo al rapporto tra guerra, tecnica, tecnologia e tecnocrazia (si vedano gli articoli da pagina 69 alla 113) e alla dottrina della “guerra ecologica” con gli articoli compresi tra pagina 117 e pagina 154.

Un panorama della guerra che viene oppure, a seconda dei punti di vista, che è già in atto che pone comunque al centro, fin dall’introduzione di Gilles Gressani e Mathéo Malik, il progressivo spostamento della centralità politica, militare ed economica dall’Occidente, e in particolare dall’Europa, ad altre aree, non solo geografiche.

Tra la pandemia e l’esplosione delle rivalità geopolitiche, un ordine è crollato; dal lento muoversi delle placche tettoniche, un nuovo mondo emerge, senza che si possa ancora definire la sua forma. Interregno: intervallo di tempo fra la morte, l’abdicazione, la deposizione di un re, o altro sovrano, e l’elezione o la proclamazione del successore. Periodo di vacanza, di passaggio, di transizione, di crisi. Interruzione di durata variabile. Tendenze di un mondo in profonda ristrutturazione, che però non siamo in grado di descrivere, trasformare o fermare1.

È una considerazione concisa e importante allo stesso tempo, quella appena citata. Una considerazione che riguarda l’ordine imperiale e geopolitico del mondo, in sempre più rapida trasformazione. Una considerazione in cui l’unico elemento assente è quello della lotta di classe che, comunque, tarda ancora a manifestarsi nelle forme e modalità ritenute canoniche. Motivo per cui, esattamente come per l’ordine geopolitico e imperiale messo in crisi, anche tanta Sinistra, sia istituzionale che (pretesa) radicale o antagonista, si è trovata impreparata, sorpresa e confusa una volta messa di fronte alla guerra. Fino al punto di schierarsi apertamente, e senza alcuna capacità previsionale, con uno dei fronti in lotta.

Ecco allora che la rivista qui recensita, che pure tifa per una delle parti già coinvolte nella lotta “dinastica”, in corso su scala planetaria da tempo, ma esplosa davanti a tutti a partire dall’invasione russa dell’Ucraina, ovvero per l’Europa così come fino ad ora ha voluto fingere di rappresentarsi, può costituire un utile punto di riferimento per una riflessione che voglia escludere qualsiasi complottismo o interpretazione ideologizzata a proposito del nuovo disordine mondiale.

Nuovo disordine mondiale in cui tutti gli attori statali, economici e militari, pur fingendo grande unità di intenti con i presunti vicini e alleati, giocano in realtà per se stessi. In una partita il cui disordine aumenta man mano che tutte le regole precedentemente stabilite dal Risiko occidentale vengono abbandonate, tradite o ridefinite da ogni giocatore senza accordo alcuno con tutti gli altri player. Si tratti di Unione Europea, di NATO o di Brics (solo per sintetizzare in poche sigle), nessuno sembra davvero affidarsi totalmente agli alleati. In particolare nei confronti di quelli occidentali ed europei. Come si sottolinea ancora nell’introduzione:

Nella guerra che oppone la Russia all’Ucraina, i tre quarti della popolazione mondiale scelgono di non scegliere. Il non allineamento resta una leva potente per difendere i propri interessi. Dall’India di Modi al Brasile di Lula, passando per l’Indonesia di Jokowi o per le potenze del Golfo, delle nuove potenze geopolitiche formulano nuove priorità. Hanno dei mezzi, delle ambizioni a volte immense. Sfrutteranno tutte le estensioni della guerra per guadagnare il riconoscimento dei loro interessi. Utilizzeranno anche dei “modelli di crescita elaborati nel secolo scorso, in particolare la politica industriale e il capitalismo politico”. Bisogna studiarli da vicino per capire la loro forza di attrazione sul resto del mondo, ai danni di un continente ancora una volta traumatizzato, finalmente – e definitivamente? – provincializzato2.

E tutto ciò, che non può far altro che acuire il disordine e farlo precipitare in una guerra “grande” che già non si sa più se sia la Terza o la Quarta guerra mondiale e che più che essere la manifestazione di un “piano” o di più “piani” organizzati, è invece quella di una confusione generale di intenti e obbiettivi che non coincidono affatto, ma che confliggono tra di loro, anche all’interno dei maggiori paesi coinvolti.

Si badi, per esempio, alle esternazioni di Macron sulla volontà di inviare truppe in Ucraina: è forse un tentativo di compattare la Nazione in vista di un nuovo ruolo geopolitico della Francia oppure quello di mostrare che la grandeur della stessa (vecchio sogno di De Gaulle) potrebbe sostituirsi alla presenza americana, soprattutto dal punto di vista militare in Europa, dopo le dichiarazioni di disimpegno del tutt’altro che pacifista Trump in caso di vittoria di quest’ultimo alle prossime elezioni presidenziali?

Oppure è una sfida al Regno Unito e alla Germania sul piano militare e politico per chi davvero, in Europa, dovrà portare i pantaloni “mimetici” in casa? E tutte queste possibili considerazioni come possono condurre ad un reale impegno militare comune europeo e ad una centralizzazione del comando della forze armate dei paesi della UE?

Senza contare l’eterna conflittualità con l’italietta dei piani Mattei e dei sotterfugi per rimanere nell’Africa Sub-sahariana a discapito della presenza politica e militare francese nella stessa area. Oggi resa ancor più critica dopo la vittoria elettorale in Senegal di una fazione politica a lungo perseguitata da un Presidente particolarmente fedele all’Occidente e alla Francia.

Ridurre il tutto al conflitto per il petrolio sarebbe enormemente fuorviante. Certo il conflitto per l’oro nero insanguina il pianeta fin dalla prima guerra mondiale ed è giunto, oggi, fin davanti alle spiagge di Gaza, ma sottolineare un unico movente per il disordine che attanaglia il pianeta, nelle sue forme più sanguinarie e distruttive, è davvero troppo riduttivo e fuorviante. Tenendo anche conto del fatto che, come si segnala ancora nella stessa introduzione: «L’importazione di chip da parte della Cina – 260 miliardi di dollari nel 2017, anno dei primi passi di Xi a Davos – è stata di gran lunga superiore alle esportazioni di petrolio dell’Arabia Saudita o all’export di automobili della Germania. Le somme che la Cina spende ogni anno per l’acquisto di chip sono superiori a quelle dell’intero commercio globale di aerei. Nessun prodotto è più importante dei semiconduttori nel commercio mondiale»3.

Pertanto, ancora solo a titolo d’esempio, la questione Taiwan va ben al di là del semplice interesse “nazionalistico” poiché, come ormai tutti dovrebbero sapere, l’isola rivendicata dalla Cina è il primo produttore mondiale di circuiti integrati. Settore, quest’ultimo, rispetto cui Pechino sta cercando di raggiungere una posizione di autonomia sia attraverso il controllo delle cosiddette “terre rare” necessarie per la produzione degli stessi, e del settore informatico ed elettronico più in generale, sia attraverso ciò che Xi definì proprio nel 2017 come l’“assalto ai valichi” ovvero al monopolio o ai monopoli della produzione dei semiconduttori, particolarmente importanti ormai anche dal punto di vista militare in un contesto in cui la Cina cerca da anni, in parte riuscendoci, di superare le forze armate americane sul piano dell’ammodernamento e nell’utilizzo dell’IA.

Se l’unico obiettivo della Cina fosse quello di giocare un ruolo maggiore in questo ecosistema (il settore dei semiconduttori – NdR), le sue ambizioni avrebbero potuto essere soddisfatte. Ma Pechino non sta cercando una posizione migliore in un sistema dominato da Washington e dai suoi alleati. L’invito di Xi a “prendere d’assalto le fortificazioni” non è una richiesta di una quota di mercato leggermente più alta. L’ambizione è diversa: si tratta di ricreare interamente l’industria globale dei semiconduttori, non di integrarsi al suo interno [...] È una visone economica rivoluzionaria, con il potenziale di trasformare profondamente l’economia globale e i suoi flussi commerciali [...] E non sono solo i profitti della Silicon Valley a essere minacciati: se lo sforzo cinese verso l’autosufficienza nei semiconduttori avrà successo, i suoi vicini, le cui economie dipendono per lo più dalle esportazioni, ne risentiranno ancora di più [...] La posta in gioco è il più fitto insieme di catene di approvvigionamento e flussi commerciali del mondo, le filiere dell’elettronica che hanno sostenuto la crescita economica e la stabilità politica dell’Asia nell’ultimo mezzo secolo [...] Nemmeno un populista come Trump avrebbe potuto immaginare una revisone più radicale dell’economia globale4.

Ma, ancora una volta, questo è solo uno degli elementi di confronto e conflitto, sospeso tra l’economico e il militare, che agitano le acque, non solo del Mar Rosso o del Golfo Persico. Motivo per cui, anche se per le ragioni precedentemente esposte, «Grand Continent» non poteva ancora parlarne, un ultimo sguardo, e forse anche qualcosa di più, va concesso a quanto sta capitando a Gaza e dintorni. A partire dall’ambigua posizione statunitense nei confronti di Isarele e del conflitto e ai massacri condotti nella striscia. Posizione che, con l’astensione (e non il veto) sulla mozione approvata dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 25 marzo, più che dimostrare una ben organizzata strategia statunitense per il Medio Oriente dimostra invece come il percorso ambiguo e altalenante sia dovuto più a indecisioni e debolezze, sia nei confronti di un elettorato interno stanco di Biden che di un mastino come Netanyahu che, nel suo disperato attaccamento al potere, morde la mano del suo attuale “padrone” sperando nell’arrivo, a novembre, di un altro meglio disposto (per ora soltanto a parole), più che a un ben mirato piano di controllo delle contraddizioni dell’area.

In un contesto in cui, sia con un presidente democratico che repubblicano, gli Stati Uniti dovranno tenere sempre più conto delle tendenze centrifughe degli alleati arabi e, allo stesso tempo, della sempre più forte presenza economica e diplomatica cinese nell’area del Golfo. Con un progressivo allontanamento da Israele come unico garante degli interessi americani nell’area medesima.

In fin dei conti la confusione israeliana nell’azione a Gaza è lo specchio della confusione americana e occidentale in genere. Confusione che, attualmente, è in grado di garantire soltanto il diffondersi di un paesaggio di rovine da Gaza City a Kiev e Belgorod senza altra prospettiva del protrarsi e l’inasprirsi di una guerra che, in assenza di una diversa azione delle classi meno abbienti contro la stessa, seguirà il suo corso fino all’estensione di un panorama di rovine su scala planetaria e da cui uscirà, forse, un nuovo sovrano.

In questo senso le riflessioni e i contributi contenuti nella rivista in questione possono essere di stimolo anche per un lavoro politico che non sia soltanto di passiva accettazione dell’esistente o, al contrario, di interpretazione inutilmente e dannosamente ideologica degli avvenimenti e dei cambiamenti politici, militari ed economici attualmente in corso.

Note

  1. G. Gressani e M. Malik, Introduzione a «Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, LUISS University Press, Roma 2023, p. 8.  

  2. G. Gressani, M. Malik, op. cit., p. 11.  

  3. G.Gressani e M. Malik, op. cit., p.12.  

  4. C. Miller, Da Taiwan al metaverso: infrastrutture dell’iperguerra in «Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, op. cit., pp.94-95.

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Elezioni UE - Il 42% degli europei non la vede bene

Gli indecisi e gli astensionisti sarebbero in calo a due mesi dalle prossime elezioni europee. A rivelarlo è il sondaggio Eurobarometro pubblicato ieri (17 aprile), l’ultimo consentito prima delle elezioni del prossimo giugno.

“L’indagine fa luce sul comportamento di voto degli europei, sui loro atteggiamenti nei confronti dei temi della campagna elettorale e sulle preferenze per i valori prioritari per la prossima legislatura del Parlamento europeo” spiega la presentazione del sondaggio che si concentra anche sulla percezione che i cittadini hanno del Parlamento europeo e dell’Unione Europea sulla loro prospettiva di vita nella Ue, nonché sulle loro opinioni sull’Unione nell’attuale scenario globale.

Quattro europei aventi diritto su dieci (41 per cento) dichiarano di non essere davvero interessati all’appuntamento, eppure se si andasse alle urne tra una settimana, a esercitare il diritto di voto sarebbe il 70 per cento degli aventi diritto.

Il precedente sondaggio condotto a dicembre scorso registrava un’affluenza potenziale dichiarata del 67 per cento, con un tasso di astensionisti veri o presunti del 38 per cento. Adesso, guardando a chi dichiara di non avere intenzione di votare (16 per cento) e chi ancora non sa se voterà (14 per cento), questo indice si riduce di otto punti percentuali, scendendo al 30 per cento.

Sulle prospettive dell’Unione Europea, il 42% degli intervistati si dice molto o abbastanza pessimista. Specularmente il 54% si dice molto o abbastanza ottimista.

Il 2024 del resto è un anno elettorale importante, con le elezioni che si svolgeranno in Europa e negli Stati Uniti ma anche in paesi importanti come India e Gran Bretagna.

Gli italiani sembrano avere una buona considerazione del Parlamento (ne parla male solo il 14 per cento degli intervistati), ma non ritengono che un impegno europeo sia utile.

Sette intervistati su dieci (70 per cento) ritengono che la propria voce non conti e che resti dunque inascoltata nell’Unione europea. Una disaffezione che spiega perché attenzione e attrazione per le prossime elezioni europee non appaiono proprio da “euro-entusiasti”.

Per quanto riguarda l’interesse per la politica, questo in Italia appare piuttosto basso. Che sia locale (57 per cento), che sia europea (59 per cento) o nazionale (58 per cento), la politica è argomento di conversazione solo “occasionalmente” per gli italiani che, tra l’altro, appaiono poco soddisfatti dell’attuale governo.

Sei italiani su dieci (59 per cento) sostengono che nel Paese “le cose non stanno andando nella giusta direzione”, non certo un segnale incoraggiante per Giorgia Meloni e i suoi alleati.

Per un italiano su dieci (11 per cento) le cose sono grossomodo stabili, solo tre italiani su dieci (30 per cento) si ritengono soddisfatti per come vanno le cose.

Quando viene chiesto se la situazione economica del Paese da qui a un anno migliorerà, neanche due intervistati su dieci (18 per cento) rispondono positivamente, mentre la maggioranza (45 per cento) ritiene che le cose non cambieranno e addirittura un terzo della popolazione con diritto di voto (33 per cento), si attende peggioramenti.

Infine ci sono le priorità, per la maggioranza dei cittadini europei intervistati (quasi il 30%) sono quelle del lavoro e della situazione economica, seguono poi il cambiamento climatico e l’istruzione (il 24%), la salute e la democrazia (21%), la Difesa e la sicurezza (20%), e solo dopo c’è il problema dell’immigrazione (19%).

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