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07/04/2018

Zucca e i torturatori: l’orrore di Genova

Un estratto dal libro “Genova Macaia” (ed.Laterza), di Simone Pieranni, in cui l’autore racconta le testimonianze raccolte nelle aule di tribunale di quanto accaduto nei giorni del G8 nel carcere di Bolzaneto.

Sulla caserma ho affrontato in tribunale gli sguardi degli imputati, di tutti gli imputati, compresi gli sguardi dei «colleghi». Lo sguardo poco rassicurante di chi sa che certe cose non verranno dimenticate. E ho sentito e letto di tutto. E poi dovevo scriverne.

Vivevo a Milano, fino alla mia partenza per la Cina, e facevo il pendolare al contrario: tutte le mattine alle 7.10 prendevo il treno. Alle 8.50 arrivavo a Genova, alla stazione Principe. Scendevo, tempo di immettermi in via Balbi e la prima focaccia arrivava secca sullo stomaco. Focaccia con le cipolle e cappuccino, se si pensava di avere tempo perché l’udienza iniziava più tardi.

Dopo il G8, quando mi è capitato di dire «sono di Bolzaneto», ho sempre visto un impercettibile movimento delle labbra e degli occhi nel mio interlocutore. È un lampo nell’animo, un ricordo tagliente; che uno sia stato a Genova o meno in quei giorni del 2001, Bolzaneto è quella roba lì: una ferita comune, un’offesa comune.

E il problema, da genovese, è che è l’ennesima. Bolzaneto è diventata cosa? È diventata la «posizione del cigno», è diventata il triage del dottor Toccafondi, le dita spaccate di una ferita alla mano, un salame sui genitali, «vi stupriamo come in Bosnia», «un due tre Pinochet». È il ministro della Giustizia che non vede nulla, niente, tutto a posto! È l’assessore alla sicurezza del sindaco Marino, che nel 2001 è magistrato addetto a Bolzaneto, che non vede nulla, niente, tutto a posto!

Ma, oltre alle vittime, c’è un cazzo di infame. Un infermiere. Infermiere penitenziario. Un genovese. Che racconta un’altra storia. In quelle aule di tribunale si fa presto a far diventare la minaccia di uno stupro un titolo di giornale. Sono capaci tutti.

All’epoca ci guardavamo sconvolti: mesi di lavoro e di testimonianze, e una dose di cinismo che cominciava a riempire di tacche il cuore, ma quando uscivano fuori le atrocità commesse dentro la caserma di Bolzaneto, era troppo anche per noi. Io sognavo manganelli e pietre che volavano, rincorse, sbuffi dei poliziotti e carabinieri, sentivo l’aria passarmi accanto rapida, mentre dormivo. L’odore di benzina e gli elicotteri lì sopra. Ancora oggi alcune persone si terrorizzano a sentire gli elicotteri. Ancora oggi alcune persone si terrorizzano a sentire nominare la caserma di Genova Bolzaneto. È una storia, del resto, che sembra non finire mai.

Un ragazzo che ha dieci anni meno di me mi ha detto: «Genova per me è un incubo: qualunque cosa si faccia, Genova incombe». La pesantezza delle sconfitte. A Bolzaneto fu rappresentata in modo plastico.

È il 6 maggio 2005. Il giudice per l’udienza preliminare di Genova rinvia a giudizio 45 imputati appartenenti alle forze dell’ordine in servizio a Bolzaneto fra il 19 e il 21 luglio 2001, formulando a loro carico ben 120 distinti capi d’imputazione: avere ingiustificatamente e ripetutamente percosso, o avere consentito che altri percuotessero, con calci, pugni e schiaffi e talvolta colpi di manganello alla testa, al volto, alla schiena, ai reni, allo stomaco, ai testicoli, nonché attingendole con gas asfissianti e urticanti, le persone arrestate presenti nella caserma di Bolzaneto, cagionando a vari arrestati malori e/o lesioni personali e, in un caso, una lesione grave (cagionata da un agente di polizia che divaricò con forza due dita di una mano di un arrestato, provocandogli così una ferita lacerocontusa guarita in 50 giorni); avere costretto, o non impedito che altri costringessero, le persone arrestate presenti nella caserma di Bolzaneto a «rimanere per numerose ore in piedi all’interno delle celle, con il viso rivolto verso il muro della cella, con le braccia alzate oppure dietro la schiena, o sedute per terra ma con la faccia rivolta verso il muro, con le gambe divaricate, o in altre posizioni non giustificate […], senza poter mutare tale posizione», e a subire «percosse calci pugni insulti e minacce, anche nel caso in cui non riuscivano più per la fatica a mantenere la suddetta posizione nonché per farli desistere da ogni benché minimo tentativo, del tutto vano, di cercare posizioni meno disagevoli»; avere minacciato, o comunque non impedito che altri minacciassero, di infliggere violenze sessuali o lesioni fisiche a numerosi arrestati, in un caso simulando addirittura un’esecuzione sommaria; avere costretto, o non impedito che altri costringessero, le persone arrestate che dovevano essere accompagnate ai bagni a «camminare con la testa abbassata all’altezza delle ginocchia e le mani sulla testa», mentre altro personale appartenente alle forze dell’ordine presente nei locali le derideva, ingiuriava e percuoteva; avere mantenuto, o avere consentito che altri mantenessero, le persone arrestate senza rifornimenti di cibo, bevande e generi necessari alla cura e alla pulizia personale in quantità adeguata in rapporto alla lunga durata del periodo di permanenza presso la struttura; avere costretto, o comunque non impedito che altri costringessero, taluni degli arrestati a ripetere frasi fasciste o comunque contrarie alle loro convinzioni politiche, o comunque «ad ascoltare espressioni e motivi di ispirazione fascista contrariamente alla loro fede politica» (quali inni e slogan fascisti); avere costretto, o comunque non impedito che altri costringessero, a compiere movimenti innaturali aventi lo scopo di umiliarli; avere costretto, o avere consentito che altri costringessero, un’arrestata a subire il taglio di tre ciocche di capelli; avere pesantemente offeso, o non avere impedito che altri offendessero, l’onore delle persone arrestate a mezzo di «insulti riferiti alle loro opinioni politiche (quali ‘zecche comuniste’, ‘bastardi comunisti’, ‘comunisti di merda’, […], ‘Che Guevara figlio di puttana’, ‘bombaroli’, ‘popolo di Seattle fate schifo’ e altre di analogo tenore), alla loro sfera e libertà sessuale e alle loro credenze religiose e condizione sociale (quali ‘ebrei di merda’, ‘frocio di merda’ e altre di analogo tenore)»; avere costretto, o avere consentito che altri costringessero a mezzo di percosse o altre violenze, taluni degli arrestati a firmare i verbali relativi all’arresto contro la loro volontà; avere danneggiato o sottratto, o consentito che altri danneggiassero o sottraessero oggetti personali alle persone arrestate; non avere consentito alle persone arrestate di avvisare familiari e parenti del loro arresto, e agli arrestati di nazionalità stranieri di avvertire l’ambasciata o il consolato del paese di appartenenza, attestando anzi falsamente sui verbali relativi all’arresto – o consentendo che altri attestassero falsamente sui verbali medesimi – la volontaria rinuncia degli arrestati a tali facoltà.

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