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11/04/2018

Il lavoro, le tecnologie, l’automazione e le conseguenze sulla classe

Nei prossimi giorni parteciperemo ad un ciclo di incontri su Tecnologia, Lavoro e Classe che si svolgeranno a Roma (info nella locandina qui sopra).

Il progresso tecnologico è un fenomeno per sua natura complesso e controverso. Nonostante la vulgata mainstream tenda a presentarlo come un fenomeno meramente tecnico, neutrale e quasi salvifico, ha ovvie implicazioni politiche e sociali. Già alcuni tra i fondatori dell’economia politica si interrogavano sul ruolo che meccanizzazione dei processi produttivi, introduzione delle macchine e possibile sostituzione del lavoro umano avrebbero avuto nel disciplinare ed orientare il conflitto di classe a favore delle classi dominanti. Si può tracciare infatti una linea ideale che parte da David Ricardo – il quale notava come l’introduzione delle macchine potesse al contempo “rendere esuberante la popolazione e peggiorare le condizioni dei lavoratori” – ed arriva a Marx, per il quale le macchine possono risultare funzionali al disegno dei capitalisti di comprimere “il prezzo della forza lavoro al di sotto del suo valore”. In questa maniera, ci dice Marx, la sovrappopolazione relativa “forma un esercito industriale di riserva disponibile che appartiene al capitale in maniera assoluta come se fosse stato allevato a sue spese”. L’utilizzo delle macchine, all’interno di un sistema capitalista, è d’altro canto uno dei terreni di lotta sui quali il conflitto distributivo prende forma. L’introduzione delle macchine nel processo produttivo rende momentaneamente superflua una parte della popolazione, ingrossando le fila dell’esercito industriale di riserva. Come conseguenza, aumenta la concorrenza all’interno della forza lavoro, con ripercussioni negative sui salari e sulle condizioni lavorative.

Tuttavia il processo di creazione di “disoccupazione tecnologica” (la disoccupazione creata dalla sostituzione di lavoratori con macchine all’interno del processo produttivo) non è lineare nel tempo e nello spazio. Se l’espansione dell’esercito di riserva è tale da comprimere in maniera rilevante il livello medio dei salari, il capitalista sceglierà processi produttivi ad alta intensità di lavoro. Questo dà vita ad un processo “a fisarmonica”, caratterizzato da un’alternanza di fasi di espansione e di contrazione dell’esercito industriale di riserva, dettato dal rivoluzionamento dei metodi di produzione e strutturalmente “assoggettato alla sete di sfruttamento e alla bramosia di dominio del capitale”. Il fenomeno ha anche una dimensione spaziale e si interseca con la divisione internazionale del lavoro, che da un lato vede deindustrializzazione e terziarizzazione dei paesi più ricchi, ma dall’altro vede un incremento dell’occupazione nella manifattura e nell’industria nei paesi in via di sviluppo, dove salari vergognosamente bassi rendono il lavoratore umano molto più conveniente del robot o della macchina che dovrebbero sostituirlo.

Alla luce di queste considerazioni, si deve quindi concludere che il progresso tecnico vada avversato e considerato inerentemente nemico delle classi lavoratrici? La risposta non può ovviamente essere così semplice. Una società capitalista senza progresso tecnico sarebbe una società ugualmente ingiusta e sarebbe senza dubbio più povera. La disoccupazione tecnologica sarebbe sostituita da disoccupazione strutturale, ma le condizioni delle classi subalterne non sarebbero certamente migliori. La questione da porre, allora, è ancora una volta la stessa di sempre: ciò che rileva è chi si appropria dei benefici del progresso tecnico e chi ne decide gli indirizzi. Andando più a monte, chi detiene i mezzi di produzione e chi controlla il processo produttivo. Durante i cosiddetti “trenta gloriosi” – dal secondo dopoguerra agli anni Settanta – il progresso tecnico, guidato principalmente dal settore pubblico, ha convissuto con politiche keynesiane volte al perseguimento della piena occupazione. La coscienza di classe, il grado di coesione dei lavoratori ed una conflittualità diffusa hanno fatto sì che l’aumento della produttività del lavoro premiasse anche i lavoratori, sia in termini di remunerazione salariale che di condizioni lavorative, tra cui la riduzione dell’orario lavorativo. Approfondire queste contraddizioni diventa allora di primaria importanza, per rompere un’impossibile alternativa tra una società iper-tecnologizzata e popolata da lavoratori sfruttati ed atomizzati ed una società pauperista della decrescita felice.

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