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12/03/2018

Siria - Truppe turche a 2km da Afrin

Le truppe turche e i miliziani dell’Esercito Libero siriano al soldo di Ankara sono alle porte di Afrin. Due chilometri dalla principale città del cantone curdo nel nord della Siria. La paura è enorme, la paura di un massacro.
 
Nel silenzio internazionale per un’offensiva fuori dalla legalità, l’amministrazione autonoma di Afrin ha fatto appello al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite perché intervenga a fermare Ankara: “Negli ultimi giorni lo Stato fascista turco sta cercando di portare avanti attacchi contro la popolazione civile ad Afrin – si legge nel  comunicato, letto ieri da Sex Isa, co-presidente del Consiglio esecutivo – Centinaia di civili, compresi donne e bambini, sono stati massacrati a seguito di questi attacchi. Oltre agli attacchi armati, l’esercito turco invasore sta cercando di prendere di mira gli approvvigionamenti di acqua potabile, scuole e abitazioni”.

Si mobilita anche la popolazione: i civili si stanno organizzando per fare da scudi umani intorno alla città per impedire l’invasione dei carri armati turchi. Ieri altri villaggi della periferia nord e sud di Afrin sono stati occupati dalle truppe turche e dall’Esercito Libero. Le ultime ore sono state pesantissime: i raid aerei si sono intensificati, internet è stato sospeso e l’acqua corrente interrotta. Dietro, la minaccia del presidente Erdogan che sabato dava Afrin per caduta in pochi giorni e l’intenzione di procedere oltre, verso est, verso Kobane e Manbij. Parla di “liberazione”, Erdogan, e del piano di spostare ad Afrin centinaia di migliaia di rifugiati siriani che oggi si trovano in territorio turco. E accusa anche la Nato di non appoggiare direttamente “Ramo d’Ulivo”.

Eppure un sostegno c’è, quello del silenzio più totale: gli Stati Uniti, alleati dei curdi nel nord, non parlano né intervengono, la Russia – dopo l’iniziale via libera al governo di Damasco ad inviare combattenti al confine – tace e lo stesso governo siriano non sta utilizzando gli uomini filo-Assad mandati nelle scorse settimane ad Afrin a difesa delle frontiere. Un’omertà che permette ad Ankara di allargare ulteriormente le operazioni: ieri sono ripresi i bombardamenti aerei contro il nord dell’Iraq e almeno 18 postazioni del Pkk, nelle montagne di Qandil dove i combattenti curdi si ritirarono durante il processo di pace voluto da Ocalan. All’iniziale protesta irachena, Ankara ha risposto con una serie di accordi bilaterali siglati a gennaio con cui zittire il governo di Baghdad.

La situazione nel cantone è terribile: al mezzo milione di sfollati che vivono ad Afrin, accolti in questi anni dai 500mila abitanti originari, se ne aggiungono altri. Fonti interne raccontano di famiglie che aprono le porte a chi ha perso la casa, ma ora la crisi si allarga a causa della mancanza di acqua e la scarsità di cibo e medicinali.

Da Afrin dove si trova per raccontare l’operazione turca “Ramo d’Ulivo”, lanciata dalla Turchia il 20 gennaio, Jacopo Bindi ieri scriveva: “Nelle ultime ore la situazione ad Afrin si è fatta più critica: l’esercito turco invasore e le bande jihadiste sue alleate si sono avvicinate alla città da diversi lati, in particolare dalla direzione di Shera. Sono a 2,5 km di distanza e minacciano direttamente la città. La situazione dentro Afrin è quella che c’era già in questi giorni, quindi alta densità di popolazione, tanti rifugiati dai villaggi che qui hanno trovato rifugio dalla guerra e dai bombardamenti, mancanza di acqua perché quando i jihadisti e l’esercito turco hanno preso la diga di Meidanki hanno tagliato la fornitura e bombardato le stazioni di pompaggio in altri villaggi”.

“Mancano anche alcuni generi di prima necessità. Adesso il rischio concreto è che nelle prossime ore ci sia una situazione sempre più critica e che attacchino la città; già in questo momento ci sono bombardamenti di artiglieria e di aerei nelle zone periferiche della città. Il Tev Dem ha chiamato a una mobilitazione generale, a una sollevazione in tutti i posti e le piazze del mondo per difendere Afrin”.

E sta succedendo. Tra sabato, ieri e oggi si stanno tenendo manifestazioni e presidi in tutta Europa: in Germania a Berlino, Amburgo, Dusseldorf, Brema, Stuttgart, Hannover, Colonia; in Olanda ad Amsterdam; in Francia a Parigi, Lione, Marsiglia e Tolosa; in Danimarca a Copenaghen; in Svezia a Stoccolma e Goteborg; in Norvegia a Oslo; in Russia a Mosca; nel Regno Unito a Nottingham, Manchester, Liverpool e Cambridge; in Svizzera a Zurigo; in Belgio a Bruxelles.

C’è anche l’Italia: sabato è stata a volta di Torino, oggi nel pomeriggio toccherà a Roma, Padova e Bologna.

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