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19/03/2018

Siria - Afrin cade ma Rojava non si arrende

La prima cosa che ieri mattina alle 8.30 le truppe turche e i miliziani dell’Esercito Libero Siriano hanno fatto una volta entrati nel centro della città di Afrin è stata la distruzione di un simbolo: la statua di Kawa, leggendario fabbro che il 21 marzo del 612 avanti Cristo liberò i medi, popolo considerato l’antenato di quello curdo, dai tiranni assiri e re Dehak. Kawa lo uccise e il 21 marzo è rimasto nell’immaginario curdo il giorno della rinascita e della liberazione, il Newroz.
 
Afrin è caduta in mano agli invasori a tre giorni dal Newroz, dopo 289 morti civili (secondo l’Amministrazione autonoma di Afrin molti di più: oltre 500 civili, 1.030 i feriti, 820 le vittime tra i combattenti). E potrebbero non restare gli unici: in città si continua a combattere e le unità di difesa popolari Ypg/Ypj hanno annunciato una strenua resistenza. Ieri mattina, marciando nel centro di Afrin, turchi e islamisti hanno dato fuoco alle bandiere delle Ypg trovate, sono entrati nella sede dell’Amministrazione autonoma e hanno esposto i loro vessilli, quelli dello Stato turco e quelli dell’Esercito Libero Siriano.

Da Ankara il presidente Erdogan festeggiava: “La maggior parte dei terroristi è già scappata con la coda tra le gambe. Le nostre forze speciali e i membri dell’Esercito Libero Siriano stanno ripulendo i resti e le trappole che si sono lasciati dietro – ha detto – Nel centro di Afrin, i simboli della fiducia e della stabilità stanno sventolando invece dei cenci dei terroristi”.

L’Amministrazione autonoma risponde: ora si passa dal confronto diretto, quello messo in atto nei quasi 60 giorni di operazione “Ramo d’Ulivo”, alle tattiche di guerriglia: ieri notte un ordigno è esploso in un edificio di Afrin, uccidendo 11 persone, di cui quattro membri dell’Esercito Libero. Non se ne conosce la responsabilità.

Da ieri quei miliziani sono impegnati nel saccheggio della città: foto pubblicate online li mostrano entrare nei negozi e nelle case di Afrin e portare via cibo, televisori, oggetti elettronici, caricarli su auto e camioncini e portarli via.
La leadership curda prova a dare la carica: “Le nostre forze – ha detto il copresidente Othman Sheikh Issa – sono presenti in tutto il distretto di Afrin. Queste forze colpiranno le posizioni del nemico turco e dei suoi mercenari in ogni occasione. Le nostre forze diventeranno il loro incubo costante”.

Parole dure che non sono dirette solo ai vertici del governo di Ankara. Sono dirette prima di tutto alla popolazione civile, al milione di persone del distretto di Afrin e ai 2,5 milioni di residenti nella regione settentrionale di Rojava (oltre quattro calcolando i rifugiati accolti in questi anni) che hanno visto cadere uno dei cantoni, uno delle colonne portanti del progetto del confederalismo democratico.

Giovani, famiglie, anziani ridotti alla fame in queste settimane di assedio, perpetrato tagliando l’acqua e costringendo oltre 150mila persone alla fuga dalla città di Afrin, attraverso il deserto di Shebha verso Aleppo.  Sabato l’Amministrazione autonoma aveva fatto appello alle agenzie internazionali perché soccorressero gli sfollati, in fuga senza cibo né acqua e bombardati dai raid aerei turchi. Sabato mattina almeno 13 persone erano morte così, quando un pick up su cui stavano scappando dall’invasione turca è stato centrato dai missili.

A loro si è rivolto Issa, ringraziando tutti per “la resistenza e la resilienza senza precedenti”, prima di annunciare ai media che tutti i civili sono in via di evacuazione da Afrin “per evitare una catastrofe umanitaria”. Il cibo manca da giorni, i forni hanno tamponato la crisi distribuendo pane gratis ma senza rifornimenti era impossibile nutrire tutta la popolazione rimasta. L’acqua potabile non arrivava più: la Turchia l’ha tagliata, chiudendo le reti idriche e interrompendo l’attività dei sistemi di pompaggio.

Ora si guarda avanti. Di fronte ci sono le minacce del presidente Erdogan che da settimane parla di un’avanzata ulteriore, verso Manbij e poi Kobane, due simboli della lotta delle Ypg e delle Ypj allo Stato Islamico ma anche della multiculturalità e la multietnicità del fronte di Rojava. Il portavoce del governo turco, Bekir Bozdag, ieri ha assicurato che la campagna militare proseguirà per “distruggere il corridoio del terrorismo e impedire la creazione di uno Stato terrorista”.

Peccato che i suoi primi alleati in “Ramo d’Ulivo”, l’Esercito Libero Siriano, abbia già fatto sapere che ogni operazione contro l’Isis è stata sospesa proprio per permettere di concentrarsi sulla guerra al confederalismo democratico curdo. Di certo c’è la storia di questi anni e l’assenza pressoché totale di conflitto tra l’Isis e le opposizioni siriane, islamiste e moderate.

A combattere l’Isis sono stati i combattenti e i civili di Rojava, acclamati dall’Occidente e dai media internazionali oggi silenti sul massacro di Afrin. Anche a loro si rivolge l’Amministrazione autonoma del cantone: “Le forze internazionali, la coalizione contro l’Isis, la Ue, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu hanno taciuto sugli attacchi. Ad Afrin sono in corso un genocidio e un’espulsione forzata. Questo mostra che le forze internazionali non si sono assunte le proprie responsabilità nei confronti del nostro popolo”. Che alla fine, come accaduto da secoli, ha come amiche solo le montagne. 

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