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17/03/2018

La nostra “area euromediterranea” contro la UE di Merkel e Macron

Abbiamo alle spalle le elezioni e davanti molte incertezze. Non si sa che tipo di governo verrà formato, non si sa se si tornerà presto alle urne (nel caso non venisse formato), né con quale legge elettorale (sta aumentando la pressione per avere un premio di maggioranza mostruoso). Di certo, però, il prossimo anno ci saranno le elezioni europee.

Com’è noto, non siamo mai stati “elettoralisti a prescindere”, ma abbiamo partecipato con molta convinzione al percorso di Potere al Popolo. Quindi questa scadenza, dal nostro punto di vista, ha un senso se ci si arriva con un’idea chiara di cos’è oggi l’Unione Europea, così come si partecipa a una elezione nazionale avendo chiaro che cos’è lo Stato, la sua struttura istituzionale, l’ambito di decisioni che lì dentro si possono prendere.

“A sinistra”, come si suol dire, c’è molta confusione su questo punto. Colpa di una scarsa (diciamo così) riflessione concreta sui mutamenti strutturali derivanti dall’entrata in vigore – progressiva e fin qui inarrestabile – di trattati che sottraggono materie decisive, strategiche, ai governi nazionali. Basti pensare all’obbligo di pareggio in bilancio, inserito addirittura nell’art. 81 della Costituzione, praticamente senza dibattito e senza opposizione, che di fatto esclude ogni possibilità di affrontare congiunture economiche avverse, consegnando di fatto alla potenza volubile dei mercati ogni soluzione.

Tra i molti elementi di confusione ce n’è uno che rende difficile persino “mettere a tema” il problema della partecipazione all’Unione Europea, delle possibilità di “riforma” o della necessità di “rottura”, riducendo una questione complessa a un banale problema di nazionalismo/internazionalismo. Come se fosse un problemino “ideologico”, una fissazione di alcuni, al pari del “reddito di cittadinanza” (o similari), utile soltanto a farsi notare nel deprimente panorama dell’”offerta politica”.

Al contrario, si tratta di comprendere la struttura istituzionale dentro cui viviamo e che regola il funzionamento di economia, istituzioni, relazioni sociali, ecc. In altre parole, dov’è collocato il potere politico oggi? Da dove originano le decisioni che ci riguardano? Chi è che le prende e quali possibilità ci sono di influire “democraticamente”? Quale “modello sociale” disegnano quelle già prese negli ultimi 30 anni (dagli accordi di Maastricht in poi)?

Insomma, le domande-chiave che descrivono il campo di qualsiasi attività politica – governativa o di opposizione – di qualsiasi livello di conflitto sociale e persino di una qualsiasi attività mutualistica.

Per dirla molto sinteticamente: da tempo immemorabile “fare politica” significa avere l’obiettivo di governare un paese, cambiarne le priorità privilegiando determinati interessi sociali anziché altri. Per fare questo, dopo aver conquistato il consenso sociale necessario, bisogna disporre del potere di decidere e degli strumenti per concretizzare le decisioni.

In pratica, se Potere al Popolo o un’altra formazione futura dovesse conquistare la maggioranza parlamentare – da sola o con alleati compatibili – nelle condizioni istituzionali attuali avrebbe la possibilità di realizzare quegli obiettivi di giustizia sociale per cui esiste?

Ci sembra assolutamente scontato che si troverebbe di fronte esattamente gli stessi condizionamenti sovranazionali, anzi, enormemente più rigidi a causa della sensazione di pericolo mortale che animerebbe in quel caso “i mercati”.

Le “condizioni istituzionali attuali” infatti assegnano molte delle leve del potere all’Unione Europea (alla Commissione e all’Eurogruppo, per essere precisi), mentre allo Stato restano le prerogative relative al prelievo fiscale e alla “sicurezza” (peraltro già molto integrate in organismi sovranazionali europei e Nato).

Insomma, ci troveremmo in una situazione simile a quella di Lega e M5S oggi. Formazioni che – nonostante abbiano praticamente abbandonato ogni critica seria alle “istituzioni sovranazionali” – vengono tuttora riguardate con sospetto, a causa di qualche eccesso verbale passato. Alla fine dell’incontro avuto ieri con Angela Merkel, il presidente francese Macron ha esplicitamente espresso l’irritazione dei vertici europei per il risultato delle elezioni italiane: “Il lavoro che ci aspetta è importante in un contesto europeo profondamente scosso da Brexit e dalle elezioni italiane che hanno visto montare gli estremi e che ci hanno permesso di toccare con mano le conseguenze di una lunga crisi economica e le sfide migratorie a cui non abbiamo saputo rispondere”.

Se “i mercati” hanno reagito con calma (Salvini e Di Maio non spaventano affatto la speculazione internazionale, con cui hanno da tempo stabilito relazioni diplomatiche distese), proprio le “istituzioni europee” sembrano soffrire di più il prevalere elettorale di forze fin qui considerate “euroscettiche”, anche se decisamente rabbonite dall’avvicinamento a Palazzo Chigi. C’è infatti da portare a termine, in tempi brevissimi, quella ristrutturazione della UE che va sotto il nome di “Europa a due velocità”, e l’avere a Roma un governo meno “sdraiato” di quelli imposti negli ultimi sette anni (da Monti in poi) è vissuto lassù come un problema di “efficienza”, anche se non è affatto una minaccia.

Si tratta di stringere accordi ferrei in pochissimo tempo (“È il nostro compito entro giugno: sulla zona euro, sui migranti, la politica di difesa, il commercio, la ricerca, l’istruzione, ci proporremo una chiara, ambiziosa tabella di marcia per la rifondazione della UE entro giugno“, ha spiegato Macron) e ogni esitazione del futuro governo italiano rischia di rallentare un treno già in forte ritardo (anche la Germania è stata ferma sei mesi per riformare la Grosse Koalition, l’alleanza tra democristiani e Spd).

Un governo davvero alternativo, insomma, troverebbe davanti a sé un vero plotone di esecuzione composto da mercati, Nato, Troika, UE, capitale finanziario. Costretto a fare il contrario di quanto messo in programma (come Tsipras in Grecia, nel 2015) oppure a mettere in piedi, in tutta fretta e con ovvio affanno, un “piano B” per resistere.

Non è dunque peregrina il tema che andiamo sollevando da tempo: l’Unione Europea è irriformabile (se non nel senso peggiorativo di Macron e Merkel), dunque occorre sapere che per realizzare un qualsiasi cambiamento orientato alla giustizia sociale bisogna passare attraverso la sua rottura.

Che non è esattamente un pranzo di gala...

I giornalisti di regime e anche qualche europeista “di sinistra” pone a questo punto l’alternativa ridicola: “voi volete portare l’Italia fuori dalla Ue e dall’euro? Allora siete nazionalisti e sovranisti!”.

Da un sistema di alleanze e trattati sovranazionali si può uscire in molti modi, ma sostanzialmente due: a) unilateralmente, da soli, come “via nazionale”, oppure b) dando vita o entrando in un altro e diverso sistema internazionale di alleanza/trattati.

L’obiettivo positivo che dunque indichiamo è la costruzione di un’area euromediterranea, tra paesi che hanno sistemi produttivi più simili e compatibili, tra forze politico-sociali che mettono al centro le esigenze prioritarie delle popolazioni invece che il massimo profitto per le imprese multinazionali, la speculazione finanziaria, il rigore di bilancio. Rompere dunque per costruire una area di integrazione regionale “altra”, soprattutto sul piano delle relazioni economico-sociali e delle scelte antibelliciste interne e reciproche tra i paesi e i popoli interessati a convergere su questa alternativa. Per impedire la prosecuzione del massacro sociale e interrompere l’escalation che spinge verso la guerra.

E’ questa un’idea che non sta in piedi, che – come ci siamo sentiti dire – “non interessa alla gente”, che “fa perdere voti”?

Facciamo sommessamente notare che gli elettori italiani (categoria spuria sotto il profilo sociale, ma i voti si contano...) hanno premiato con un pesantissimo 55% forze indicate da tutti come “euroscettiche”. Dunque la critica della Ue incontra consenso sociale; porta voti, non li fa perdere.

Certo, è una iattura che questo consenso sia raccolto da forze in alcuni casi parafasciste, apertamente razziste e xenofobe (Lega e Fratelli d’Italia, oltre agli zero virgola di Casapound e Forza Nuova), o da neodemocristiani “né di destra né di sinistra”. Ma proprio l’assenza di una consolidata alternativa reale, in grado di rappresentare un grado di “euroscetticismo sociale” almeno comparabile, ha decisamente favorito quel flusso di consensi a destra. Non a caso, tutte le forze uscite vincitrici dalle elezioni hanno dovuto mettere in primo piano promesse socialmente attrattive perché fortemente volute dalle componenti del nostro blocco sociale (e osteggiate proprio dalla UE): i lavoratori dipendenti vogliono l’abolizione della legge Fornero e del Jobs Act, i disoccupati di lungo corso sperano nel reddito di cittadinanza, ecc. Hanno mescolato questi elementi con la paura del diverso, dell’immigrato, del “nero”, dando forma a una guerra tra poveri che favorisce enormemente il predominio dell’establishment. Lo tocchiamo con mano ogni giorno, nel nostro lavoro sociale e politico. Ma sciogliere questo intreccio è possibile. Faticoso, difficile, ma possibile. Lo vediamo soprattutto sui luoghi di lavoro, dove lo sfruttamento comune favorisce spazi di solidarietà e identificazione maggiori. In ogni caso, non si combatte il razzismo e il fascismo con le giaculatorie, con il “buonismo” veltroniano o le chiacchiere renziane.

Infine: esistono forze altrettanto radicali, in Europa, che hanno fatto della critica distruttiva dell’Unione Europea un obiettivo del proprio programma? Beh, basta leggersi cosa dice su questo punto il programma di France Insoumise, il movimento guidato da Jean-Luc Mélenchon che ha preso quasi il 20% alle elezioni presidenziali (Macron, ricordiamo, è andato al ballottaggio con il 24%, Marine Le Pen con il 21). O quel che dice Unità Popolare, il movimento greco nato dalla rottura con Syriza, guidato da Panagiotis Lafazanis, ex ministro dell’energia nel primo governo Tsipras (quello chiuso con il referendum per l’Oxi e la capitolazione). Al programma della Cup in Catalogna, e di altre forze progressiste in Spagna, Portogallo, Tunisia...

Dunque, la rottura dell’Unione Europea è un obiettivo internazionalista e di progresso sociale; anzi, è la precondizione perché un cambiamento sociale radicale possa essere realizzato.

Chi dice il contrario, lavora per altri interessi. Ne sia consapevole o no (sembra un paradosso, ma la confusione fa sragionare anche le persone più oneste).

Questa è la posta in gioco. Si tratta solo di prenderne atto.

p.s. Se non volete proprio prendere in considerazione le nostre argomentazioni, leggetevi almeno “il programma” dei consiglieri di Angela Merkel. Potrebbe aiutarvi a capire meglio in che Stato state ora vivendo... (feld)

p.s. Un sondaggio Swg, pubblicato ieri da Il Messaggero, attribuisce a Potere al Popolo il doppio dei voti rispetto al 4 marzo, passando all’1,1 al 2%. Le uniche altre forze in crescita sono M5S e Lega, i vincitori che – come sempre – vedono ora il loro carro riempirsi a vista d’occhio. Non vi fischiano un po’ le orecchie?

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