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19/03/2018

Bravi compagni

Nel 1965, vent’anni dopo la fine di Mussolini, Renzo De Felice, iniziando la sua nota biografia del “duce”, tiene a precisare: non può essere che politica. “Dove, ben s’intende, per «politica» non intendiamo […] «fascista» o «antifascista» che […] vorrebbe dire cercare di riportare artificiosamente in vita una realtà definitivamente morta”.

Non sarò io, più di cinquantanni dopo il mio antico maestro, a tentare di leggere un movimento politico contemporaneo secondo categorie valide per un passato storicamente concluso. Niente fascismo e antifascismo, quindi. Proverò, questo sì, a ricordare quanta sinistra ci fosse nel movimento dell’ex socialista Mussolini nel ’19.

Ricordare – talvolta è necessario quasi quanto respirare – per capire in che senso e mediante quali strumenti il “duce” e i suoi interpretarono e deformarono una indistinta necessità di rinnovarsi, reagire, far qualcosa; necessità che, di fronte alla crisi del dopoguerra, spinse verso i Fasci di Combattimento la disperata insofferenza per il presente dei disoccupati, degli artigiani, dei contadini e degli operai. Gente che spesso proveniva da una sinistra che prima li aveva illusi e poi delusi.

Una insofferenza che Mussolini condusse fino alle estreme conseguenze, ad un punto – per intenderci – che non aveva più nulla da spartire con i valori della sinistra che pure quelle masse si portavano dentro. Un modo di pensare che non gli apparteneva, “le tradizionali forme” che, per dirla con Cantimori, erano delle destre: “patriottiche e di odio contro qualsiasi straniero e forestiero”.

In fondo non sono meccanismi straordinari, ma le vie ordinarie di fuga, quando la disperazione incalza e la memoria storica è diventata corta. Certo, erano stati rivoluzionari, ma rinunziavano solo a un po’ della loro rivoluzione; erano stati socialisti, ma sacrificavano solo qualcosa del loro ideale per un “progresso generale” e una modernizzazione dell’antica fede. Così come inconsapevolmente si è poi passati da Marx a Keynes e si è giunti al neoliberismo. Lo specchietto per le allodole funziona bene: basta lotte e polemiche, basta divisioni ideologiche e che mai sarà? Destra e sinistra non sono forse categorie superate dalla Storia?

Fermiamoci a riflettere, al di là della morte del fascismo storico. Da un punto di vista “tecnico” o, se volete, “comunicativo”, nel programma di San Sepolcro non era forse questo il messaggio dell’uomo di Forlì, del rivoluzionario in cerca del reazionario? Non poté contare su una significativa presenza di socialisti, anarchici, sindacalisti e repubblicani? “Chi scorra i nomi degli intervenuti alla riunione milanese del marzo 1919 e al primo congresso dei Fasci di combattimento dell’ottobre successivo a Firenze e li confronti con quelli che presero parte al congresso […] napoletano dell’imminente vigilia della «marcia su Roma»”, scrive non a torto De Felice, “non può non notare come il gruppo dirigente pareva si fosse trasformato radicalmente e non […] per l’immissione di nomi nuovi […]. Nelle due serie di nomi è già sintetizzato tutta l’evoluzione – involuzione del fascismo”.

Si era partiti però da un inno alla libertà e da una presa di posizione contro l’imperialismo. Definitisi giudici nel “processo alla vita politica di questi ultimi anni” – ecco una scelta incredibilmente attuale – e rifiutato il ruolo di “parafulmini” della borghesia, gli uomini del nuovo movimento si dichiaravano favorevoli alle istanze dei lavoratori: otto ore e persino sei, pensioni di invalidità e vecchiaia, ruoli dirigenti per i lavoratori, a patto – ecco il tarlo che scaverà – di rispettare “la realtà della produzione e quella della nazione”. Via così, articolo su articolo, sino alla minaccia per gli “industriali che non si rinnovano dal punto di vista tecnico” e al rifiuto “di ogni forma di dittatura”.

Origini di sinistra e uomini di sinistra: l’ex segretario della Camera del Lavoro di Napoli, Michele Bianchi, quadrumviro della «marcia su Roma», Edmondo Rossoni, dirigente della Camera del Lavoro di Piacenza, per l’approdo corporativo di Palazzo Vidoni e uomini come Nicola Bombacci, uno dei fondatori del PCdI, a fare da garanti.

In quanti erano convinti? Tanti e a qualcuno va reso persino l’onore delle armi: Bombacci, passato da Lenin a Mussolini, non tradì e si fece ammazzare a Piazzale Loreto. E non basta. Sulla scorta di un’equivoca contiguità tra destra e sinistra, dopo la seconda guerra mondiale, i fascisti ridotti in clandestinità, si rivolsero al PCI: il fascismo ci ingannò, sostennero, noi volevamo la rivoluzione. Non commettete lo stesso errore, non respingeteci nuovamente a destra, tra liberali, qualunquisti e democristiani pronti a difendere la nostra causa. Togliatti si orientò per l’amnistia e ce li trovammo in Parlamento.

Dovremmo aver imparato la lezione. In questi giorni, invece, non si contano gli intellettuali, i militanti e i finti tonti che consegnano cambiali firmate in bianco a Casaleggio e a Luigi Di Maio: destra? Per carità, sono bravi compagni.

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