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16/03/2018

BR e Moro. Rispettate la storia, zittite i “dietrologi”

Abbiamo scritto molte volte che – tra le tante ragioni che tengono in piedi da 40 anni la “misteriologia” sul sequestro di Aldo Moro – una delle più importanti è il business. Si possono pubblicare libri (ma ci si guadagna poco), montare trasmissioni televisive (magari prendendo pezzi di documentari circolanti in Francia), vendere copie di giornali sempre meno appetibili, foraggiare maggiordomi dell’informazione à la carte nominandoli “consulenti delle commissioni parlamentari di inchiesta” (mai arrivate a nessuna conclusione).

E’ una scelta fondamentalmente commerciale (per chi campa di queste cose), che risponde anche ad una esigenza politica eterna: convincere la popolazione che una ribellione è impossibile. Se ci sono stati dei fenomeni che incarnavano fisicamente e duramente la ribellione all’ordine costituito, questi vanno “narrati” inserendoli in contesti ambigui, inconoscibili, di fatto immodificabili (quanto più materiale viene prodotto, meno si deve poter arrivare a una conclusione attendibile).

La letteratura dietrologica riciclata in questi giorni è di fatto infinita, quindi impossibile da decostruire nella sua falsità. Ci vorrebbero anni e un esercito di archivisti attenti, a conoscenza dei fatti, osservatori obbiettivi come entomologi. E in ogni caso la schiera dei dietrologi di professione tirerebbe fuori una frase oscura, un’immagine sgranata, un dubbio che non ammette risposta, in modo da poter ricominciare da capo con l’identico copione.

Abbiamo scelto perciò un solo esempio, che vale come format per tutta la produzione di questi giorni: Ezio Mauro, ex direttore di Repubblica, che per la Rai ha curato una docu-fiction (non proprio un documentario, non proprio una telenovela, insomma un pasticcio) intitolata “Il condannato – Cronaca di un sequestro”. Il trailer l’avete visto tutti, e sembra quasi la presentazione di una puntata di “storie maledette”.

La tesi, o il filo “narrativo” è dichiarato fin dall’inizio: tutto era già deciso prima ancora del sequestro.

Anche un novelliere di scarso talento si porrebbe la domanda: ha senso sequestrare un personaggio di quella importanza, tenerlo prigioniero per quasi due mesi, correre rischi potenzialmente mortali ogni minuto nel corso di quel periodo, avendo già deciso quale sarà la conclusione?

Un sequestro politico è un’operazione militare complessa, molto più complessa e rischiosa di un’azione puntuale. Cambiano radicalmente la durata, il numero delle variabili da tenere sotto controllo, gli imprevisti neppure immaginabili, il logorio delle forze messe in campo...

Insomma, un piccolo gruppo guerrigliero (la terminologia attuale non contempla più questa parola che ha segnato il dopoguerra fino alla caduta del Muro), se ha deciso di colpire un personaggio politico, non ha che da farlo. Nel modo più semplice e rapido possibile.

Non è una “tesi ad hoc”, ma una regola rintracciabile in ogni storia di guerriglia (urbana e non), nell’esperienza dei Gap di città nella Resistenza, addirittura scritta nei manuali o nei “diari” dei protagonisti.

Troppo semplice, si dicono i dietrologi. In fondo tenere alta la tensione per 55 giorni è molto più “disarticolante”, apre più contraddizioni, ecc... Tutto vero, ma proprio queste considerazioni costringono – o costringerebbero un narratore intellettualmente onesto – a spostare l’analisi sul piano politico. Ossia: qual’era l’obiettivo politico di chi ha sequestrato Moro?

Se c’è un obiettivo politico – costringere il potere a una trattativa (lo scambio di prigionieri come implicito “riconoscimento” della controparte come soggetto politico) – allora è evidente che nessuna conclusione poteva essere “già decisa”. La conclusione, in altri termini, sarebbe stata il risultato di una partita complessa, complicata, tortuosa e rischiosa per tutte le parti in conflitto. Una dinamica da tragedia, non da sceneggiato.

Il “buon” Mauro fissa invece l’attenzione sul termine “condannato”, indirizzando l’ignaro spettatore verso la sensazione che “tutto fosse già deciso”.

E dire che neanche i pentiti o dissociati che fa parlare avallano questa idea. E dire che ogni dettaglio di quei 55 giorni è stato descritto, narrato, motivato da ognuno dei protagonisti. Indipendentemente dal ruolo poi assunto (pentiti, dissociati, irriducibili).

Potremmo andare avanti a lungo, ma ci sembra inutile. A spiegare il reale atteggiamento dei brigatisti in quel frangente ci sembra assai più efficace questo sintetico passo di Barbara Balzerani:

Telefonammo alla famiglia del nostro prigioniero. Era pericoloso farlo, potevano intercettarci ma ci andammo anche come fosse un dovere, oltre che un atto politico. Chi stava a sentire avrebbe potuto capire che c’era un varco in cui la parola aveva forza di niente altro. Non fu pronunciata, neanche sussurrata. La fermezza a ogni costo, anche della rovina. Come in risposta a logiche altre rispetto a quanto succedeva. E non sono bastati tre decenni perché una parola in più venga spesa per motivare tanta insensata rigidità.

Forse un non detto, talmente banale da non poter dire, dietro le quinte della tragedia. Perché il tempo passato non dà ragione alle motivazioni allora addotte, né credibilità ai sibili di un freddo serpentario. Più vicino al vero la foto di gruppo di un ceto politico cieco e sordo, asserragliato nei suoi palazzi, che ancora oggi continua a fare per suo conto, mettendo stancamente in agenda la sua crisi di rappresentanza. Trent’anni dopo lo stesso linguaggio, nessun dubbio, nessuna tentazione di capire. Se non altro per non farsi sorprendere ogni volta che l’indisponibilità al cambiamento presenta il conto. Come in quegli anni quando l’arretratezza di un paese bloccato ci ha consentito di nascere, durare più di un decennio, condizionare, attrarre consenso. Come non fossimo in uno di quei paesi del ricco occidente ma sui monti di qualche serra.

Siamo stati i sintomi febbrili di un paese malato di finta condivisione di ragioni superiori, dove il perenne conflitto di poteri non raggiunge la dignità di forza di trasformazione, che preferisce cercare nell’occulto le cause della propria anomalia, che dentro il suo capace stomaco macina ogni conto aperto con la parola data. Un paese che non ha mai deciso di destituire del tutto il suo papa re.

Non ci voleva molto per fare tutto da soli.

Nella equivalente arretratezza di ragionamenti e prospettive buone per altre latitudini e stagioni, ci siamo immaginati un luogo del potere che non c’era.

Una classe dirigente capace di lungimiranza e governo dei conflitti.

Un paese spaccato in due.

L’esistenza in vita delle condizioni del comunismo rivoluzionario.

La complessità del processo mercantile di riordino globale per un fatto compiuto.

Ma abbiamo fatto tutto da soli.

Chi ci accusa di essere stati manovrati dovrebbe concederci almeno l’originalità di aver servito senza compenso, senza sconti di pena o salvacondotti all’estero. Un vero mistero.

(Barbara Balzerani – Perché io, perché non tu)
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