di Stefano Mauro
Gli scontri di questi
ultimi giorni riportano la Tunisia a sette anni fa. In molte città la
popolazione, per l’ennesima volta, protesta per le precarie e difficili
condizioni del paese: disoccupazione, crisi economica e, come novità
dell’ultima finanziaria del 2018, aumento delle tasse su tutti i beni di
prima necessità.
“Una condizione necessaria”, secondo il primo ministro Youssef Chahed
per limitare il progressivo indebitamento estero che ha messo, però, in
crisi lo stesso Governo di Unità Nazionale (Gun). Proprio a causa della
crescente tensione e al calo di consensi il presidente della repubblica
Beji Caib Essebsi, leader del partito laico Nidaa Tounes, ha annunciato
che si presenterà alle prossime elezioni comunali di maggio con una
coalizione contrapposta all’attuale alleato Rachid Gannouchi, segretario
del partito islamista Ennahdha.
“Sono convinto che la Tunisia uscirà da questa crisi e questo
sarà l’ultimo anno di sacrifici per il nostro popolo”, così si è
giustificato il premier Chahed dopo l’approvazione delle finanziaria
“lacrime e sangue” che vedrà aumenti anche del 300% su numerosi
prodotti di prima necessità per rispettare e contrastare l’indebitamento con l’Fmi. Le
proteste di questi giorni, per alcuni una seconda rivoluzione,
continuano comunque a minare la durata dello stesso Governo Unità
Nazionale prima della sua fine naturale prevista nel 2019 e le
opposizioni sono schierate perché le riforme della finanziaria vengano
rimosse, in particolare quelle sul carovita.
A sentire tutte le forze politiche di opposizione la pazienza sembra finita e l’ottimismo pure. Quello
che resta nel settimo anniversario della “rivoluzione dei gelsomini”,
quando la rivolta popolare fece scappare l’allora dittatore Ben Ali, è
una profonda crisi economica, sociale, ma soprattutto politica.
“Oggi, nonostante le vittorie e le conquiste sociali, non è tempo di
romanticismo o celebrazioni – ha dichiarato Hamma Hammami segretario del
Fronte Popolare (sinistra tunisina) – Il governo evidenzia il suo
immobilismo, la sua impreparazione ed il suo dispotismo”. Secondo gran
parte delle opposizioni il fatto che la rivoluzione dei gelsomini sia l’unica ad aver resistito alle primavere arabe non può più bastare
e rischia di far implodere un paese che, nonostante tutto, è ricco di
una vitalità sociale e culturale forse unica in tutta l’area del
Maghreb.
La Tunisia ha ottenuto numerose conquiste: le prime elezioni
politiche e democratiche del 2011 e del 2014, ma soprattutto la
Costituzione, una delle più progressiste e laiche nel mondo arabo.
Numerose le riforme in campo dei diritti umani, della parità di
genere – come la legge che equipara le donne agli uomini o le libertà
per il matrimonio tra persone di religione diversa. Il Movimento #Mouch
bessif contro l’obbligatorietà del Ramadan, le lotte della comunità Lgbt
con l’apertura di una Web-radio, unica nel mondo arabo, o le
fondamentali riforme sull’equiparazione dei diritti delle donne ne sono
solo alcuni esempi.
Dall’altra parte, però, il paese attraversa un periodo di
crisi a livello economico e politico e molti analisti mettono in guardia
contro un ritorno all’autoritarismo. Decine di personaggi
della società civile, universitaria, artisti e militanti hanno
recentemente firmato una petizione (#Fech Nestanou – Cosa aspettiamo?)
per “salvaguardare gli spazi di libertà conquistati con il sangue del
2011”. Il governo sembra puntare al mantenimento dello status quo,
soffocando qualsiasi possibilità di opposizione o dissenso come la
violenta repressione poliziesca sulle manifestazioni di questi giorni o
lo “stato d’emergenza” rinnovato ogni sei mesi a causa dell’emergenza
terrorismo.
“Molte delle rivendicazioni della popolazione non hanno avuto nessun
tipo di risposta soprattutto in termini di lavoro o contrasto alla
corruzione”, c’è scritto nella petizione con una chiara accusa al
presidente di portare avanti un’offensiva anti-democratica.
In quest’ottica si possono leggere la recente legge di
“riconciliazione nazionale” per riabilitare gran parte della vecchia
classe politica della dittatura di Ben Ali (settembre 2017) o il
continuo rinvio delle elezioni municipali previste, dopo sette anni, per
fine dicembre 2017 e rimandate, forse, a maggio 2018. Un alto
tasso di disoccupazione (35% nelle zone rurali), un rilancio economico
inesistente, una classe politica ancora troppo corrotta e un progressivo
aumento dei prezzi sui beni di prima necessità: questi sono i
principali problemi della Tunisia a sette anni dalla rivoluzione dei
gelsomini.
La mancanza di prospettiva per i giovani fa aumentare
considerevolmente la minaccia di una deriva jihadista all’interno del
paese. Dopo i tre terribili attentati del 2015, il Museo del
Bardo di Tunisi (marzo), il resort di Sousse (giugno) e l’assalto ad un
convoglio della Guardia presidenziale a Tunisi (novembre), il paese sta
attraversando un periodo di relativa “stabilizzazione e calma”, secondo
le parole del primo ministro tunisino Youssef Chahed.
Intervistato riguardo al dibattito sul rientro dei foreign fighters
(5mila i giovani del battaglione “tunisino” nelle truppe del califfato) ,
il primo ministro ha dichiarato che “la minaccia del terrorismo
persiste, ma il dispositivo delle forze di sicurezza ha acquisito una
notevole esperienza ed efficacia, puntando allo smantellamento
preventivo delle cellule terroriste”. Nonostante i progressi e la
“relativa calma” i gruppi jihadisti, favoriti e sostenuti in passato
dallo stesso partito islamista Ennahdha, restano una minaccia continua
con oltre 800 persone nelle carceri tunisine.
“Le riforme in campo politico, economico e sociale, soprattutto nelle
zone rurali del paese, sono il nostro unico mezzo per mantenere vive le
conquiste di sette anni fa, per contrastare il terrorismo jihadista e
per far crescere la Tunisia con i suoi giovani”, ha concluso Hammami
riguardo al futuro del paese.
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