Un 55enne tunisino è morto ieri durante una protesta contro l’austerità avvenuta a Tebourba,
40 km dalla capitale Tunisi. Cinque i feriti. Arrestate 44 persone per
possesso di armi (coltelli per lo più), per aver dato fuoco ad alcuni
edifici governativi e aver rubato nei negozi.
A confermare il decesso dell’uomo (di cui non sono ancora note le generalità) è stato il ministero degli interni che, in una dichiarazione, ha spiegato che l’uomo è morto in ospedale dove era ricoverato.
Secondo la versione ufficiale che cita il parere di un medico legale,
la vittima avrebbe sofferto di “mancanza cronica di respiro” e il suo
corpo non avrebbe mostrato “alcun segno di violenza o di essere stato
investito”. Per Tunisi, il cinquantenne è molto probabilmente morto per
aver inalato i gas lacrimogeni. Diverso il parere degli
attivisti che sui social media affermano che l’uomo è morto dopo essere
stato investito da un veicolo delle forze di sicurezza. La
polizia – scrive l’agenzia statale Tap – avrebbe sparato gas lacrimogeni
e si sarebbe scontrata con i dimostranti dopo che alcuni giovani
avevano dato fuoco ad un edificio governativo.
Le proteste hanno avuto luogo ieri anche in altre 10 città tunisine. A Thala
(nel centro della Tunisia) gli attivisti hanno incendiato dei
pneumatici e lanciato pietre contro la polizia. Scontri si sono
registrati anche a Kassrine, città povera nel centro
del Paese, dove centinaia di persone sono scese in piazza contro
disoccupazione e l’innalzamento dei prezzi. Hanno sfilato per il secondo
giorno di fila, invece, in 300 per le strade di Sidi Bouzid
(il luogo simbolo delle proteste arabe del 2011) denunciando il caro
vita. Le manifestazioni, promettono gli attivisti, dovrebbero continuare
nei prossimi giorni indifferentemente dalla risposta dura data dalle
autorità locali.
Dietro la rabbia popolare c’è la decisione del governo di
alzare le tasse a partire dallo scorso 1 gennaio in base a quanto
prevede la Finanziaria del 2018 concordata con i principali organismi
internazionali. Ciò si è tradotto nella pratica in un aumento
dei costi del carburante, delle tasse su macchine, cellulari, servizi internet, hotel e oggetti, ma anche nell’introduzione di nuove misure
per l’acquisto delle case. L’obiettivo di questi provvedimenti –
sostiene il governo – è quello di ridurre il deficit dello stato al
momento in continua crescita.
Nonostante sia spesso considerata dagli analisti come l’unico esempio
riuscito delle rivolte arabe, la Tunisia vive infatti dal 2011 una
grave crisi economica con il dinaro che ieri ha registrato un nuovo
record negativo. A peggiorare il quadro è il calo del settore turistico
(corrisponde a circa l’8% del Pil) che non è riuscito ancora a
riprendersi del tutto dai due gravi attacchi terroristici del 2015. E’
vero che la deposizione nel 2011 del presidente-padrone Zine el-Abidine
Ben Ali non ha prodotto lo stesso bagno di sangue e instabilità come
nelle altre nazioni arabe, tuttavia i governi che si sono succeduti non
sono riusciti a migliorare le condizioni economiche e sociali di molti
tunisini che, soprattutto nelle aree periferiche e storicamente
marginalizzate del Paese, continuano a portare avanti quelle stesse
istanze socio-economiche alla base della sollevazione del 2011.
In questo clima di tensione, oggi il premier tunisino Yousef Chahed ha provato a calmare gli animi.
“Le persone devono capire che la situazione è straordinaria e che il
loro paese ha sì difficoltà, ma riteniamo che il 2018 sia l’ultimo anno
difficile per i tunisini”. Chahed è poi tornato sui fatti di ieri.
“Quanto accaduto – ha dichiarato – non ha nulla a che fare con la
democrazia o con le proteste contro il caro vita. I manifestanti hanno
dato fuoco a due stazioni della polizia, saccheggiato negozi, banche e
danneggiato proprietà pubbliche in molte città”.
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