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14/01/2018

Resistenza tradita e lotta di classe


Merita almeno una chiosa questo “La Repubblica inquieta” di Giovanni De Luna (Feltrinelli) che tratta degli anni turbinosi dalla Liberazione all’attentato a Togliatti, seguendo il filo della battaglia politica e (con grande attenzione, per la verità) delle lotte sociali di un periodo assolutamente decisivo per l’impronta, che, nella fase del suo consolidamento, avrebbe assunto la neonata Repubblica.

Il testo di De Luna dedica, infatti, una particolare attenzione a un aspetto particolare emerso in quel periodo: quello della cosiddetta “Resistenza tradita”, ovvero del permanere, in settori importanti della partigianeria (quasi esclusivamente, ma non solo, legati al PCI), di una sorta di “vocazione rivoluzionaria”, nell’idea della prosecuzione della lotta di Liberazione da trasformare in “rivoluzione sociale”.

Una “vocazione rivoluzionaria” posta ben al di là degli specifici episodi che poi avremmo individuato come quelli del “triangolo della morte” o della “Volante Rossa”, ma collegata a un fattore fondamentale almeno per l’epoca, di identità politica: quello dell’appartenenza di classe.

Un’appartenenza che si collocava direttamente ben dentro ai meccanismi culturali di riconoscimento collettivo degli operai della grande fabbrica, in particolare di quella parte di operai specializzati di “mestiere” appartenenti all’aristocrazia.

Un’aristocrazia operaia, acculturata politicamente che aveva fornito alla Resistenza i quadri più importanti in quel tessuto intermedio che aveva costituito la trama più forte nell’organizzazione delle Brigate e del loro radicamento rispetto alle popolazioni.

Permeava quell’“ubi consistam” rappresentato dalla classe operaia “forte”, “stabile”, “concentrata” in particolare al Nord e più specificatamente nel triangolo industriale, un forte senso di appartenenza di classe, acquisito quasi “naturalmente” e di conseguenza eguale senso di appartenenza al Partito.

Non che non ci fossero operai negli altri Partiti, socialista e democristiano, ma il senso di appartenenza di questi risultava assai diverso: è questo un dato che va riconosciuto.

Attraverso il filo della ”Resistenza Tradita” e della possibile esistenza di un’organizzazione rivoluzionaria interna al PCI, De Luna sviluppa il racconto dei vari passaggi cruciali del periodo: l’occupazione delle terre, il ritorno in montagna a Santa Libera, la vicenda della polizia partigiana, del reintegro dei fascisti, della costruzione dello “scelbismo”, l’occupazione della prefettura di Milano per protestare contro la destituzione del prefetto Troilo, fino ai moti nei giorni tragici dell’attentato a Togliatti e a ciò che accadde appunto a Torino, Genova, Milano, nel senese, sul Monte Amiata e in altre località.

Episodi che fanno da sfondo ai grandi passaggi epocali: la formazione del governo Parri e di quello De Gasperi, le elezioni per l’Assemblea Costituente, il referendum istituzionale, la cacciata di comunisti e socialisti dal governo, il 18 aprile, l’attentato a Togliatti.

Alla “Resistenza Tradita” si opponevano, all’interno del Partito Comunista, le ragioni – non tanto e non solo derivanti dall’incipiente scissione in blocchi della contesa mondiale e la necessità di prendere parte in essa – ma soprattutto rivolte all’emergere della “vocazione nazionale” del Partito.

Una “vocazione nazionale” agita in funzione di rappresentanza della classe operaia che era proposta come linea assoluta (senza spazio per contraddizioni, come faceva capire Togliatti) e anche come momento di una strategia difensiva per sventare il rischio – addirittura – di una messa fuori legge nel clima della guerra fredda e della scomunica papale.

In quel momento (però De Luna non vi accenna) principia anche l’operazione di divulgazione “ragionata” e “temperata” (personalmente ancora da Togliatti) del pensiero gramsciano.

Una operazione divulgativa e pedagogica che ha consentito ai comunisti italiani di mettere in ombra il materialismo dialettico sovietico, fornire la piattaforma per l’elaborazione strategica del “partito nuovo” aprendo il solco teorico su cui basare la “via italiana al socialismo” tesa alla costruzione della “democrazia progressiva” e difendere, infine, nel clima ideologico della guerra fredda, la continuità della cultura democratica progressista italiana, conquistando una generazione di intellettuali di cultura laica, storicista e umanistica a posizioni genericamente marxiste, senza provocare “lacerazioni troppo nette”.

In sostanza si formò quell’impasto dialettico formidabile che consentì ai comunisti italiani di stare all’opposizione al di fuori da qualsiasi tentazione minoritaria e che fu denominata “doppiezza”. Un’ambiguità positiva sulla base della quale si sviluppò in buona parte la forza di un grande partito ad integrazione di massa.

Fin qui tutto descritto schematicamente in questa sede e non certo con la ricchezza di cui è stato capace De Luna elaborando il suo lavoro.

Non era questa però la ragione del mio intervento, altrimenti non ce ne sarebbe stato bisogno.

Si è trattato, invece, attraverso questo intervento di dimostrare la volontà di testimoniare quanto sia valso nel profondo della coscienza operaia del tempo l’acquisizione piena dell’idea della “classe” quale fattore ineludibile della propria collocazione sociale e politica, e quanto questo elemento dell’immediatezza della posizione di “classe” abbia inciso nel tempo determinando il realizzarsi di una vera e propria forma di identità politica e assieme morale.

Una identità politica e assieme morale che formò la cosiddetta “diversità comunista”.

Una “diversità comunista” che si era però arrestata sulla soglia del dettato costituzionale, la cui elaborazione era stata intesa, in particolare dalla sinistra comunista, come avvio di una fase di transizione: quando, a cavallo del ’68, ci fu chi si accorse di quel limite e pose la questione del suo superamento attraverso una rielaborazione di stampo gramsciano, in relazione a ciò che era mutato negli anni.

Il Partito nei suoi organismi dirigenti escluse una possibilità di revisione di quella linea, anzi spostandone vieppiù gli accenti in una visione di compromesso, respingendo anche l’idea di una presa di più decisa autonomia dal quadro internazionale che aveva imposto limiti e fraintendimenti protrattisi per due decenni tra i’50 e i ’60.

Con il “compromesso storico” il PCI si pose così sul piano dell’esercizio della tattica interna al sistema intendendo il passaggio al governo quale solo possibile punto di apertura e di avanzamento in quella transizione che, erroneamente, si riteneva già avviata.

Chi scrive non visse direttamente il periodo compreso nella ricostruzione di De Luna (tra il 1946 e il 1948) come parte attiva per ragioni anagrafiche ma ne fu influenzato perché circondato, già ragazzo, proprio dall’avere attorno rappresentanti di quella classe operaia più volte richiamata. Una rappresentanza attraversata nei suoi esponenti sia dalla tensione della “vocazione nazionale” del Partito, sia dalle aspirazioni della “Resistenza Tradita”.

Un testimone presente ma non ancora in grado di essere protagonista, ma abbastanza capace di apprendere si direbbe oggi “in diretta” il senso dei discorsi e delle emozioni che in quel momento si esprimevano in particolare in una Città ad egemonia operaia, nella quale la Resistenza aveva scritto pagine importanti.

Quei giorni, e quelli successivi dell’occupazione delle fabbriche negli anni ’50, furono insieme “educazione sentimentale” e “assegnazione d’identità” nel trasformarsi via via da semplice testimone a parte direttamente attiva.

Insomma: imparammo tutti a distinguere e a scegliere da che parte stare, ed è stata questa una lezione che è valsa per tutta la vita.

Una lezione smarrita dalle nuove generazioni per assenza di continuità nella memoria.

Ancor oggi, a distanza di settant’anni, è la memoria storica di quel periodo che ci consente, infatti, di riconoscere la realtà, pur nelle radicalmente mutate condizioni generali, prenderne atto e impadronirsene anche sul piano politico.

La condizione materiale di “classe”, infatti, non si è ristretta ad alcuni specifici settori sociali coinvolgendo la stragrande maggioranza in una sorta di zona grigia appartenente al soggetto sfruttato e/o consumatore, bensì si è allargata ponendosi quale elemento di identità sociale a un contesto di aspetti nella materialità della vita che ormai appartengono al modificarsi continuo nel rapporto tra struttura e sovrastruttura.

Questo significa che, ben al di là di eventuali numeri raccolti nella ricerca necessaria della rappresentanza istituzionale, la visione da offrire da parte di una adeguata soggettività politica non risulterà mai minoritaria semplicemente perché adeguata alla complessità delle contraddizioni da affrontare proponendosi di risolvere.

Ne deriva così un’attualità nell’esigenza della lotta sociale alla quale deve corrispondere la costruzione di uno sbocco politico: la tematica del rovesciamento dei rapporti di forza tra sfruttati e sfruttatori si pone interamente nell’oggi come avevano intuito coloro che liberata l’Italia dal fascismo avevano ritenuto soltanto parziale e incompleta la loro opera e il loro sacrificio.

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