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13/01/2018

Meno lavoro, più occupati: l’orizzonte della nuova “crescita economica”

All’inizio, più o meno un anno fa, la “crescita” era derisa dai più: “non c’è crescita, sono solo oscillazioni statistiche senza ricadute nella realtà”. Col passare dei mesi, la narrazione si faceva più performante: “c’è una crescita, ma è senza lavoro”. Oggi siamo allo step successivo: “mai così tanti occupati dal 1977”. Il coro mediatico ripete l’ultima buona notizia sul fronte economico: con 23.183.000 occupati, non abbiamo mai avuto tanti lavoratori in attività (qui). Siamo davvero usciti dalla grande recessione decennale? Le statistiche si stanno traducendo in condizioni materiali migliori per la popolazione? In realtà, ancora no. Anzi, la dinamica del mercato del lavoro, speculare tanto in Italia come in Germania e nel resto d’Europa, ci racconta di un impoverimento complessivo e progressivo dei lavoratori europei. In Italia sono aumentati gli occupati, ma sono diminuite le ore di lavoro (-1,1 miliardi dal 2008) (qui).

(qui)

Quello che prima veniva prodotto da un lavoratore, oggi viene prodotto da due o più lavoratori. Il tutto non solo a condizioni salariali minori, ma soprattutto a condizioni contrattuali drasticamente peggiorate. Ciò che veniva prodotto nel 2008 da un lavoratore stabilmente contrattualizzato, oggi viene prodotto da due lavoratori meno garantiti, precari, impoveriti: «se nel 2008 i dipendenti full time erano l’86 per cento del totale, 8 anni dopo si sono abbassati all’81 per cento. Quelli a tempo parziale, invece, sono saliti dal 14 al 19 per cento del totale». Di converso, ovviamente, è diminuita la produttività: «Con una produttività del lavoro che ha subito una contrazione molto importante sia nei servizi (-3,1 per cento) sia nelle costruzioni (-7,1 per cento) – settori, questi ultimi, che danno lavoro al 79 per cento del totale dei dipendenti presenti nel Paese – anche la retribuzione media per occupato ha registrato una forte contrazione: tra il 2008 e il 2016 è diminuita, al netto dell’inflazione, del 3,4 per cento». Quindi si, abbiamo più occupati del 2008, anzi: dal 1977. Ma questi sono più poveri e contrattualmente meno protetti.
E’ una tendenza generale, che non riguarda solo l’Italia. Ed è una tendenza che non riguarda solo i nuovi entrati nel mondo del lavoro, ma che travolge chiunque abbia una mansione dipendente. La crisi, dunque, sta volgendo al termine. Ma il panorama che ci hanno lasciato le politiche anticicliche è quello di un nuovo mercato del lavoro, assimilato al modello anglosassone fondato sullo scambio tra produttività, salari e diritti contrattuali. I salari sono ancora debolissimi, ma probabilmente cresceranno (molto lentamente), al prezzo però dello scardinamento definitivo di ogni garanzia contrattuale, prima fra le quali l’abolizione progressiva della contrattazione nazionale in funzione di quella aziendale o di secondo livello. Per non dire dei diritti sociali legati al salario indiretto e differito: pensioni, sanità, scuola e università, trasporti, diritti collegati alle garanzie contrattuali generali e in via di scomparsa perché – questo lo scambio diabolico – monetizzati nella busta paga, che ovviamente corrisponderà a una percentuale nettamente inferiore dell’insieme delle prestazioni sociali oggi (ancora) garantite dallo Stato. Teniamo dunque a mente l’orizzonte di senso entro cui verrà iscritta la probabile crescita dei salari, che sarà il prossimo gradino della narrazione edificante sull’economia: una crescita che nasconde un impoverimento sociale.

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