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12/01/2018

Macròn e i diktat europei: il convitato di pietra sulle elezioni


In queste ore abbiamo scoperto che il nostro paese è affetto da “macronite”, una malattia endemica che divampa spesso soprattutto nelle redazioni e nei gruppi d’opinione. “Facciamo come X o Y”, “servirebbe un leader come X o Y”... E’ un virus piuttosto diffuso che, insieme al “vincolo esterno” usato per piegare il paese alle scelte più antipopolari, viene utilizzato come una clava nella narrazione mediatica sulle priorità sociali oggetto di conflitto e dei rapporti di forza.

La visita di Macron in Italia è così diventata l’ennesima dimostrazione di tossicità distribuita a piene mani. Il sostegno piuttosto esplicito che Macròn ha dato a Gentiloni (e al suo partito, il Pd) non ha suscitato le prevedibili e dovute reazioni contro le “ingerenze sui problemi interni”.

Tutte le maggiori forze politiche si sono infatti abituate ad abbassare la testa verso il più forte – ieri i presidenti Usa, oggi quelli dei maggiori stati europei – soprattutto perché il dominio del “vincolo esterno” sulle scelte interne è in vigore e agisce senza contrasti e in misura crescente dal 1992. Ossia dall’anno del Trattato di Maastricht e della famosa legge finanziaria “lacrime e sangue” di Giuliano Amato, fatta specificamente per centrare i parametri dell’Unione Europea appena costituita.

Anche se non accompagnato dai dragoni armati di fucili Chassepots, come è avvenuto spesso nel XIX secolo, l’ingerenza della Francia di Macròn sulla vita politica italiana si è palesata in molti editoriali sui giornali di oggi. Ma è un ingerenza declinata non più nei termini del bonapartismo francese ottocentesco, quanto sul dispotismo tecnocratico europeo del XXI secolo.

E’ il Sole24Ore (Lina Palmerini, pag. 5) a sottolineare come tutti i leader politici che in passato avevano bofonchiato qualcosa di critico verso l’Unione Europea (Di Maio, Salvini, Berlusconi, Renzi) abbiano già abbassato i toni, la testa e la cresta. Soprattutto segnala come la prima verifica è attesa già la prossima settimana, con il voto in Parlamento sulla nuova spedizione militare italiana in Niger (insieme ai militari francesi e tedeschi). Chi avrà il coraggio di dire NO alla nuova guerra neocoloniale – stavolta in dimensione europea – nelle terre d’Africa?

Sulla stessa linea c’è anche l’editoriale che Repubblica ha affidato al politologo francese Marc Lazar, il quale piuttosto esplicitamente rammenta a tutti coloro che saranno impegnati nella campagna elettorale “a ricordarsi dell’Europa”. Il ricatto politico, morale e materiale contenuto nell’editoriale di Lazar è sempre lo stesso: “Bisogna sapere se l’Italia vuole mettersi ai margini dell’Europa o ritrovare il posto che gli compete. Se la bilancia dovesse pendere dal lato degli euroscettici gli effetti per l’Italia e l’Unione Europea sarebbero enormi”. Ed è curioso perché, come abbiamo visto, tutti i leader delle maggiori forze politiche hanno già abbassato la testa proprio sull’obbedienza ai diktat e al perimetro di comando dell’Unione Europea. Al momento non c’è nessuno dei partiti con ambizioni di governo che ne rimetta in discussione le scelte o le gerarchie. Insomma è una sorta di repetita juvant, che serve a ricordare chi comanda e chi impone la tabella di marcia.

Nelle settimane scorse, anche nel dibattito tra i movimenti sociali e le realtà politiche che hanno dato vita a Potere al Popolo, si è alquanto sottovalutato che proprio il rapporto di subalternità o di rottura con l’Unione Europea sarà comunque il tema dirimente e chiarificatore della campagna elettorale. Come avviene spesso, è stata poi la realtà a imporlo nei fatti. Sarà dunque decisivo affrontarlo per l’importanza che ha nel delineare il campo della conservazione dello status quo da quello di un vero cambiamento politico e sociale.

Macròn, reduce dalla firma del nuovo patto di ferro con la Germania attraverso il Trattato dell’Eliseo, è venuto in Italia a rammentare come stanno le cose e a sventolare la caramella davanti alle leadership politiche italiane (Pd, destra, M5S) impegnate in una competizione tra loro, ma senza distinzioni significative sulle priorità sociali strategiche su cui delineare le scelte per un paese con 18 milioni di poveri, 11 milioni di persone che non si curano più per motivi economici, 3 milioni di disoccupati, 2 milioni e mezzo di precari, 14 milioni di abitanti nelle periferie, 700mila senza casa, quasi 5 milioni di emigrati all’estero e i salari di chi lavora tornati al livello del 1995 (dati del Fmi).

Un massacro sociale, esattamente quello che “ci aveva chiesto l’Europa”

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