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21/01/2018

La nascita e il declino del Pci

Lo smarrimento d’identità

Sistema di valori? Identità Politica? Senso di appartenenza a una grande comunità solidale?

Quale il lascito del PCI, nella realtà quotidiana vissuta da coloro che sono stati militanti di quel partito, a distanza di oltre vent’anni dal suo scioglimento (uno “scioglimento negato”, mai formalizzato ma mascherato da “trasformazione”, ma in realtà reso reale ed evidente dal rifiuto di centinaia di migliaia di donne e di uomini a proseguire il proprio impegno politico in un diverso contesto)?

Questo è l’interrogativo, cui cercheremo di fornire una parziale risposta attraverso questo nostro lavoro.

La premessa di carattere generale, può essere così riassunta: nei sistemi contemporanei è difficile immaginare che vi possa essere attività politica senza i (o al di fuori dei) partiti.

Probabilmente, esperienze particolari sono costituite da società tradizionali governate da famiglie con relazioni di potere di tipo patrimoniale e personale, oppure da sistemi che hanno messo al bando le organizzazioni politiche (regimi militari o autoritari).

Tuttavia, le moderne democrazie sono democrazie partitiche, e un sistema rappresentativo post partitico sembra ancora lontano dall’orizzonte della politica democratica, anche se all’orizzonte si profila un dibattito sulla cosiddetta “democrazia elettronica”, con le scelte affidate ai cittadini attraverso l’uso del computer.

L’analisi politologica contemporanea abbonda di termini quali “tramonto”, “crisi”, “declino” dei partiti e affolla le proprie indagini di metafore quali “destrutturazione”, “riallineamento” o “terremoto” dei sistemi partitici ma l’osservazione della realtà delle dinamiche politiche reali indica come i partiti politici, benché abbiano molti critici, molti antagonisti e un numero crescente di competitori, sembrano avere ben poche alternative concrete e attraenti.

Il PCI, cui intendiamo riferirci in quest’occasione, agiva in un quadro politico italiano contraddistinto, per un lungo periodo, da partiti dal forte radicamento di massa, prevalenti per un lungo periodo (almeno fino alla fine degli anni’70) sulla società civile, che agivano all’interno di un sistema pluripartitico di tipo classico, imperniato su di un sistema elettorale di tipo proporzionale corretto da uno sbarramento, derivante dal conseguimento di un quoziente pieno in almeno un collegio.

Il nostro riferimento sarà rivolto al “partito nuovo” di Togliatti che nacque, all’indomani della liberazione, con la decisione di abbandonare la concezione del partito di quadri e trasformare il PCI in un partito di massa, largamente radicato, come già si faceva cenno, nella società.

Il Partito cercò così elettori e iscritti in quasi tutti i gruppi e i ceti sociali: dagli agricoltori, ai fittavoli, ai braccianti, agli operai dell’industria, ai nuovi ceti medi e ai piccoli e medi industriali.

Malgrado tutti gli sforzi dei dirigenti questa presenza sociale del PCI, fino a buona parte degli anni’60, si limitò essenzialmente alla classe operaia del Nord e ai vecchi “ceti medi” del Nord e del Centro (artigiani, piccoli industriali, cooperatori).

La massiccia organizzazione interna, la crescente urbanizzazione, la laicizzazione diffusa attenuò tuttavia gradualmente i vincoli del singolo, con la propria tradizionale area culturale.

Di conseguenza, di fronte all’aggravarsi della crisi sociale ed economica, aumentò sempre di più il numero delle persone che si sentivano attratte da quelle forze politiche che propugnavano un superamento della crisi, un ammodernamento dello Stato e della Società, oltre che una maggiore giustizia sociale.

Il PCI guadagnò così in misura più che proporzionale, e in modo spettacolare, con le elezioni del 1975 e del 1976, un gran numero di voti fra le donne, i cattolici praticanti e i ceti urbani occupati nel settore dei servizi e in quello dell’istruzione.

In quella fase il PCI riuscì anche a compiere notevoli puntante in quelle zone precedentemente dominate dalla DC, grazie soprattutto alla sua forte caratterizzazione cattolica, come nel Veneto, nel Mezzogiorno, nelle Isole.

L’espansione della presenza nella Società, che dal punto di vista della struttura dell’elettorato fece apparire il PCI come un “Partito popolare di sinistra”, in verità portò solo in minima misura a una modificazione nella composizione di massa dei suoi iscritti.

Gli operai continuarono a costituirne il nerbo (circa il 50% nel 1977).

Se si calcolano i pensionati e le casalinghe, il potenziale classico del Partito salì, in quel periodo al 79%.

Quei gruppi sociali che, negli anni’70, contribuirono fortemente ai successi elettorali del PCI, ossia l’intellighenzia scientifica e tecnica, liberi professionisti e gli addetti ai settori dei pubblici servizi, furono invece chiaramente sottorappresentati nelle fila del Partito.

La composizione sociale dei quadri intermedi rivelò, invece, una tendenza opposta.

Infatti, mentre nel 1975 gli operai costituivano oltre il 50% dei segretari di sezione, rappresentavano soltanto il 36% dei delegati al XIV Congresso e scendevano al 24,9% nei componenti dei Comitati Federali.

Il PCI ebbe così, sostanzialmente, i caratteri di un Partito con una strategia radical – socialista, rivolta alle riforme.

In questo modo il PCI divenne il principale antagonista e concorrente della DC.

I Comunisti italiani, se furono soddisfatti della tendenza dell’elettorato tradizionale di Centro – Sinistra a scivolare verso il PCI, furono, invece, contrari a una mera identità con il PSI e a una polarizzazione del sistema partitico italiano.

La creazione di un “grande Partito della Sinistra”, di cui si parlò subito dopo il 1945 e più tardi nel 1965/65, non risultò praticamente attuabile.

Il PCI non riuscì, in sostanza, a sciogliere il nodo decisivo di una pratica dell’opposizione, attraverso il modello dualistico tra un Partito cristiano – conservatore e un grande raggruppamento socialista, o un tentativo di sostituire la DC come partito egemonico accelerando da una posizione di preminenza, la sperimentazione della “via italiana al socialismo”.

Un dilemma non risolto che fu alla base della mancata realizzazione della strategia del “compromesso storico”, di cui fu testimonianza parziale il tentativo della “solidarietà nazionale” (1976 – 1979), il cui fallimento aprì la via a un declino lento ma inarrestabile.


Le ragioni del declino

Dall’inizio degli anni’80 l’emergere di questioni e problemi sui quali sarebbe stato giusto sollecitare un più audace e coraggioso rinnovamento, così come nell’elaborazione che nella proposta furono, invece, assunti come fattori da interpretare in senso di una maggiore omologazione, sia nei comportamenti politici, sia negli orientamenti culturali e ideali che, in quel momento, raccoglievano i più facili consensi.

Cominciava, in sostanza, a far breccia, anche nel PCI o almeno in settori rilevanti del Partito, la grande offensiva ideale e politica neoconservatrice che, proprio in quegli anni ’80, favorita del precipitare della crisi del sistema comunista in tutto l’Est europeo, sia dal logoramento e dall’esaurimento anche delle migliori esperienze socialdemocratiche dell’Europa Occidentale, si sviluppò con impeto in Europa come in America (sotto l’insegna del reaganian – tacheterismo), e i paesi dell’Est come in quelli dell’Ovest.

Andò così maturando, anche nella realtà italiana, una sconfitta che, prima ancora che politica, risultò essere culturale e ideale.

A questo punto debbono essere richiamate almeno tre posizioni (le più esemplificative) che hanno posto in luce come in pochi anni, anche in un paese come l’Italia considerato paradigmatico di un “caso” proprio perché vi si trovava presente il più grande partito Comunista d’Occidente, quest’offensiva “neocons” avesse modificato, in modo radicale, idee e convinzioni diffuse nell’area dell’opinione pubblica progressista, compresa buona parte della sinistra d’opposizione, con conseguenze fortemente negative che poi si sarebbero manifestate, anche sul piano delle scelte e dei comportamenti politici:

1) In primo luogo cominciò a raccogliere consensi, trovando ascolto anche in larghi settori della sinistra politica e sindacale, la tesi che la crisi delle politiche di pianificazione e di programmazione (sia nelle forme della pianificazione centralizzata dei paesi di “socialismo reale” dell’Europa dell’Est, sia nelle forme programmatorie delle politiche keynesiane e delle esperienze di Stato Sociale, sviluppatesi a Ovest e nel Nord Europa, principale per impulso delle grandi formazioni socialdemocratiche) non solo poneva alle forze riformatrici seri problemi di ripensamento, ma costituiva una prova quasi definitiva dell’impraticabilità di serie alternative alle regole dominanti del liberismo, del privatismo, del cosiddetto “libero mercato”, dell’individualismo consumistico. Non a caso l’idea di riaffermare o ricostruire un “punto di vista di sinistra” in economia (a partire, per esempio, dai problemi dell’occupazione o della tutela ambientale o del definire una diversa gerarchia di priorità e di finalità nella produzione e dei consumi) incontrava difficoltà via, via, più estese e anzi veniva rigettata, quasi pregiudizialmente, nell’opinione più diffusa, come astratta e velleitaria. La conseguenza è che diventava quasi un luogo comune affermare che il banco di prova per dimostrare la maturità di governo della sinistra risiedeva, ormai, nella capacità di far valere come scelta prioritaria, senza concessioni a ideologismi solidaristici o a interessi corporativi, il rispetto dei vincoli “oggettivi” delle compatibilità finanziarie e monetarie (da ciò è derivata l’accettazione acritica dei parametri imposti per l’unificazione europea, dal trattato di Maastricht: acriticità che ha impedito di vedere in tempo le possibilità di rivedere il patto di stabilità, fino alla crisi che oggi investe, appunto, gli equilibri politici ed economici del processo di allargamento dell’Europa a 25).

Tornando però al periodo di avvio del declino del PCI deve essere, ancora, fatto rilevare che il diffondersi di queste posizioni di accettazione dell’impostazione neo-liberista ben al di là della tradizionale area moderata, avvenuta tanto più in una fase di intense ristrutturazioni (a partire dai 35 giorni della Fiat del 1980) che già tendevano, in allora, a ridurre e a rendere più precaria l’occupazione, ad accentuare la flessibilità della risorsa lavoro (fino alle esasperazioni attuali) e della risorsa ambiente, a diminuire i vincoli e i costi sociali che pesavano sulla produzione, abbia avuto il risultato pratico di contribuire a indebolire la tutela del mondo del lavoro e a modificare, a svantaggio della sinistra, i rapporti di forza nella struttura produttiva e sociale.

Non a caso, proprio a partire da quella fase, è stato possibile parlare dell’affermazione di quello che è stato definito “pensiero unico” ispirato, appunto, dalla teoria neoliberista;

2) In secondo luogo non si può sottovalutare il peso che ebbe, nel corso degli anni ’80 l’insistente campagna sulla “crisi” e sulla “morte” delle ideologie.

Una campagna che ebbe effetti rilevanti sugli orientamenti di larga parte dell’opinione pubblica.

E’ quasi inutile ricordare quanto di ideologico vi fosse, e continui a esserci, alla base della tesi della “crisi” e della “morte” delle ideologie.

Rimane il fatto che proprio quella campagna propagandistica appena ricordata finì con l’essere largamente accettata anche a sinistra, non solo come critica dei “partiti ideologici” (e partiti ideologici per eccellenza erano considerati, in Italia, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista), ma anche come demistificazione dell’idea stessa di una finalizzazione ideale e morale dell’azione politica.

Alle “finalità”, e al loro presunto retroterra ideologico, andava così contrapposta l’idea della presunta “concretezza” dell’apertura al nuovo, al moderno.

Al punto da presentare, sulla scena del confronto politico, una inedita contraddizione tra “vecchio” e “nuovo”.

Una contraddizione assunta, al punto, da considerare il cosiddetto “nuovismo” come criterio di commisurazione della validità dell’iniziativa politica.

Non c’è bisogno di ricordare, sia pure a distanza di oltre vent’anni, quanto peso abbia avuto una simile posizione nella fase di passaggio del PCI al PDS, cioè dal vecchio “partito ideologico di massa” alla “cosa” di cui non si riconosceva né il nome, né il programma, e neppure le finalità e i contenuti;

3) Il terzo punto riguarda, infine, il fatto che la critica alla degenerazione del sistema dei partiti avesse assunto, via, via, nel corso del decennio, anche in settori, via, via più estesi del gruppo dirigente comunista, un mutamento di segno.

Si era passati, infatti, dalla domanda di “rinnovamento della politica”, così come era stata formulata da Berlinguer, a una proposta di mutamento del solo “sistema politico” (inteso in senso stretto) attraverso il cambiamento delle regole istituzionali ed elettorali.

Si spalancò così, in quel modo, la porta alla deriva decisionista, in particolare all’idea che bastasse “sbloccare” il sistema politico per realizzare l’alternanza e mettere così fine alla spartizione dello Stato, alla corruzione, al malgoverno.

Per “sbloccare il sistema politico” il PCI avrebbe dovuto, così, mettere in discussione se stesso, ponendo fine al “partito diverso”, omogeneizzandosi agli altri partiti.

Erano dunque mature le condizioni per portare a compimento la storia del Partito Comunista Italiano.

Tutto questo è avvenuto mentre la crisi della democrazia italiana era giunta, verso la fine degli anni’80, a un punto di estrema gravità.

La grande occasione che si era pur presentata nel corso del decennio precedente era andata perduta, per cause oggettive e soggettive, senza che si riuscisse a dispiegare quella capacità di promuovere un radicale rinnovamento nel modo di governare, del costume, dello spirito pubblico, del senso dello Stato di cui il paese avrebbe avuto estremo bisogno, ma che, ancora una volta era stato mancato.

IL PCI fu così liquidato in fretta, senza offrire ad alcuno la possibilità di riflettere su di un lasciato politico che andava ormai completamente perduto: l’ultimo atto, probabilmente, fu compiuto al seminario di Arco di Trento nel settembre 1990 allorquando le diverse componenti che si erano opposte ala cosiddetta “svolta della Bolognina” non riuscirono a trovare un effettivo punto d’intesa sul procedere assieme sul piano politico.

Punto d’intesa che poteva essere ancora raggiunto attorno alla relazione svolta da Lucio Magri (un testo fondamentale “Nel nome delle Cose”) e si divise attorno a due analisi rivelatesi entrambe sbagliate: quella del “gorgo” avanzata da Pietro Ingrao e quella della “Rifondazione” intesa subito come soggettività politica organizzata sostenuta da Cossutta e Garavini.

Lo scioglimento del PCI e la dispersione dell’area rappresentativa del 30% del partito che avrebbe potuto costruirsi soggettivamente nel solco della sua identità ancora possibile da mantenere in maniera innovativa e politicamente fruttuosa, rappresentò un punto di vero squilibrio per l’intero sistema politico, cui seguirono altri momenti di sconvolgimento determinati dall’implosione dei grandi partiti di massa avvenuta poco tempo dopo: i suoi eredi, mutate diverse denominazioni da PDS, a DS e PD e collegandosi con alcuni dei residui del vecchio apparato del partito cattolico, hanno accettato “in toto” i meccanismi fondamentali di quell’eterna “transizione italiana” apertasi con lo scioglimento del partito, dal maggioritario, al presidenzialismo (esercitato direttamente, ponendosi ai limiti della Costituzione Repubblicana dal primo Capo dello Stato proveniente dalla storia del PCI), all’accettazione delle formule liberiste che sono state e stanno all’origine della grande crisi che stiamo vivendo applicate in particolare, come è già stato ricordato poco sopra, nella costruzione dell’Unità Europea (costruzione abbracciata acriticamente sul piano economico – finanziario, senza volerne vedere i disastrosi effetti sul piano delle condizioni materiali di vita dei ceti popolari).

Il PD, infatti (usando addirittura ed incredibilmente la struttura delle “primarie” per la selezione del gruppo dirigente, inteso come gruppo “elettorale”), rendendosi così “scalabile” da soggetti pienamente inseriti nella logica della personalizzazione e della concezione della politica come “apparenza del comando” e “individualismo competitivo” si è reso pienamente interno sul terreno di quella concezione esaustiva della “governabilità” (fino al punto di attentare alla stessa Costituzione Repubblicana, in un tentativo fallito soltanto grazie al voto popolare) che ha soffocato l’idea della necessità di un partito capace insieme di sviluppare pedagogia, radicamento sociale, rappresentatività politica della classe: è questo il vuoto più grande che, pur nella consapevolezza di un declino forse irreversibile attraversato nell’ultima fase della sua esistenza, il PCI ha lasciato.

La stessa scissione dal PD di una parte dei dirigenti provenienti dalla storia del PCI sta rivelandosi, alla fine, totalmente coerente con le istanze più negative che portarono allo scioglimento del partito e che qui sono state sommariamente descritte.

Ciò nonostante può valere ancora la pena, pur in tempi di paurosa semplificazione della possibilità di espressione del dibattito politico nella sinistra italiana ed europea, di riflettere sulle vicende che portarono alla liquidazione del PCI per trarne possibili e utili punti di insegnamento per chi, adesso, intendesse come sarebbe giusto provare a percorrere la strada di una ripresa di soggettività politica.

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