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18/01/2018

Baby Gang. Prima creano il disagio sociale, poi lo criminalizzano

Allarme baby gang a Napoli. E’ il mantra circolante in tutte le redazioni dei grandi media bisognosi come il pane di nuovi emergenze e nuove narrazioni criminali. La città poi si presta benissimo a questo tipo di racconti in quanto i narratori non devono per forza di cose conoscere “la realtà reale” ma può bastare loro, per imbastire un decente servizio giornalistico, una superficiale conoscenza di fatti pregressi mischiati a luoghi comuni e frettolose analisi sociologiche. Una vigorosa shakerata e il gioco è fatto!

Un amico del nord che ho sentito in questi giorni mi ha chiesto se non mi facesse paura andare in giro in un posto dove si rischia così facilmente la vita. L’ho rassicurato. Non ho paura; anzi ho paura ma probabilmente come si può averla in qualsiasi metropoli d’Italia e del mondo. Il discorso è più complesso gli ho detto e se bisogna farlo occorre mettere da parte pregiudizi, discorsi coloniali e superficialità.

Intanto è arrivato in città – presentato come il salvatore della patria – anche il ministro Minniti. Come era facilmente prevedibile propone provvedimenti di carattere elettorale. Qualcosa in grado di rassicurare i cittadini senza cambiare di fatto assolutamente nulla. L’annuncio che arriveranno nuovi 100 poliziotti sul territorio metropolitano. Tutto già sentito. Tutto già fatto. Più telecamere e più esercito nei quartieri. Qualcuno chiede invece di abbassare l’età della punibilità penale. Di portarla a 14 anni. Toni roboanti e ultimativi che galleggiano sulla superficie delle cose.

Minniti addirittura equipara queste gang di giovanissimi criminali ai terroristi dell’Isis. Se questo è il ragionamento di un ministro degli interni siamo veramente alla frutta. Poi certo parla, anche perché occorre sempre tenere d’occhio il clientelismo e l’affarismo, di interventi da fare in concerto con le scuole, con le associazioni però il fulcro di tutto il discorso è che solo un’efficace politica repressiva di tipo poliziesco e militare può risolvere le cose. L’ennesimo esegesi alla tolleranza zero la quale – mediaticamente – fa sempre effetto!

Il problema però, a parte le esagerazioni e i sensazionalismi dei media e dei politicanti, è veramente serio. Nell’ultimo mese ci sono state diverse aggressioni. Alcune mostruosamente violente. Il 10 dicembre al Vomero un ragazzo accoltellato da ragazzini perché aveva difeso la sorella da avance troppo volgari. Una settimana dopo sempre al Vomero in piazza Vanvitelli 2 ragazzini accoltellati in modo fortunatamente non grave e addirittura 16 denunciati. Tutti di età dai 12 anni a salire. Il motivo? Nessuno. Voglia di menare qualcuno. Punto!

Il 18 dicembre invece 3 ragazzini in via Foria tentano di rubare uno smartphone a un diciottenne ma il colpo va male e così lo colpiscono con diverse coltellate. La vittima dopo il coma subirà il distacco della pleura. Ancora ad oggi fa fatica a parlare per i danni permanenti riportati.

Il 12 gennaio altro fatto gravissimo: Gaetano, 15 anni, uscito dalla fermata metro di Chiaiano viene picchiato senza motivo da un branco di suoi coetanei. Gli verrà asportata la milza d’urgenza.

3 giorni fa invece nei pressi della fermata metro del Cardarelli un sedicenne è stato circondato, insultato e poi picchiato senza motivo. Naso rotto e 30 giorni di prognosi.

I fatti quindi sono accaduti nei quartieri bene della città come in centro e in periferia. Non esistono insomma zone al riparo da questi avvenimenti. In motorino o in metro si arriva dappertutto.

Quello che inquieta però è la giovanissima età dei protagonisti. Sia delle vittime che degli aggressori. Anzi gli aggressori sono quasi sempre più giovani, seppur di poco, degli aggrediti.

Nei fatti di via Foria i protagonisti, seppur giovanissimi, sono ladruncoli abituali di famiglie di piccoli criminali, provengono dai quartieri a ridosso di Porta Capuana, zona di lumpen e di piccola e frammentata manodopera criminale. L’unico arrestato negli interrogatori non ha fatto i nomi dei complici. Un vero baby boss che però è scoppiato a piangere quando è stato tradotto in carcere minorile. Qui il quadro è più semplice da decifrare.

Più difficile capire invece come si sia arrivati ad una situazione dove adolescenti o preadolescenti si riuniscano in branco per affermare un’inutile e insensata volontà di potenza. Il quadro interpretativo appare nebuloso. Alcuni ragazzini negli interrogatori parlano di guerra ai più fortunati, a coloro che vivono nei quartieri buoni. Un odio di classe declinato alla maniera di arancia meccanica? Una dimensione di vita e di comportamento dove la violenza è un collante per affermare se stessi nel mondo, per definire la gerarchia all’interno del gruppo?

Sintesi compiute sono difficili e sarebbe azzardate provare a farle.

Il sindaco De Magistris ed altri esponenti dell’intellighentia cittadina se la prendono con la serie televisiva Gomorra. Dicono che spinge all’emulazione e a cattivi comportamenti. E’ innegabile che la serie televisiva abbia a Napoli un’incidenza diversa che nel resto d’Italia. La lingua napoletana, le location nei quartieri dove quotidianamente si passeggia, ma ritenere che un telefilm possa essere davvero così determinante è veramente arduo. Al massimo si può pensare che faccia da amplificatore di comportamenti già in essere nel modus vivendi in alcune fasce sociali. Immagini e messaggi che fungono da collettore estetico di posture e codici linguistici.

Nei giorni scorsi, poi, hanno arrestato i protagonisti di una baby gang dei quartieri spagnoli, il più grande ha 12 anni e il più piccolo 9. Bambini ancora non adolescenti. Su facebook si fanno selfie con canne e sigarette tra le labbra, si mettono in posa con pistole e coltelli tra le mani. La provenienza da contesti sociali e familiari degradati la si può notare anche dall’evidente sovrappeso dei loro giovanissimi corpi. Bambini, quindi, dal destino già segnato, senza speranza e senza futuro.

Si evidenzia, dunque, lo scenario, non cinematografico ma tremendamente reale, delle periferie e dei quartieri popolari sempre più degradati. Pensiamo, ad esempio, alla zona est di Napoli dove fino a qualche anno fa dominavano, anche elettoralmente, le sinistre. Ex roccaforti rosse diventate col tempo bacini di voto del PD ed ora zone dove a votare ci va meno del cinquanta per cento degli aventi diritto. Nessuno più si sente rappresentato da alcuno. E in queste zone dove il lavoro non c’è più (negli ultimi trenta anni sono stati dismessi decine di insediamenti industriali ed il loro indotto diffuso) e i corpi intermedi costituiti da partiti ed associazioni civiche sono via via spariti. In questi luoghi è normale che facciano egemonia culturale gli unici soggetti organizzati presenti sul territorio e capaci anche di far circolare un po’ di “reddito”: i gruppi criminali. Certo non siamo più in presenza dei grandi cartelli camorristici dei decenni scorsi e, spesso, si tratta di aggregati a basso tasso di organizzazione che però di fatto condizionano ed orientano la vita aggregativa del quartiere. I giovanissimi in tale deserto culturale e sociale è normale che scelgano come figure di riferimento proprio tali soggetti e l’intero arco dei loro tempi di vita e di relazione. Spesso ragazzi di qualche anno più grandi che camminano con il portafoglio già pieno, che si atteggiano alla maniera dei boss, che hanno aria da vincenti. Come sempre, purtroppo, nei luoghi degli “sconfitti” avere con sé un’aura vincente dà infiniti crediti!

Se si volesse discutere seriamente di soluzioni da adottare si dovrebbe parlare di dispersione scolastica da arrestare, di lavoro che manca, di servizi che di anno in anno vanno peggiorando causa tagli agli enti locali imposti dai governi nazionali e dai pescecani di Bruxelles.

Appena un anno fa il pubblico ministero Woodcook del tribunale di Napoli, a seguito dell’arresto dei componenti di una baby gang di Ponticelli, mise in guardia sul fatto che i giovanissimi protagonisti non erano figli di pregiudicati o criminali abituali ma invece di lavoratori o piccoli commercianti. Soggetti che ancora in un recente passato sarebbe stato impossibile immaginare in tali contesti malavitosi. La società degli adulti li avrebbe preservati, in qualche modo, dal compiere tali scelte e invece ora non è più così.

Le periferie delle grandi aree metropolitane sono il prodotto di una società sempre più povera (economicamente ed anche umanamente) e sempre più individualista. Un mondo reale dove è impossibile immaginare un’azione collettiva in grado di rivendicare diritti, di risolvere i bisogni sociali e di immaginare processi di emancipazione. E se la salvezza può essere solo individuale in un allarmante clima da si salvi chi può e di tutti contro tutti è chiaro che i ragazzi e i ragazzini si comportano di conseguenza. In questo modo le loro scelte sono impulsate da un primitivo spirito animale che nulla considera sennò il proprio benessere individuale immediato, che calpesta coloro che appaiono più deboli. Comportamenti che spingono al parossismo il bisogno di emergere tramite qualsiasi mezzo. Ovvero hanno – nei fatti – interiorizzato tutto il substrato ideologico di una società contemporanea distopica, crudele e profondamente antisociale.

La guerra al potere che non è guerra di riscatto ed emancipazione ma diventa lotta a coloro che dettano le regole che fanno da freno alla loro espansione, alla propria capacità di accaparrarsi di quanto più possono. Un buco nero che risucchia le migliori energie giovanili dei quartieri popolari, che fagocita l’esistente e inquina il futuro. Una spirale perversa che si autoalimenta giorno dopo giorno sulla miseria, sull’ignoranza e sulla perdita di senso comune collettivo.

In tale contesto le ricette securitarie buttate, sapientemente, in pasto all’opinione pubblica dovrebbero essere lo strumento per frenare la caduta verticale di una parte della società napoletana.

In questo sfacelo mettiamoci pure il fatto che dopo trenta anni di Lega al nord e relativa egemonia culturale sui territori si fa fatica ad imbastire discorsi per interpretare l’esistente. Da una veloce rassegna stampa delle testate nazionali si ritrova sempre una doppia chiave di lettura: si certo la povertà, la disoccupazione, la crisi economica però Napoli è Napoli ed è un fatto a sé! Insomma non è un problema di cui l’intera comunità nazionale deve farsi carico. Cornuti e mazziati, tanto per essere chiari. Oppure il solito giochino discriminatorio di tipo sabaudo che va avanti dai tempi di Camillo Benso Conte di Cavour. Non solo derubati e privati delle proprie risorse ma anche colpevolizzati in quanto portatori di una cultura inferiore. Come se la malavita organizzata fosse un problema di cultura e non invece il frutto di determinate scelte economiche e politiche intrinseche al capitalismo.

Da questo punto di vista un dato statistico ufficiale vale più di mille ragionamenti e di tante “libere opinioni”: il Pil del meridione d’Italia è più basso di quello della Grecia. Anche in Grecia negli ultimi anni – dopo la macelleria sociale imposta dall’Unione Europea e subita supinamente da Tsipras – sono cresciuti furti e rapine e atti di violenza contro le persone. Sarà un problema culturale ed antropologico anche per i greci? Sarà la loro cultura? Oppure occorre – finalmente – gettare alle ortiche le narrazioni tossiche ed incominciare a demistificare questa deviante demagogia dell’informazione dominante?

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