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07/12/2017

Yemen - Morto Saleh

Erano decine di migliaia ieri per le strade di Sana’a a celebrare la fine dell’ex dittatore Ali Abdullah Saleh, ucciso lunedì dai combattenti Houthi, a sei anni dalla “primavera” che lambì lo Yemen per trascinarlo dentro una nuova dittatura, quella telecomandata dai Saud. In tantissimi hanno preso parte alla manifestazione voluta dal movimento Ansar Allah nonostante una notte di bombardamenti che ha ucciso decine di civili.
 
Hanno marciato al grido di “Sana’a è libera, gli yemeniti sono uniti”, sfidando il pericolo dei raid aerei. Ma dopo una notte in trappola nelle case, la giornata di ieri è trascorsa senza i jet sauditi. Che hanno però ripreso a volare e a bombardare la capitale yemenita ieri notte, colpendo sia Sana’a che le province limitrofe di Taiz, Haja, Midi e Saada: per la prima volta dall’inizio della guerra è stato colpito anche il palazzo presidenziale, dal 2014 controllato dalla leadership Houthi. Difficile fare un bilancio delle vittime: secondo la Croce Rossa, dal 2 dicembre a ieri mattina erano almeno 234 le vittime dei raid sauditi e degli scontri a terra tra le forze fedeli all’ex presidente e le milizie Houthi. Oltre 400 i feriti, per lo più in gravi condizioni.

Da lunedì gli scontri sono cessati: Ansar Allah ha ripreso il controllo totale della città, dispiegando i propri uomini nelle zone prima occupate dai pro-Saleh. E si prepara alla controffensiva annunciata lunedì sera dal presidente Hadi, il vice di Saleh dal 1994 – quando Yemen del sud e del nord vennero riunificati – fino al 2012 quando lo sostituì alla presidenza per volere del Golfo. Una controffensiva sulla capitale che parta da sud, dove le forze pro-governative sono numerose, e coperta dai raid sauditi. A terra, a fornire la “manodopera” dovrebbero essere le milizie di Saleh, che però – dicono gli analisti – non sono così ampie come si potrebbe pensare. Buona parte dell’arsenale dell’ex presidente è da anni in mano agli Houthi e i capi tribali rimasti legati politicamente a Saleh non hanno più l’influenza di un tempo.

Il timore è dunque quello di un’ulteriore brutale escalation contro il paese, devastato da quasi tre anni di guerra e da un embargo pesantissimo che ha letteralmente affamato la popolazione. Sta qui il sostegno popolare verso gli Houthi, considerati da molti l’unico argine all’aggressione dei Saud e di Abu Dhabi, i due burattinai di un conflitto che non riescono a vincere. E’ proprio dagli Emirati che il figlio di Saleh, Ahmed Ali, ex ambasciatore ad Abu Dhabi e dal 2012 rimasto a vivere nell’emirato, ha lanciato le sue minacce: “Vendicherò il sangue di mio padre”, ha promesso facendo appello alla sollevazione popolare “fino a quando l’ultimo Houthi non sarà cacciato dallo Yemen”.

Ma Ahmed Ali Saleh non ha il potere che millanta. Pur alla guida di uno sforzo diplomatico sotterraneo con cui ha convinto Emirati Arabi e Arabia Saudita a sostenere il padre contro Houthi e Hadi, è di fatto “prigioniero” della volontà di Abu Dhabi e non gode del sostegno militare e politico sul terreno yemenita.

A nulla servono gli appelli delle Nazioni Unite, parole che svaniscono senza orecchie interessate ad ascoltarle: da giorni l’Onu chiede una tregua a Sana’a per portare aiuti alle famiglie intrappolate nelle case da scontri e raid, senza cibo né acqua. C’è preoccupazione per le conseguenze della morte di Saleh, un timore espresso dall’inviato speciale Ismail Ould Cheikh Ahmed: “Questi eventi comporteranno un importante cambiamento delle dinamiche politiche in Yemen”, ha detto mentre denunciava l’impossibilità di portare aiuti alla popolazione negli ultimi due giorni a causa della pioggia di bombe che ha colpito le infrastrutture della capitale.

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